Scusa
Le pareti di quella stanza fatica a riconoscerle.
È vero che è la prima volta che ci entra in quella stanza dalle pareti bianche e anonime e una fila di faretti spenti sul soffitto sopra di lui.
È sdraiato su un letto a due piazze. Un lenzuolo lilla sgualcito gli copre il corpo dal bacino in giù. C'è silenzio intorno, assenza di suono interrotta soltanto dal respiro flebile di Andrea che gli dorme accanto, con una mano appoggiata sulla propria pancia.
Simone non ha osato muoversi, neppure di mezzo centimetro.
È nudo, è vulnerabile.
È terribilmente vuoto.
Soltanto un'ora e mezza prima, quella gli è sembrata una buona idea per smettere di pensare, per trovare un briciolo di tranquillità in un oceano di inquietudine.
Eppure, crede di aver provocato soltanto ulteriore danno ad una condizione già precaria di per sé.
Non si usano le persone, Simone.
Una voce all'interno della testa lo rimprovera. Vorrebbe combatterla, tuttavia, senza scavare troppo a fondo, deve darle ragione.
La cosa più giusta sarebbe andarsene e basta.
La più giusta e, al contempo, la più codarda.
Andrea è il primo ragazzo con cui è andato a letto, dopo Manuel.
Andrea è l'unico ragazzo con cui è andato a letto, a parte Manuel e vorrebbe dire di non aver pensato a quest'ultimo per tutto il tempo, di non aver immaginato il suo volto mentre percepiva addosso quei gesti delicati e attenti, le sue carezze sulle pelle, i suoi baci lievi sulla bocca.
Vorrebbe non averlo pensato, ma è esattamente ciò che è accaduto.
Non si usano le persone, Simone.
La voce rimbomba ancora, più forte, più violenta.
Strizza le palpebre; vorrebbe scacciarla, però crede quasi di meritarselo quel rimprovero.
Con delicatezza, sposta la mano di Andrea, così da potersi alzare dal letto. Raccoglie i propri vestiti sparsi in giro, sul pavimento. Li indossa come meglio può, dal momento che è buio lì dentro e l'unica fonte luminosa proviene dal corridoio, attraverso una piccola fessura della porta socchiusa.
Crede di aver messo la maglia al rovescio. Non ha molta importanza.
Abbandona la stanza in silenzio, con le scarpe in mano per poter fare il meno rumore possibile; le infila soltanto quando è sul pianerottolo e scende le scale rapidamente, evitando l'ascensore.
Una volta fuori, l'aria gelida di dicembre gli lambisce le guance e gli fa bruciare la pelle - quello, forse, non accadrebbe se non l'avesse bagnata con delle lacrime che ha trattenuto fino all'ultimo.
Il motorino è ancora lì, con la sella nera che si è chiazzata di bianco a causa della neve. La rimuove alla rinfusa con una mano, gettandola a terra. Poi si mette alla guida. Avvia il motore, il cui rumore riecheggia nel silenzio di quella notte. Parte, sgommando sull'asfalto ghiacciato, con mille pensieri che gli affollano la testa e che...
«Simone?».
La voce della dottoressa Morozzi lo fa destare da quel ricordo così vivido, che pare essere davvero lontano nel tempo e che, invece, risale a tre mesi prima, all'incirca.
Giorno più, giorno meno.
Lo studio della terapeuta è esattamente come Simone lo ricordava: un enorme stanza dalle pareti bianche, con quadri colorati su tutti e quattro i lati; ritraggono paesaggi, di mare e di montagna, con colori tenui, pastello. Non ci sono frasi motivazionali sparse qua e là o altre cose che possono portare alla distrazione.
Al centro esatto dell'ambiente, ci sono due poltrone di tessuto rosso scuro, poste una di fronte all'altra.
Accomodato su una di esse, adesso c'è lui - anche se risulta piuttosto scomoda per le sue gambe lunghe che deve tenere piegate in malo modo, incassato nei cuscini.
La dottoressa Morozzi - Sonia, di nome - é giovane, non raggiunge nemmeno i quarant'anni; porta dei lunghi capelli color mogano, con la riga in mezzo alla testa, ha una corporatura esile e sempre un sorriso controllato in volto.
A Simone ha sempre ispirato fiducia, quindi non è stata lei la causa del suo precedente abbandono.
È passata poco più di una settimana da quando ha ripreso ad andare da lei, un periodo di tempo decisamente breve per trarre conclusioni e non può dire che sta già meglio.
Ecco, non sta meglio, ma sta appena meno male.
È già un passo avanti: piccolo, minuscolo, all'apparenza insignificante; almeno è qualcosa di concreto.
Essendo agli inizi, fa ancora fatica a parlare apertamente delle sensazioni che prova in determinati momenti, a rispondere a delle domande banali che gli sembrano alquanto stupide, come ad esempio un come stai oggi?
La sua risposta sarebbe sempre: dimmelo tu, sono qua per questo.
Ma si trattiene ed intavola una replica che può voler dire tutto o niente.
Alla dottoressa ha raccontato di Manuel, di Andrea, di ciò che è successo tra loro, della rissa, della gita. È stata una sorta di liberazione, anche perché la donna non ha espresso giudizi o fatto commenti fuori luogo - come giusto che sia.
Anzi, lei ha mantenuto un sorriso rassicurante in volto per tutto il tempo. Ce l'ha ancora adesso, mentre tamburella con le dita sul bracciolo della poltrona e accavalla le gambe.
«Sì, ci— ci sono» sussurra il ragazzo, con la voce che gli gratta in fondo alla gola.
La donna abbozza un sorriso. «Lo vedo» attesta. «Altri pensieri troppo forti?».
Simone non ha ancora catalogato quali siano i pensieri troppo forti: immagina siano quelli che lo conducono a rivivere determinati momenti, come uno spettatore esterno alla propria vita; in certi casi è utile, in altri deleterio.
«Credo di sì» mormora, tenendo lo sguardo basso.
«E qual è?».
Manda giù a fatica della saliva. Non saprebbe nemmeno spiegarlo bene quel pensiero, quel ricordo. Lo ha raccontato, alla lontana, senza troppi dettagli - ovviamente - ma sono gli stessi che ora lo tormentano.
Così decide di non rispondere a quella domanda diretta, di raggirarla come fa spesso quando non sa cosa dire.
Si morde piano il labbro inferiore. «Io mi sono sempre sentito diverso» comincia. «Strano, soprattutto e lo so che— Che è normale per un adolescente sentirsi fuori luogo la maggior parte del tempo perché non siamo più bambini, ma nemmeno adulti, siamo... Siamo entrambe le cose al contempo ed è difficile non sentirsi in quel modo. E si cerca di combatterlo, no? Ognuno coi suoi mezzi».
