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Libertà







Simone fissa il foglio protocollo a quadretti che la professoressa Castelli ha appena lasciato sul suo banco. In rosso, spicca un sei e mezzo su quel pezzo di carta - un voto non alto, ma quantomeno è tornato ad avere la sufficienza.

Un mezzo sorriso si delinea sulle sue labbra. È lo stesso che, tuttavia, poco dopo svanisce nell'esatto momento in cui la donna commenta con: «Meglio, ma da te mi aspetto molto di più».

Sì, pure lui si aspetta di più. Lo fa sempre, in ambito scolastico e non, perché sembra non abbastanza ogni volta.

Non all'altezza, ogni volta.

Distratto, lancia un'occhiata a Matteo che si trova nel banco alla sua sinistra. L'amico pare euforico, alza un pollice in cenno positivo e gli mostra il compito che ha ricevuto, dove è riportato un sei meno; sembra felice di quel risultato, è un nuovo traguardo per lui, del resto.

In seguito, lo sguardo lo sposta verso destra. Riesce solo a scorgere il profilo di Andrea che tiene perennemente lo sguardo basso; sulla sua verifica è annotato un nove.

«È andata bene» sussurra, ma è una frase che si schianta contro uno spesso muro di indifferenza.

Non che possa aspettarsi il contrario.

I sensi di colpa lo divorano ancora. Forse non dovrebbe struggersi in quel modo, glielo ha suggerito persino Leonardo: di lasciar correre, di permettere al tempo di rimarginare le ferite.

Ne è consapevole, ciò nonostante risulta incredibilmente arduo fare finta di niente quando si è consci di aver distrutto qualcuno.

Ogni volta vorrebbe dirgli che non voleva, che non se lo meritava, che avrebbe dovuto essere onesto sin dal principio invece di tessere una fitta rete di bugie nella quale ci è finito ingarbugliato.

Che invece di sciogliere intrecci, ne ha creati altri.

Bravo, coglione.

La parte più cruciale è che ormai il danno è fatto e non può tornare indietro.

Deve lasciare andare.

Sembrano sempre più bravi gli altri, a lasciare andare.

Il resto dell'ora di lezione passa in modo lento, con la Castelli che mette loro in guardia in vista dell'esame di maturità, invitando tutti ad impegnarsi di più, a fare di più.

Simone si sente morire dentro per un simile discorso.

Lo studio non gli è mai pesato più di tanto, anzi, gli piace, lo appassiona - più le materie scientifiche che umanistiche, ma non disprezza queste ultime. Eppure, adesso ogni cosa gli richiede uno sforzo immane, come se il proprio cervello fosse intorpidito e non avesse modo di farlo riprendere.

Ecco, un po' così.

Il suono della campanella lo fa destare.

È intervallo.

Osserva i compagni affannarsi per abbandonare i loro posti e correre nei corridoi, presumibilmente verso la macchinetta del caffè o, più semplicemente, per respirare un briciolo di libertà fuori da quell'aula.

In un primo istante, lui rimane fermo.

Mantiene il capo basso, ma con la coda dell'occhio segue la figura di Andrea che, nel frattempo, si è alzato e fermato sulla soglia della porta della classe, in compagnia di Luna e Monica.

Lascia andare.

La voce nella sua testa risuona col tono che utilizzerebbe Leonardo.

Stringe i pugni sul banco.

«Oh, fraté». Una pacca sulla spalla lo fa leggermente sussultare. A Simone è sufficiente alzare lo sguardo per notare Matteo, che gli si è avvicinato con un ampio sorriso sul volto: «Sei meno, bella».

«Ti va bene? Forse volevi qualcosa di più o...».

«Di solito pijo quattro. Mi madre 'sto compito minimo se lo incornicia».

Gli sfugge una risata, seppur priva d'entusiamo, ma è piuttosto bravo a fingerlo nell'ultimo periodo. Sarà, pensa, per lui quel voto è il minimo accettabile; presuppone, tuttavia, che ognuno abbia traguardi e prospettive diverse.

«Oh, allora?» sopraggiunge una nuova voce. Nel campo visivo di Simone, allora, ci rientra pure Manuel, il quale regge il compito di matematica in mano e annuncia: «Ho preso sette».

«Grande, fraté!» è il commento di Matteo, che solleva un palmo a richiedere un batti cinque che ottiene poco dopo. «Oh, abbiamo spaccato, o no?».