Fa una breve pausa, scrollando le spalle. Ha preso a giocherellare con un filo sfuggito dalla cucitura del bracciolo della poltrona. «Tipo io— Pensavo che, per adattarmi agli altri, dovessi fare quel che facevano loro. In classe, no? C'era un gruppo di persone che se la prendeva con chi magari era più timido e introverso e allora ho— scelto di stare dalla loro parte, di fare cose che non volevo nemmeno fare, solo per sentirmi più simile a loro che semplicemente inadeguato e solo. Così ci sono andato dietro a tutto questo e ho fatto star male delle persone».
Gli sfugge una risata, sull'orlo dell'isterismo. «Non è una scusa per aver fatto lo stronzo» finge un colpo di tosse «Scusi la parola» - la dottoressa scuote il capo e lo invita ad andare avanti.
E allora: «L'ho fatto, mi sono comportato come solo una cattiva persona può fare e, quando l'ho realizzato e ho chiesto scusa, mi sono ripromesso che non sarebbe mai più accaduto. Che qualcuno stesse male per colpa mia».
«E hai mantenuto questa promessa?».
«No» lo confessa con il tono di voce che si incrina, si spezza e gli smorza il fiato.
Simone solleva lo sguardo soltanto in quel momento. «Credo di aver fatto addirittura di peggio e non— non so come rimediare, perché chiedere scusa non sarebbe abbastanza».
La dottoressa Morozzi alterna le gambe accavallate, si spinge di più contro lo schienale. «È un punto di partenza, però».
«È un punto di partenza da dove non si vede quello di arrivo».
«Non devi vederla subito la fine» viene rassicurato. «A volte quella si vede dopo giorni, settimane o addirittura anni. Il punto è nell'iniziare da qualcosa».
Simone non ne è molto convinto. Anzi, non lo è per niente. È che le scuse che vorrebbe fare gli sembrano alquanto patetiche e stupide.
Difatti «Con chi vorresti scusarti?» gli chiede la terapeuta.
Avrebbe una lunga lista, non per ordine di importanza, però contiene abbastanza nomi e non ha idea da dove cominciare.
Tuttavia, in quel frangente non risponde. Si limita a serrare la mandibola, ad abbassare di nuovo gli occhi puntandoli su uno spazio vuoto del pavimento.
La dottoressa se ne accorge, ciò nonostante non lo sforza. Piuttosto «Te lo lascio come compito per la prossima volta, mh? Che dici?».
«Cosa?».
«Portarmi una lista di persone alle quali vuoi chiedere scusa e il perché. Poi la leggiamo insieme».
Anche quello gli pare stupido.
La Morozzi glieli dà spesso simili esercizi, una sorta di lavoro da fare a casa tra una seduta all'altra; lo ha fatto anche le prime volte in cui ci è andato, addirittura facendogli chiedere ad amici e parenti di indicare un suo pregio e un suo difetto per analizzare e comprendere che la percezione di sé è sistematicamente diversa da quella che hanno gli altri - un po' aveva persino funzionato.
Ciò nonostante, si costringe ad annuire.
La donna ricambia con un mesto sorriso, prima di guardare l'orologio: la loro ora è finita da dieci minuti; non ci dà molto peso - non lo fa mai. Si limita ad osservare il ragazzo con espressione gentile.
«Ci vediamo tra una settimana, Simone?».
**
«Quindi tu lo hai trovato per strada, per strada?».
La domanda di Matteo viene posta per la quarta volta e Manuel è seriamente esasperato, tanto da roteare gli occhi, mentre versa il caffè della moka in due bicchieri di vetro. Sono nella cucina di villetta Balestra, con la luce accesa che tinge ogni cosa di un pallido giallo.
Biscotto è sul pavimento a giocare con un pupazzo a forma di foca blu che è divenuto subito il suo preferito.
Manuel lancia un'occhiata all'animale, pensando che - perlomeno - non gli sta distruggendo un altro maglione.
«Sì, per strada, Matté» risponde. «Come tutte le altre dieci volte che te l'ho detto».
Matteo lo fissa con fare curioso. È seduto al tavolo e vede l'amico imitarlo dopo aver svuotato la caffettiera, porgendogli un bicchiere pieno di liquido scuro e fumante.
«Ma tu lo sai quante probabilità ce stavano che tu - proprio tu - trovassi un gatto che è in pratica la cosa co' cui sta in fissa Simone da secoli?».
«Eh, poche».
«Nessuna, fraté!».
Nessuna. Sì, Manuel ne è ben consapevole, anzi, gli viene persino da ridere ripensandoci. Adesso gli sfugge un sorriso. «Pare una fanfiction scritta male» commenta, tra sé, eppure tale frase viene recepita benissimo dall'altro ragazzo, il quale aggrotta le sopracciglia e «Una - cosa?» domanda, confuso.
«Una fanfiction».
«E che è?».
È un quesito per il quale Manuel non ha mai creduto di dover trovare risposta, in particolar modo con l'amico e lo lascia spiazzato il fatto che l'argomento gli sia uscito di bocca con una naturalezza disarmante, quando, fino a qualche mese prima, piuttosto si sarebbe morso la lingua e avrebbe rinnegato tutto - sì, anche per una cosa così innocua e di poco conto come quella.
Beve un sorso di caffè, poi scrolla le spalle. «Só tipo delle storie» tenta di spiegare. «Scritte dai fan de qualcosa - cioè magari te piace 'na serie o un film o che altro e ce scrivi qualcosa sopra».
«E perché ce scrivi se ce sta già un film?».
«Boh, perché magari non te piacciono alcune cose e le aggiusti. Ce stanno un sacco de motivi».
Matteo si gratta il mento con due dita, distratto e un po' perplesso. «E tu le scrivi?».
«No, non só bono. Le leggo, a volte».
«Su cosa?».
«Tipo su roba Marvel - vabbè, che te frega?». Manuel è un filo in imbarazzo - non troppo, comunque, tant'è che gli sfugge addirittura una risata.
Matteo fa lo stesso, mentre afferra il bicchiere e fa oscillare il liquido al suo interno. «Magari poi me ne passi una» attesta. «Basta che ce sta la Vedova Nera».
Come reazione, Manuel rotea gli occhi e pensa ovvio che vuoi quelle con la Vedova Nera.
Anche se lui ne legge di tutt'altro genere.
Il miagolio di Biscotto riecheggia tra le pareti della cucina. Matteo gli lancia un'occhiata: lo trova un gatto piuttosto buffo - in senso buono - che rotola su sé stesso di continuo e soprattutto produce un sacco di rumore; gli hanno ripetuto più volte che è ancora piccolo e per questo più vivace.
Sarà, ma lui un animale in casa non potrebbe mai tenerlo.
Butta giù un sorso di caffè, che si è già fatto abbastanza freddo. «Quindi - mó state insieme?» lo chiede di getto, senza nessun giro di parole - come suo solito.
«Chi?».
«Tu e er gatto!» borbotta, esasperato. «Come chi? Tu e Simone!».
Sulle labbra di Manuel appare un diverso tipo di sorriso, più malinconico, a tratti rassegnato. «No, ma va» replica, a bassa voce.
«Scusa, come ma va?» è la reazione immediata di Matteo. «Cioè - avemo fatto tutto quel casino in gita è ancora niente?».
Eh.
Manuel se li ricorda molto bene i giorni della gita a Madrid, quello che è accaduto nella stanza d'albergo, ciò che è capitato dopo. Lo ricorda e delle volte vive le medesime sensazioni e situazioni nei propri sogni, di continuo.
Sette volte nell'ultima settimana, tra parentesi.
«È più complicato de così, Matté» cerca di tagliare corto e okay, sta parlando apertamente di Simone, di una loro ipotetica relazione e lo sta facendo con Matteo.
Ma quando sono cambiate in quel modo le cose?
Fatica a crederci.
«Io non ce vedo niente de complicato» ribatte l'amico. «Voglio dì— in un certo senso stavate insieme pure prima, no? Pure che noi non ne sapevamo niente. Mó lo sappiamo ed è meglio. Quale sarebbe er problema?».
Manuel ne avrebbe una lista infinita. Abbassa lo sguardo, sul bicchiere di caffè ormai vuoto, lo stesso che rigira tra le dita. «Il problema è che...» cerca di isolarne almeno uno. «Che gli ho detto delle cose brutte, che manco pensavo, non— Ero incazzato e gli ho sputato addosso 'n sacco de cazzate».
«Tipo?».
«Tipo che gli ho detto che m'ha rovinato la vita». Si sente ancora male al ricordo di tale avvenimento. Rimembra il modo in cui quelle parole taglienti gli sono uscite di bocca, così come si è pentito una frazione di secondo dopo, quando ormai, tuttavia, il danno era già stato fatto. È un genere di frase che, seppur rimangiata, lascia dei segni, spesso indelebili.
Matteo non sembra pensarla alla stessa maniera, anzi: schiocca la lingua sul palato e «Tutto qui? Me pensavo de peggio» commenta.
Manuel spalanca gli occhi. «De peggio?» esclama. «É terribile, Matté. Fossi in lui non me guarderei manco più in faccia».
«Stronzate» l'altro ragazzo è irremovibile. «Voglio dì, okay, è 'na roba de sicuro pesante, ma— je hai chiesto scusa, no?».
A ragionarci, sì, lo ha fatto: Manuel ha chiesto scusa a Simone per tante cose, per tutto il male che gli ha inflitto; il problema è che non sembra mai abbastanza. Se potesse cancellare delle frasi del genere, come una spugna su una macchia ostinata, lo farebbe volentieri, ma è difficile, se non impossibile.
Annuisce. «Sì, ma mica basta» biascica. «Certe cose non le perdoni». Aggiungerebbe che non c'è solo quella frase da perdonare, che esistono una serie di gesti e comportamenti da analizzare e per cui chiedere venia.
«Vabbè e glielo chiedi di nuovo» Matteo insiste. «Scusa, intendo. Manu, glielo puoi pure ripete tutti i giorni, se serve».
«Sarebbe patetico».
«Sarebbe giusto» replica subito, con ovvietà. «Perché vuol dì che ce tieni pe' davvero, che non chiedi scusa tanto per - tipo pe' 'na lavata de faccia». Fa una breve pausa. Ancora una volta si ritrova a lanciare un'occhiata rapida a Biscotto che ora è sdraiato a pancia all'aria e fissa il soffitto con fare curioso.
«Quel che vojo dì» riprende. «È che ce stanno 'n sacco de cose imperdonabili nella vita e su quelle non ce puoi fa' niente, però questa no. A questa puoi rimedià. Cioè, mica pensi sul serio che Simone t'ha rovinato la vita, no?».
«No» la replica di Manuel è immediata. «No, il contrario, lui— Me l'ha migliorata, credo».
«Eh, appunto» Matteo esclama. «Parti da quello». Gli sfugge una mezza risata. «Te conosco da anni, Manuel, e non t'ho mai visto così. Sarebbe 'n peccato lascià perde perché troppo complicato».
«Così - come?».
«Eh, me só capito io». Non specifica niente. Forse si è addirittura sbilanciato troppo, è andato troppo oltre per essere il solito Matteo, distaccato, superficiale e pure cazzaro.
È probabile che stare con Chicca l'abbia cambiato, almeno un briciolo.
Manuel non pone una seconda volta il quesito. Capisce un significato e se lo fa andare bene.
Pensa sempre che delle scuse non siano sufficienti in determinati casi, che magari il perdono, nonostante gli sforzi, non se lo merita. Tuttavia, può essere un punto di partenza, qualcosa che ha già iniziato a costruire, mattone dopo mattone, partendo da instabili fondamenta.
**
Simone dovrebbe tornare a casa, lo sa bene, eppure si trova dalla parte opposta della città - o quasi - davanti ad un palazzo dall'architettura moderna che conosce fin troppo bene.
È seduto sulla sella del motorino spento e parcheggiato davanti al gradino del marciapiede. Vorrebbe alzarsi, raggiungere il portone e suonare il citofono, ma sono azioni che non mette in atto poiché - se solo lo facesse - è pressappoco sicuro che non riceverebbe risposta, perlomeno non una positiva.
Lo sa che Andrea è in casa, ha visto la sua Mini gialla soltanto un isolato prima e okay, magari è uscito con altri mezzi o magari no.
Attende per diciassette minuti e quarantadue secondi prima che qualcuno da quel portone ci esca, per un caso fortuito e atteso; così ne approfitta, si muove con uno scatto rapido e si intrufola nello stabile.
Almeno, pensa, l'altro ragazzo può sbattergli la porta in faccia, però sarà costretto a guardarlo per qualche secondo.
Sale a piedi fino al sesto piano e, una volta giunto al pianerottolo prefissato, ha il fiatone - e non è solo per la fatica.
Cerca di riprendersi almeno un briciolo, ignorando il cuore che gli martella nel petto e fa a pugni con il proprio sterno.
Allunga una mano, a suonare il campanello il cui trillo rimbomba tra le mura spoglie del condominio.