Simone non lo crede proprio. Quel voto è ancora basso, gli ha dato soddisfazione giusto per dieci secondi.

«Oh, Simó?». Manuel nota la sua apprensione. Lo fissa, con il capo inclinato. È fermo davanti al suo banco. Inconsciamente o meno, per un breve attimo gli occhi gli ricadono su Andrea fermo sulla soglia della porta.

Di come sia finita - se è finita - tra di loro non sa nulla; il non sapere lo logora, perché vorrebbe chiedere, domandargli qualcosa, vorrebbe esserci, senza opprimerlo. Non che si aspetti qualcosa.

Ha smesso di pretendere fatti o comportamenti, non gli interessa.

Può aspettare.

Aspetta e, nel frattempo, mette al primo posto il suo benessere, pure se questo potrebbe significare farsi da parte e perderlo.

«È andata bene, no?» riprende. Indica il foglio protocollo abbandonato sulla superficie piana. «Sei e mezzo va bene».

Simone scrolla le spalle. «Boh, penso di sì» borbotta. «Cioè - avevo la media del nove lo scorso trimestre».

«Vabbè, il voto è solo un numero» fa notare l'altro. «Rimani un genio de matematica co' sei o co' nove».

Non è proprio la più assoluta verità, pensa Simone; sforza comunque un sorriso di circostanza. Si è distratto in quella conversazione, per un solo attimo. Quando il suo sguardo torna sulla porta, Andrea non c'è più, ma vi appare qualcun altro al suo posto, il che lo conduce, per istinto, a serrare la mandibola e chiudere più forte i pugni sul banco.

Notando quel particolare linguaggio del corpo, a Manuel viene naturale seguire la traiettoria del suo sguardo, per notare la presenza di Dante sulla soglia: l'uomo tiene le braccia incrociate al petto e «Simone, vieni un attimo?».

A Simone non va per niente: lo conosce bene il motivo per cui lo sta chiamando, il fine ultimo di quel gesto; che poi è uno dei più gravi inconvenienti di avere un padre che è pure il suo professore e può conoscere i voti ancor prima di lui.

Esita, con la gamba destra che gli sussulta e «Simone?» viene ripetuto.

«Oh, te conviene annà» Manuel prova ad intervenire, mordendosi la lingua - spera di non essere stato troppo brusco.

C'è ancora un lieve tentennamento in Simone, eppure lo sa che sta solo rimandando l'inevitabile, quindi decide che forse è meglio levarsi il fastidio.

Via il dente, via il dolore, no?

Ah, magari il dolore che percepisce in ogni fibra del corpo fosse così facile da spazzare via, come togliersi un dente.

Prima avrebbe persino l'anestesia ad attutire la sofferenza.

Si alza lentamente, facendo strusciare le suole delle scarpe sulle mattonelle rotte della classe.

Non appena si avvicina, Dante si scosta quel che basta per farlo passare.

Manuel è spettatore di una simile scena, rimanendo immobile, provando l'istinto di andargli dietro, dato che gli è parso quasi che l'altro ragazzo stesse camminando verso il patibolo.

Ciò nonostante, si trattiene. Sa che in quella conversazione lui non c'entra nulla.


**


Simone segue Dante fino alla sala professori.

Di norma, agli studenti non è consentito entrarci, ma lui lì dentro c'è già stato innumerevoli volte, per un motivo o per un altro.

Si ferma poco dopo essere entrato, osservando il padre chiudere la porta alle loro spalle. «Se mi devi fare una ramanzina delle tue, possiamo fare in fretta, per favore?» esclama, con tono piuttosto scocciato.

Dante si passa una mano sul viso, esausto. Pone i palmi sui fianchi e gli va di fronte, in modo da essere faccia a faccia in quella grande sala deserta. «Non faccio ramanzine» spiega. «Bei discorsi sì».

«Vabbè, quel che è».

Fa un lungo sospiro. «Senti, io— Ti sto fermando qui perché è l'unico posto dove non puoi scappare» dice. «A casa, appena ti parlo, ti chiudi in camera, sempre se ci esci dalla camera, dato che siamo arrivati a doverti pregare solo per farti scendere a cena».

«Sì, ma...».