Non ottiene subito risposta e neppure attende oltre, che prende a bussare con un pugno chiuso sull'anta di legno.
Quel suo gesto attira di più l'attenzione: difatti, la porta viene aperta poco dopo da un uomo che risulta più alto di lui - ed è raro - con i capelli brizzolati e tirati all'indietro e una folta barba di qualche tono più scuro.
Non è chi si aspetta, certo; quel volto, tuttavia, con gli occhi assottigliati e sopracciglia perennemente aggrottate lo conosce, lo ha intravisto altre volte, sebbene non si siano mai davvero presentati.
«Sì?» esclama lo sconosciuto conosciuto.
Simone finge un colpo di tosse. Sa chi ha davanti. «Salve, uhm» borbotta. «Cercavo Andrea, sono...». Eh, che cos'è? Di certo non è il suo ragazzo ed è pressoché sicuro che l'altro lo odi, quindi non è suo amico.
«Andrea è in casa?» taglia corto, senza ricorrere a troppi convenevoli.
Chi gli sta di fronte è il padre di Andrea: si chiama Bruno, fa l'imprenditore ed è strano vederlo nella casa di Roma.
Simone immagina che abbiano ricucito i rapporti in qualche modo, sebbene l'altro ragazzo sia sempre stato ermetico a riguardo: per esempio, non gli ha mai raccontato il motivo per cui si odiassero tanto oppure perché sia lui che la madre lo hanno lasciato solo la maggior parte del tempo, anche in occasioni importanti come il Natale.
Ha provato a chiedere e le risposte sono sempre state fuorvianti; non crede avrà mai l'occasione per averle ora.
Ad ogni modo, mentre la sua mente si perde ancora in lontani pensieri troppo forti, la figura di Andrea appare dietro quella di Bruno, come un'ombra scura che si riflette sull'espressione che ha assunto in viso. «Vai, pa'» sussurra il ragazzo. «Ci penso io».
Bruno non rimane molto sulla soglia a chiedere spiegazioni; magari neanche gli interessa e, infatti, sparisce lungo il corridoio, congedandosi con un leggero cenno del capo.
Andrea appoggia una mano sullo stipite della porta. Ha la barba che si è allungata e cresce spigolosa sulla linea della sua mandibola; i capelli risultano più corti e meno ricci del solito.
«Che vuoi?» esclama, con tono piatto.
«Non mi rispondi ai messaggi» Simone esordisce - anche se lo ha già fatto presente. «M'hai bloccato?».
Andrea corruga la fronte e gli sfugge una risata sull'orlo dell'isterismo. «Non blocco nessuno» replica. «È roba da bambini».
«Allora perché...».
«Non volevo risponderti e basta» lo frena. Il suo sguardo è tagliente.
Simone pensa pure di meritarselo quel trattamento; col senno di poi, crede di meritarsi addirittura di peggio.
«Puoi ascoltarmi, allora?» ci prova di nuovo.
Se dovesse buttare giù la lista di persone a cui chiedere scusa, Andrea sarebbe il primo: è naturale, spontaneo sia lui.
Tuttavia, quest'ultimo non sembra molto propenso a starlo a sentire, a riceverle quelle scuse che alle sue orecchie paiono solo fandonie. Gli viene l'istinto di chiudere la porta. Ci prova addirittura, ma Simone lo blocca prontamente, premendo una mano aperta sull'anta di legno e «Puoi ascoltarmi, per favore?» pigola.
Andrea sbuffa. Non dice nulla, fa soltanto un cenno del capo che vale a dire ti ascolto per due secondi.
Simone deve farseli bastare. «Okay, io— m'ero pure preparato un discorso nella mia testa per dirti tutta una serie di cose, il punto è che non mi ricordo niente» inizia. «O meglio, mi ricordo, ma sembra tutto patetico».
Fa una breve pausa, spostando il peso del corpo da un piede all'altro e stringendo i pugni lungo i fianchi.
«Ti volevo dire che mi dispiace» riprende - sì, pare ancora patetico, però cerca di ripetersi in mente le parole della dottoressa Morozzi, di partire da delle scuse e poi lavorarci e proseguire da esse.
È un punto di partenza, non uno di arrivo.
«Magari nemmeno serve dirtelo o stare qui a spiegarti perché alcune cose sono successe» aggiunge. «E non voglio neppure nascondermi dietro al fatto che ero ferito o non stavo bene, non è— Quella non è una scusa. Averti fatto del male perché io stavo male non mi giustifica».
«Però lo hai fatto» Andrea, finalmente, parla. Persino quell'unica frase ferisce al pari di una lama affilata.
Simone incassa il colpo. «Sì» confessa. «E non è stato giusto, è stato— È stato da stronzi, senza mezzi termini».
«Sei venuto fino a qui per dirmi che sei uno stronzo?».
«Anche» lo ammette con assente esitazione. Si morde piano l'interno della guancia. «È che tu sei– Tu sei stato la mia capanna».
Ad una simile rivelazione, Andrea aggrotta le sopracciglia poiché fatica a ricollegare quella frase a qualcosa di effettivamente accaduto. Pertanto, Simone si affretta ad aggiungere: «Una volta ti ho detto che– Mi sentivo me stesso soltanto sotto ad una capanna che costruivo con le sedie e le lenzuola e tu, per un po', mi hai fatto sentire così. Perché tu sei libero e sembra che niente ti faccia paura e io volevo provare le stesse cose».
«Ma? C'è un ma, no?».
«C'è un ma» il tono di Simone si abbassa bruscamente. «C'è che sei arrivato nel momento più sbagliato e se solo tu— Se solo tu fossi arrivato un po' prima, forse... Forse io sarei stato diverso e noi— Noi avremmo avuto una fine diversa».
Non sa neppure se quel discorso abbia un senso. È diverso da ciò che ha pensato di dirgli - completamente diverso - eppure risulta davvero più naturale e sincero, sebbene lo porti a trattenere il fiato.
In un primo momento, Andrea non mostra alcuna reazione. Distoglie lo sguardo, puntandolo su qualsiasi cosa non sia il volto di chi gli è di fronte. Non dice nulla, non ha idea della reazione più appropriata da avere.
Simone esita per un istante. «Volevo solo dirti questo» mormora. «Che mi dispiace e che meriti di meglio di uno come me».
Ancora nessuna replica, nessun lieve tentennamento.
Del resto, il silenzio, delle volte, è la migliore arma e lui ha il corpo segnato da cicatrici dovute ad esso.
«Okay» soffoca e cerca di accennare un sorriso di circostanza. «Io...» fa un passo indietro.
«Le scuse non bastano, Simo» Andrea parla soltanto adesso. «In questo caso, non— Non bastano».
«Lo so» ribatte Simone. «Ma possono essere un punto di partenza, anche se— Anche se non vedi l'arrivo».
Andrea non ci crede nemmeno un po' e questo Simone lo percepisce in maniera cristallina. Ciò nonostante, intende per davvero ciò che gli è uscito di bocca, ciò che la psicologa gli ha suggerito poco più di un'ora prima.
Assurdo considerare come delle parole dette durante un momento intimo e privato prendano poi forma nella realtà, nella vita vera, e come adesso lui ci riponga ogni briciolo di speranza.
Perché l'arrivo c'è, ma in quel caso è ben distante.
Distante quando ottiene ulteriore silenzio, quando Andrea lo fissa con delusione e rassegnazione e, in seguito, chiude la porta con un leggero tonfo e lo lascia da solo sul pianerottolo.
Simone non se la prende, non si arrabbia. Al contrario, è addirittura lieto e sollevato per aver compiuto quel breve e minuscolo passo ed è convinto che la dottoressa Morozzi ne sarebbe fiera.
Ma questo glielo potrà raccontare soltanto la settimana successiva, insieme al nome di Andrea, di molti altri e mille punti di partenza.
**
Sono le otto e mezza di sera e Matteo non ha ancora abbandonato casa Balestra.
Manuel non ce la fa nemmeno a cacciarlo, anche perché l'amico ha iniziato a giocherellare con il gatto, sedendosi addirittura a terra, nel salotto, e la cosa lo fa piuttosto ridere.
Oltretutto, se l'altro non ci fosse, sarebbe pure da solo, dal momento che Anita e Dante sono a cena fuori con gli altri professori del Da Vinci - ogni tanto lo fanno - e Simone...
Simone sarebbe dovuto rientrare da almeno un'ora e, invece, ancora non si è visto.
Manuel è immobile sul divano. Si tortura il labbro inferiore con gli incisivi. Il suo sguardo si alterna tra lo schermo del cellulare che ha accanto, appoggiato sui cuscini, e Matteo che fa dondolare un pupazzo a forma di foca sopra la testa di Biscotto.
Okay, a Simone ha scritto due messaggi - soltanto due.
Un dove sei? e un ma torni per cena?
Nulla più, però a nessuno di essi ha ricevuto risposta e la cosa lo agita e non poco, soprattutto considerando che avrebbe dovuto accompagnarlo alla seduta anche quel giorno, ma l'altro è stato sufficientemente bravo a sviarlo così da andarci da solo.
In quel momento, di getto, afferra il telefono, mentre scatta in piedi. Con il pollice sblocca l'apparecchio, usa il riconoscimento facciale, così da esser libero di premere sul tasto delle chiamate. Ne vuole avviare una col contatto Simo.
Tuttavia, non fa in tempo a picchiettare col dito sullo schermo che sente il rumore della porta di ingresso che viene aperta e poi chiusa. Fa guizzare lo sguardo verso quel luogo e in tal modo scorge la figura di Simone che è appena entrata in casa.
«Ma non me potevi risponne al messaggio?» è la prima cosa che gli viene in mente da dire, con tono stizzito.
Simone, fermo a qualche metro di distanza, con ancora lo zaino in spalla e la giacca addosso, lancia dapprima un'occhiata a Biscotto, ancora intento a giocare con Matteo - ci sono delle priorità; in seguito, si rivolge a chi ha appena parlato, aggrottando le sopracciglia e «Ti ho risposto» si giustifica.
«Eh, no».
«No?». Tira fuori il telefono dalla tasca posteriore dei jeans. Lo sblocca, va ad aprire l'applicazione di WhatsApp ed effettivamente si accorge di aver scritto qualcosa in replica, ma non aver mai premuto invio. «Ah, pensavo di sì» borbotta. «Mi son scordato, scusa».
«Fa niente».
L'attenzione di Simone è richiamata spesso dal gatto, tanto che gli si avvicina e si piega sulle ginocchia per poterlo raggiungere e accarezzarlo sulla testa.
Lui, nel frattempo, solleva il capo. «Ho chiesto a Martina se vuole mangiare qui» annuncia. «Ha detto sì, tra poco arriva». Lo ha chiesto anche a Leonardo, per inciso, però il ragazzo ha declinato l'invito, almeno per quella sera.
Di fronte ad una simile notizia, Manuel corruccia le labbra in una smorfia - non che non sia contento, gli pare solo... Strano, forse?
O forse gli sarebbe piaciuto rimanere solo con lui per quella sera.
Già.
«Chi hai invitato, scusa?» trilla.
«Marti».
«Quando è diventata Marti per te?».
All'ultimo quesito, Simone non risponde. Piuttosto ridacchia, si rivolge all'amico ancora seduto sul pavimento. «Tu, Matté, vuoi rimanere? Prendiamo la pizza».
Matteo scrolla le spalle - è ancora troppo impegnato con il gatto per formulare una risposta articolata e meno male che non gli piacevano gli animali - si limita a borbottare: «Ma sì, perché no».
Manuel incrocia le braccia al petto, sbuffa. «Ma sì, vogliamo invitare qualcun altro? Semo pochi» lo dice come battuta di spirito, tuttavia Matteo lo prende sul serio e dunque: «Mó avviso pure Chicca, bell'idea».
Bellissima idea, pensa Manuel, leggermente acido, ma non può controbattere.
Non quando poi Simone si alza e gli si avvicina. «Ordini tu?».
«Seh, ordino io».
**
Ecco, se qualche mese prima avessero detto a Manuel che una sera si sarebbe ritrovato seduto a tavola, in sala da pranzo di villa Balestra, con - al contempo - Simone, Martina, Matteo e Chicca, probabilmente sarebbe scoppiato a ridere per la surrealtà di una simile ipotesi, specie vedendo i primi due scherzare e interagire come se si conoscessero da anni, con una complicità invidiabile.
Non ci crede.
Per tutta la sera, mentre consuma quella pizza würstel e patatine che ha fatto raffreddare troppo, osserva le persone che ha attorno in modo minuzioso: analizza i loro gesti, i loro sorrisi, anche se le loro parole gli arrivano in maniera ovattata alle orecchie.
Non che non li voglia ascoltare o si stia isolando, semplicemente gli pare di essere finito in un sogno.
«Oh, ce stai?» è Martina a destarlo, schioccandogli due dita davanti al viso. Gli è seduta accanto, sul lato sinistro, mentre lui è a capotavola.
Manuel sbatte le palpebre. «Sì, sì» esclama. «Me só distratto». Lascia cadere un pezzo di crosta nel cartone ripiegato che ha davanti; la sua pizza è a metà, quelle degli altri sono quasi finite.