«Fammi finire» lo interrompe subito. «Ti ho fatto una promessa, no? Che non mi sarei - impicciato delle tue cose e me pare d'averla mantenuta. Sono stato in disparte per oltre un anno, ma, Simone— Anche se non mi impiccio, io osservo, noto le cose».

«E che noti?».

Dante abbozza un mezzo sorriso. «Noto che non mangi e sei dimagrito molto» borbotta. «Lo noto pure se te metti i maglioni larghi». Indica quello stesso maglione grigio di almeno due taglie più grandi che il figlio ha addosso. «Che dormi poco, che i tuoi voti a scuola sono drasticamente calati tutti all'improvviso». Scrolla le spalle. «E che ci siamo già passati in tutto questo, no?».

Lascia la frase in sospeso, come se dovesse dare al ragazzo il tempo di metabolizzarla e apprenderla.

Sì, ci sono già passati.

Sì, ci è già passato.

Ci è passato alla fine della terza superiore, durante tutta l'estate dove aveva momenti alti e bassi, giorni in cui si chiudeva in camera al buio senza mangiare e altri dove riusciva ad uscire, ridere e scherzare come se nulla fosse.

Ci è passato con le palpitazioni, con gli attacchi di panico, con le sudorazioni notturne.

Ci è passato e sta capitando di nuovo.

Non fornisce una risposta, non subito. Si limita ad abbassare lo sguardo, stringendo i pugni lungo i fianchi.

«Non m'aspetto che ci sediamo insieme e mi racconti cosa c'è che non va» riprende Dante. «Probabilmente non lo faresti mai e mi sta pure bene. Però, se non lo fai con me, con qualcuno devi farlo e questa volta per davvero. Non accetto un altro papà, sto bene, non ci vado più».

Il soggetto nella frase non è presente, ma non c'è bisogno di specificarlo: Simone capisce a chi si sta riferendo senza nominare la dottoressa Morozzi, quella terapeuta che ha abbandonato con una scusa alquanto patetica.

Una scusa campata per aria, dal momento che aprirsi così tanto lo ha fatto sentire eccessivamente vulnerabile e quindi si è tirato, erroneamente, indietro.

Perché convivere con il dolore è spaventoso e terribile, lasciarlo andare ancor peggio.

Gli occhi di Simone si sono fatti appena lucidi. Guarda il padre attraverso le ciglia che cominciano a impregnarsi di lacrime leggere. Il labbro inferiore gli trema.

Dante allunga una mano, la posa sulla spalla del figlio. «Ti sembra tutto la fine del mondo, Simone» sussurra. «Lo so, alla tua età è così e crescendo le cose, spesso, nemmeno migliorano, ma una cosa te la devi ricordare: che non sei solo». Sposta il palmo sul lato del suo collo e gli accarezza, in seguito, una guancia. «Non lo sei e non lo sarai mai».

A quel punto, Simone ammutolisce, mentre un singhiozzo gli riempie il petto. Torna a sentirsi vulnerabile come la prima volta che si è seduto sulla poltrona rossa nello studio della dottoressa. Ha la bocca impastata. «A volte ti senti solo anche quando non lo sei veramente» biascica.

Il padre annuisce. «Lo so» sussurra. «Ma siamo qui anche per— Convincere la tua testa che non è così, anche se magari dobbiamo soltanto urlare più forte».

Non c'è bisogno di ulteriori parole, in seguito, né da una parte, né dall'altra.

Nonostante la vulnerabilità che percepisce addosso, Simone non crolla del tutto, anche se un briciolo cede.

Cede quando si lascia abbracciare da Dante, si lascia stringere e cullare - un po' come tutte le volte in cui non è successo da bambino.

Rimangono in silenzio, nell'aula professori, con il chiacchiericcio fuori, nei corridoi, e l'eco della campanella che suona e riempie i loro timpani.


**


Il corridoio di casa Balestra è decisamente buio per essere le nove e mezza di sera.

Manuel brancola nell'oscurità quando esce dalla propria camera. Come ovvio, come istinto naturale, si ferma davanti alla porta socchiusa della stanza di Simone, che è l'unico spiraglio di luce al momento.

Esitante, spinge piano l'anta di legno, che si apre producendo un flebile cigolio.

Manda giù a fatica della saliva quando oltrepassa la soglia. C'è silenzio in quel luogo.

«Simó?» lo richiama.