Simone si trova alla sua destra, dal lato opposto rispetto a Martina; è riuscito a mangiare una pizza margherita intera - quasi - e ne è piuttosto soddisfatto, visto che è riuscito a buttare giù qualcosa senza avere la nausea. «Tutto okay?» gli chiede, con lieve apprensione.
Manuel si affretta ad annuire - che, in realtà, non ha nulla fuori posto, è davvero tutto okay, è solo stranito dalla situazione.
«Manu, pare che hai visto un fantasma!» Chicca lo prende in giro, accomodata di fianco a Simone e di fronte a Matteo.
In replica, Manuel gli fa una smorfia e tutti poi ridacchiano.
Ci prova anche lui, seppur con un briciolo meno di entusiasmo. In realtà è anche piuttosto felice di quella sera, nonostante tutto.
Alla fine, la pizza la mangia tutta, croste comprese - le stesse che, invece, Simone ha lasciato nel piatto, per abitudine.
Sono all'incirca le undici di sera quando Manuel si ritrova in cucina con la scusa di preparare del caffè, lasciando gli amici nella sala da pranzo - nonostante la porta chiusa, sente ancora il loro chiacchiericcio costante e ridondante.
La moka è ancora sporca dal pomeriggio, ragion per cui si impegna a lavarla, gettando la posa nel cestino, mentre nella sua mente rimbomba la voce della madre che gli intima di non utilizzare il sapone per la caffettiera perché si rovina e non lo fa più buono.
Non ha mai capito se fosse una diceria, una credenza assurda o la verità; ad ogni modo, le ha sempre obbedito.
Quindi, è davanti al lavandino, con l'acqua corrente per sciacquare in ogni angolo la moka. Riempie la parte di sotto - ha scoperto che si chiama caldaia - e ci infila dentro il filtro ad imbuto. Poco dopo, raccatta il contenitore del caffè in polvere, per poter preparare il tutto. Ci impiega in totale soltanto due minuti, richiudendo la caffettiera più forte che può e piazzandola sul fornello più piccolo, il quale accende poco dopo.
Ora, l'idea più plausibile sarebbe tornare in sala da pranzo dagli altri, attendendo che la miscela venga su. Eppure, rimane inchiodato a fissare la fiammella del gas che produce un soffio sordo, con i palmi appoggiati sul ripiano della cucina.
È distratto.
Da cosa non ne ha idea. Da troppe cose.
Ancora gli ronzano in testa le parole scambiate con Matteo quel pomeriggio - è sorpreso che abbia detto qualcosa di sensato e addirittura ragionevole.
Ancora ripensa ai giorni di Madrid che adesso gli paiono quasi appartenere ad un'altra vita.
Ancora p—
«Oh, ti sei perso?».
Quella voce Manuel la riconoscerebbe tra mille, per cui non è affatto sorpreso quando volta di pochi centimetri il capo e scorge Simone, con in mano delle posate sporche e due bicchieri, che ripone nel lavandino alla rinfusa.
«No, sto aspettando che esce» risponde, con tono flebile.
«Cosa?».
«Il caffè, come cosa».
«Ah». Simone gli è accanto ora, le loro spalle quasi si sfiorano - lo farebbero decisamente di più se non fosse per quei centimetri di altezza che li separano; sono pochi, all'apparenza impercettibili, ma ci sono. «Tutto bene?».
«Me l'hai già chiesto».
«Sì, ma non hai risposto».
Sì, Manuel non ha risposto perché una replica effettiva non c'era e non c'è nemmeno in quel momento. Ha gli occhi fissi sul fuoco sotto alla moka. Scrolla le spalle. «Sto bene» borbotta. «Pensavo e basta».
«Addirittura».
«Eh, addirittura».
Simone, un briciolo, lo prende in giro. Solo un po', senza intenderlo per davvero. Ha appoggiato anche lui le mani sul bordo del ripiano della cucina. È freddo al tatto. «Pure io pensavo» esordisce.
«A cosa?» Manuel lo domanda di getto e teme una eventuale replica - perché magari l'altro ha pensato a loro due, magari adesso gli dice che devono rimanere amici, dato che con Andrea le cose vanno a gonfie vele.
Insomma, che ne sa?
La mente di Simone potrebbe tirare fuori qualsiasi cosa. Tuttavia, quest'ultimo esclama: «A quella volta che t'ho chiesto di dirmi un mio pregio e un mio difetto».
Manuel rimembra quell'episodio, in un caldo pomeriggio di luglio quando tra di loro non era successo niente - o quasi - quando lui non aveva capito proprio nulla di sé stesso. Annuisce. «Me ricordo il difetto» dice.
Simone abbozza una risata. «Che sono troppo alto» cita.
«Eh, è un difetto mica da niente quello» commenta Manuel. Gli rivolge lo sguardo di tanto in tanto. Non riesce a tenerlo fisso su di lui. «Perché, te che diresti?» borbotta. «De me, intendo. Un mio pregio e un mio difetto».
Simone inclina il capo leggermente su di un lato a quel quesito. Finge di pensarci, ma la risposta ce l'ha già pronta. «Beh, un pregio è che— Sai suonare benissimo il piano» confessa - e Manuel corruccia le labbra in una smorfia di approvazione. «Il difetto è che...» continua dunque. «Che sei un ritardatario».
Sanno entrambi che quel ritardo non è solamente legato ad una perdita di tempo ad un appuntamento; anzi, ha un senso molto più ampio, grosso, che conoscono tutti e due.
«Tu lo diresti ancora?» insiste Simone. «Che il mio difetto più grande è essere troppo alto?».
Manuel schiocca la lingua sul palato. Compie mezzo giro su sé stesso, così da avere il fornello acceso alle spalle. «No» ribatte.
«E che diresti?».
C'è una leggera esitazione prima di esporre una spiegazione - qualche secondo che pare eterno, durante il quale i loro occhi si cercano e si trovano in un battito di ciglia.
«Direi che...» Manuel esordisce. «Che credi troppo alle illusioni che te fai delle cose, quando la realtà è sempre ben diversa». Scaglia una freccia che potrebbe addirittura ferire l'altro ragazzo; lo sa, per questo compie quel gesto con lieve cautela, per non essere troppo rude o acido.
Perché non è sua intenzione.
Questo, Simone pare comprenderlo - a rigor di logica, è la verità: lui ha sempre convissuto con mille paranoie che non ha mai provato a sfatare.
È un difetto quello e bello grande, che per di più lo fa stare male.
Quindi, incassa il colpo senza obiettare.
«E il pregio?» gracchia, in seguito.
Su di esso, Manuel è più preparato, tanto che le sue labbra si curvano in un velato sorriso. «Il pregio è tutto il resto».
Il pregio è che sei Simone.
«Non vale».
«Mica ce só delle regole».
Il cuore di Simone palpita nel suo petto, lo sente battere contro lo sterno. Il borbottio del caffè che si accinge a fuoriuscire, caldo e vellutato, riempie la stanza. «Ne ho un altro» sussurra. «Di tuo difetto».
«Sarebbe?».
«Che pur di non dire quello che provi, fai giri di parole immensi e non arrivi mai al punto».
Touché.
«C'ho pure n'altro pregio?».
«Tutto il resto» imita la sua frase di poco prima, sospirando in maniera sommessa e con gli occhi che si sono fatti leggermente lucidi.
Manuel inclina appena il capo su di un lato. «N'hai detto che non vale?».
«Non hai detto che non ci sono regole?».
Il caffè è quasi del tutto uscito. Il suo aroma aleggia nella cucina, si mescola con i suoni, con il chiacchiericcio che arriva dalla sala da pranzo.
Loro due, tuttavia, sembrano non accorgersi di nulla perché si stanno guardando e il tempo pare fermo, in fase di stallo.
C'è sempre la loro bolla, del resto, dove ogni cosa perde la sua effettiva velocità.
Per cui non è un caso che persino loro due, adesso, si stiano avvicinando in maniera impercettibile, fissandosi le rispettive labbra, con il fiato che diviene corto, con il cuore che batte forte e fa vibrare le loro anime, le stesse che danzano al ritmo del borbottio della caffettiera.
Pochi centimetri - che divengono millimetri - li separano, le punte dei loro nasi si sfiorano.
Ecco, ci siamo riecheggia nella testa di Manuel. Sta succedendo qui e non a Madrid.
Sono qui.
È qui.
Siamo qui.
Pensa che in quel principio di bacio ci annegherebbe, per quelle labbra ci morirebbe e poi tornerebbe in vita.
E sta per accadere, quel bacio sta per verificarsi, tant'è che Manuel socchiude le palpebre, si lascia addirittura sfuggire un mezzo sorriso e...
«Oh, ma 'sto caffè lo siete andati a schiacciare chicco pe' chicco?». La porta della cucina si spalanca con un tonfo e la figura di Martina appare sulla soglia.
Manuel le vuole un gran bene, ma in quel frangente crede di volerla uccidere - metaforicamente parlando - soprattutto quando Simone scatta indietro e sono costretti ad allontanarsi, di nuovo. «No, è pronto» annuncia quest'ultimo; le guance gli si sono tinte di rosso e non è a causa del caldo.
Manuel si lascia andare ad un sospiro stressato, facendo un passo indietro e girando la manopola del fornello, al fine di spegnerlo. Lancia un'occhiata all'amica, ferma a qualche metro di distanza - cerca di renderla meno tagliente possibile per quanto sia...
Arrabbiato, forse?
Forse meglio deluso perché era così vicino ad esaudire un desiderio enorme.
Non ce l'ha con lei - ovvio - piuttosto col suo pessimo tempismo.
Ciò non passa inosservato a Martina, che tenta di rimediare con «Vabbè, se me date le tazze le porto io agli altri, voi potete rimané qua a— Fare la lavastoviglie?».
Simone è il primo a replicare: le tazze piccole di ceramica le ha già recuperate dalla credenza alta, nel frattempo, sistemate sul ripiano della cucina e adesso si accinge a versare la bevanda calda dentro di esse.
«No, non fa niente» esclama e rivolge lo sguardo a Manuel per una frazione di secondo, osservando il suo profilo teso. «Abbiamo fatto. Mi puoi aiutare, però».
In effetti, ha solo due mani e le tazzine, con sotto un piattino di ceramica, sono cinque. Per cui, Simone ne afferra due e le porge alla ragazza che le raccoglie, cercando di non far cadere nulla.
Lui fa lo stesso con altre due e lascia la rimanente a Manuel. È anche il primo ad abbandonare la cucina e dirigersi verso la sala da pranzo.
Martina lo segue con la coda dell'occhio, finché non è abbastanza lontano da non sentire più il rumore dei suoi passi. Rimane immobile, reggendo due tazze di caffè bollente tra le mani e un'espressione dispiaciuta stampata in volto.
«Ho interrotto qualcosa, ve'?» biascica, mordendosi piano il labbro inferiore.
Manuel accenna una risata, a tratti isterica. «Seh» borbotta. «Ma non fa niente».
«Scusa! Non tornavate più e con gli altri stavamo a scherzà su 'na roba e allora...».
«Martì, non fa niente». Non è più nemmeno arrabbiato o deluso: ha imparato a razionalizzare. Prende la tazzina rimanente e si accinge a raggiungere la porta lasciata aperta.
«Sei sicuro?» l'amica lo frena. È abbastanza preoccupata e si sente pure in colpa per un momento che sa essere importante per il ragazzo.
Quest'ultimo la guarda e abbozza un sorriso sincero. «È tutto okay» la rassicura.
«Davvero?».
«Vedi che il caffè se fredda». Manuel strabuzza gli occhi e le fa un cenno col capo per invitarla a seguirlo e abbandonare in via definitiva quella stanza.
**
Gli amici lasciano villa Balestra all'una precisa, incrociando addirittura Dante e Anita al loro rientro - e l'incontro tra Martina e Anita è al limite dell'esilarante, con risate e schiamazzi, come due persone che si conoscono da una vita e non si vedono da anni.
Ecco, Manuel in quel momento ha desiderato sprofondare e sparire per l'imbarazzo, ma ha lasciato correre, a causa di altri pensieri nella testa.
Adesso, in casa è tornata la quiete, le luci sono soffuse e tingono ogni cosa di un arancio tenue.
Manuel ha caricato alla meglio la lavastoviglie - dopo un principio di lamentela da parte della madre; avrebbe messo a posto lo stesso, pure senza di esse.
Ad ogni modo, ha l'intenzione di recarsi in camera propria, salendo le scale, magari facendo tappa davanti alla porta socchiusa della stanza di Simone, magari entrandoci, magari riprendendo da dove hanno lasciato soltanto due ore prima.
Tuttavia, quando sta per compiere tale azione, viene attirato da dei rumori provenienti dal salotto, da dove scorge una luce appena più forte. Verso quel luogo si dirige, trascinando i piedi sul pavimento. Il parquet scricchiola sotto al suo peso.
Si ferma poco dopo la soglia della porta. Trova Simone accomodato sul divano, con Biscotto posizionato a pancia in su sulle sue cosce, che di tanto in tanto miagola e agita le zampe anteriori, mentre il ragazzo ci giocherella con le dita.