Simone è sdraiato sul letto, in posizione supina: mantiene una palmo sulla pancia che si alza e abbassa a seconda del suo respiro, mentre ha piegato l'altro braccio dietro al cuscino morbido; ha gli occhi chiusi e le sue palpebre tremano leggermente. Ha le cuffie bluetooth nelle orecchie dalle quali provengono le note alte della canzone che viene riprodotta, direttamente dal telefono che giace abbandonato al suo fianco, sul materasso.

«Simo?» Manuel lo chiama ancora, frattanto che si è avvicinato ancor di più. Adesso gli è accanto, in piedi. Allunga una mano, per dargli un lieve colpo con due dita sul braccio. Non ottiene alcuna reazione, immagina stia dormendo profondamente.

Si morde piano il labbro inferiore. Prende un respiro profondo.

Con estrema delicatezza, toglie le cuffie dalle sue orecchie. Non sa dove sia la custodia, per cui le abbandona semplicemente sul comodino verde menta. Raccatta il cellulare. Gli basta picchiettare col pollice sopra per fare illuminare lo schermo, dove spunta la riproduzione di Spotify di un brano che conosce: Tienimi che ci perdiamo, Ministri.

Preme il tasto pausa. Blocca l'apparecchio tramite il tasto laterale e lo deposita accanto alle cuffie.

Simone è bello in quel momento.

La voce all'interno della sua testa non lo rimprovera più per il semplice pensarlo, ormai si è arresa.

Manuel rimane immobile a fissarlo, ad analizzare ogni tratto, ogni impercettibile cambiamento durante il sonno: ha le guance leggermente incavate, le labbra screpolate ed è visibile qualche residuo dello sfogo rosso sulla pelle del collo.

Ha l'istinto di allungare una mano, di accarezzargli il viso.

In maniera inevitabile, si sente stupido anche in quel momento. Non compie nessun gesto simile, piuttosto, dalla tasca posteriore dei jeans stretti e strappati sulle ginocchia che indossa, tira fuori il proprio telefono. Scorre sullo schermo col pollice e apre la fotocamera.

La luce non è ottimale, dato che è presente solo quella fioca proveniente dall'abat-jour sul comodino che tinge ogni cosa di un pallido arancione. Ma non fa niente.

Riesce comunque a catturare un frammento di realtà, ad immortalare quel momento in cui Simone appare tranquillo, rilassato, immerso in un placido sonno.

Un mezzo sorriso gli appare sulle labbra ad osservare tale scatto che racchiude una estrema fragilità e forza - nello stesso momento, come se fosse davvero possibile.

Non saprebbe manco spiegarlo a parole, non ne conosce abbastanza.

Non sarebbe in grado di esprimere cosa ci vede davvero in Simone.

Forse direbbe che ci vede un po' tutto.

Blocca il cellulare tramite il tasto laterale e lo ripone al posto di prima. Si lascia andare all'ennesimo sospiro, mentre tira su la coperta abbandonata ai piedi del letto e con essa ci ricopre il corpo dell'altro ragazzo.

Spegne la luce della lampada e abbandona la stanza in silenzio, facendo il meno rumore possibile, per non svegliarlo da quella quiete che lo ha avvolto.


**


«Se uscivo co' mi nonno mi faceva più compagnia».

Quella frase che pronuncia Martina, Manuel non la sente, così come quasi tutte quelle uscite dalla bocca dell'amica durante la serata.

È stato piuttosto distratto, con la testa altrove, sia al locale a Trastevere dove sono stati, sia ora in auto, sulla strada di ritorno a casa.

Tiene il capo basso e gli occhi fissi sullo schermo del cellulare che regge in mano. Non che si aspetti qualcosa - o forse sì, una notifica in particolare la attende sempre.

«Cosa?» esclama e rivolge l'attenzione alla ragazza alla guida.

Martina si lascia sfuggire una risata. «Niente, lascia stare» replica. «Quando torni in questa dimensione, fammelo sapé».

Manuel schiocca la lingua sul palato, scocciato. «Ma piantala» si lamenta e torna a scrutare la strada che ha di fronte, un rettilineo illuminato da radi lampioni e costeggiato da alberi spogli.

«Ah, mó io la devo piantare?» la ragazza lo prende in giro bonariamente. Scuote appena il capo, con una sola mano sul volante. «Devo dì che 'sta versione de Manuel Ferro innamorato, eh...».