«Pensavo dormissi già» esclama, alzando un po' troppo il tono di voce, ragion per cui finge un colpo di tosse per camuffarlo.
A quel suono, Simone solleva lo sguardo, distraendosi dal gatto. «Non ho molto sonno» sussurra.
«Sì, nemmeno io» Manuel mente: è stanchissimo, percepisce le palpebre pesanti, ma non importa. Avanza in modo lento verso l'altro finché non è in grado di sedergli accanto.
Si lascia andare ad un lungo sospiro. Scruta Biscotto che pare essersi calmato - visto che è un terremoto la maggior parte del tempo. «Ti ho trovato un altro difetto».
«Hai fatto una lista?».
«Quasi».
«E quale sarebbe?».
«Te piacciono troppo i gatti».
Simone corruccia le labbra in una smorfia, poi sfocia in una mezza risata. «Quello non è un difetto» si lamenta.
«Eh, dipende dai punti de vista».
Non lo trova per niente un difetto, ma gli fa piacere quell'attimo fugace di leggerezza. Abbassa lo sguardo: Biscotto si è accucciato sulle proprie gambe, raggomitolato su sé stesso e con gli occhi chiusi. Con la punta delle dita gli sfiora la testa e il naso. Un mezzo sorriso gli appare sulle labbra.
«Oggi io e Andrea ci siamo lasciati» sussurra e non solleva la testa per analizzare la reazione dell'altro. «Cioè— Lo avevamo fatto già prima, solo non era... Ufficiale, se così si può dire».
«Ah» biascica Manuel come prima reazione. «Me spiace».
«Ma figurati» lo rimbecca Simone e soltanto ora alza il capo e incrocia i suoi occhi. «Non ti dispiace per niente».
«No, só serio» viene ribadito. «Se è 'na cosa che t'ha fatto stare male, me dispiace per davvero».
«A te manco è mai piaciuto Andrea».
«Non parlo di Andrea, parlo de te». Manuel insiste. Ed è vero, per quanto poi si sia sentito in colpa nei confronti del ragazzo bresciano - non troppo, però abbastanza; un po' per tutto, anche per averlo picchiato senza una vera ragione.
È una delle cose per cui vorrebbe chiedere scusa.
Sì, persino a lui.
«Me dispiace» ripete. «E non— Solo pe' questo, io... Me dispiace per tutto». Gli sfugge una risata, di circostanza e a tratti isterica. «Forse dovrei fa' 'na lista delle tue, di persone a cui voglio chiedere scusa».
«La dottoressa mi ha detto di farlo, oggi».
«Una lista?».
«Una lista di persone a cui chiedere scusa».
«E l'hai già fatta?».
«Ci sto lavorando».
Sono seduti uno accanto all'altro, sui cuscini del divano consumati e molli nei quali un po' affondano. Le loro spalle si sfiorano - ancora, è abitudine - i loro sguardi sono un richiamo l'uno per l'altro, come il canto di una sirena al quale risulta difficile, se non impossibile, resistere.
«Tu ce staresti nella mia» gracchia Manuel. «Persino in cima».
Simone fa cenno di no con la testa e «Non mi devi chiedere scusa» mormora.
«Sì che devo, te lo dovrei chiede ogni giorno, tutti i giorni».
«Ogni giorno, tutti i giorni?».
«Eh».
Forse quelle scuse le apprezzerebbe anche. Forse, sarebbero una carezza lieve sul proprio cuore martoriato, ferito e pieno di lividi.
Forse potrebbe farsi curare pian piano da semplici parole come scusa e mi dispiace.
Forse glielo deve concedere e basta.
Allora finisce con l'annuire, un muto va bene, un tacito accordo che vale per entrambi - che poi, Manuel è presente nella sua, di lista.
Allunga lentamente una mano, che va a posarsi su quella appoggiata sulla coscia dell'altro ragazzo, così da fare intrecciare le loro dita con un movimento fluido e complice.
È un gesto delicato, innocuo e devastante al contempo.
È un gesto che urla forte e parla piano.
Manuel giura che potrebbe morire in quel preciso istante.
Simone, invece, è probabile lo stia già facendo, visto che per mesi ha sognato e bramato di poterlo fare, senza per forza essere chiusi in una stanza minuscola.
E okay, non sono fuori, non c'è nessuno, non sono sotto la luce del sole, eppure è un piccolo e prezioso passo che stanno compiendo insieme.
Manuel manda giù a fatica della saliva. Come accaduto prima, in cucina, si ritrova a fissare le sue labbra. Ricorda di aver provato delle sensazioni simili le prime volte che lo ha baciato: durante la notte del suo compleanno, tra un cantiere e le luci rosse, e poi dopo, a bordo di una piscina vuota.
Solo che prima simili sensazioni erano carte da decifrare e lui non possedeva una giusta guida, una corretta legenda.
Ora riesce a leggere quello strano alfabeto alla perfezione.
Ora quella lingua la sa parlare.
Allora, con la mente priva di nebbia, con una sicurezza che lo lascia disarmato, si sporge in avanti col capo quel che è sufficiente a fare entrare in contatto le loro bocche.
Non è la prima volta che si baciano - ovvio; che i primi baci sono sempre considerati speciali, unici, magici, quelli che fanno sentire le farfalle nello stomaco e loro...
Loro, di prime volte, ne hanno sprecate parecchie.
Eppure esiste un modo, una mera illusione, per poter vivere tutto da capo ed è quel che succede in tale istante: le loro labbra si cercano e si trovano, si muovono e si accarezzano.
Le loro lingue si sfiorano, si evitano e si scontrano e si abbracciano.
Si allontanano e si appartengono.
Manuel porta la mano libera sul lato del viso di Simone. Con la punta delle dita gli sfiora una guancia, percependo la barba corta e ispida sotto ai polpastrelli.
Si costringe a staccarsi soltanto per riprendere fiato, ma non si allontana troppo - qualche millimetro, così da sentire ancora il suo respiro sulla pelle.
«Per questo...» soffoca. «Per questo non so se chiedo scusa».
Simone arriccia il naso. Non risponde a parole, non emette nessun suono. Piuttosto, scosta il capo, si nasconde nell'incavo nel suo collo.
A Manuel fa un po' di solletico e pensa sia una sensazione bellissima.
È ancora più bello quando Simone va ad appoggiare la testa sulla sua spalla, frattanto che le loro mani sono ancora intrecciate e non accennano a sciogliersi.
Del resto, quello è un tipo di intreccio che a nessuno dei due interessa slegare.
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