Lui le risponderebbe di nuovo, probabilmente a sostenere che questa versione sta ancora imparando a manovrarla, quindi, se certi atteggiamenti risultano strani, non può farci davvero nulla.

Tuttavia, prima di potersi girare per replicare, i suoi occhi catturano un'immagine diversa dalla desolata e deserta carreggiata.

«Oh, fermati, fermati, fermati!» dice e batte una mano sul parabrezza.

Martina è confusa, aggrotta le sopracciglia. Su quella strada ci sono soltanto loro, per cui riesce a rallentare e frenare nel giro di qualche secondo, ma non senza agitarsi. «Ma che diavolo...» fa per dire. «Sei scemo, cazzo? Potevamo finì ammazzati e...» però l'amico è già sceso dall'auto, lasciando la portiera aperta: non ha sentito mezza parola.

«Ecco, bene, perfetto» sbuffa lei. Si toglie la cintura di sicurezza e arranca fuori dall'abitacolo. A qualche metro di distanza, la luce fredda di un lampione illumina l'asfalto.

Martina si stringe nelle spalle, chiudendosi meglio il cappotto nero che indossa - fa decisamente freddo quella sera e l'aria è pungente.

Striscia le suole degli stivali neri a terra, per raggiungere il ragazzo che vede chino, piegato sulle ginocchia, sul ciglio della strada.

«Manuel?» lo richiama. «Che succede?». La sua visuale non è ottimale, anzi, a parte le spalle dell'amico non vede nulla. Così avanza ancora qualche centimetro, sbircia un po' di più portandosi una ciocca di capelli lunghi e scuri dietro ad un orecchio. «Ma che...» bofonchia e viene interrotta da un acuto miagolio.

È in quell'istante che Manuel si sposta, per farle notare un gatto dal pelo bianco macchiato di terra: è piccolo, avrà forse qualche mese. «Ma non lo hai visto?» borbotta lui, che agita le mani perché vorrebbe prendere il felino che è accucciato e tremante sull'asfalto, ma non sa come fare.

Martina sgrana gli occhi. «Ovviamente no?» esclama. «Stavo a guardà la strada, non il bordo della strada». Sospira. «Se deve esse perso».

«O l'hanno abbandonato».

«Seh, aspé». Annuisce. Non gli lascia il tempo per dire qualcosa, piuttosto indietreggia, torna all'auto che ha abbandonato ferma con le quattro frecce e il motore spento. Dai sedili posteriori, recupera una felpa marrone scuro che tiene lì per ogni evenienza - tipo, quella è abbandonata da almeno due mesi.

Torna indietro, accennando una leggera corsa.

Manuel segue la sua figura con lo sguardo, scruta l'indumento che la ragazza regge in mano. «Che devi fa' co' quella?».

«Per metterce il gatto».

«Cosa?».

«Mica lo vorrai lasciare qui! Sono le due di notte, lo porti a casa».

«Lo porti?» cantilena e inarca un sopracciglio. «Perché devo prenderlo io?».

Martina sbuffa sonoramente e un ulteriore miagolio riecheggia nella strada. «Mica lo posso portà a casa mia» esclama. «Tra du' giorni arriva pure mi' madre, è allergica».

«Ma da quando?».

«Da sempre!».

Manuel non ne è convinto. In realtà, in auto ha notato qualcosa muoversi sul ciglio della carreggiata e ha pensato di aver avuto un'allucinazione - perché non poteva essere, insomma: il destino deve essere tornato a prenderlo in giro.

Perché quante possibilità c'erano che un evento simile si verificasse?

Poche, se non nulle.

Paradossalmente, è come se l'universo si stesse adoperando per inserire Simone in ogni dove.

Il motivo per cui associa Simone ai gatti è ancora da spiegarsi, ma tant'è - forse la spaventosa ossessione per loro che l'altro ha non recentemente sviluppato.

Martina gli sta ancora porgendo la felpa, ma lui non sa che farci: il gatto sull'asfalto pare stanco, affamato e fragile e ha il terrore di toccarlo e fargli male.

«Prendilo piano e avvolgilo qui» suggerisce la ragazza.

Manuel è leggermente in panico. Si morde piano il labbro inferiore.

Okay, universo, scacco matto.

Non conosce il modo più opportuno per raccogliere un animale così piccolo. Spera di non fare danno a quel felino che risulta poco più grande del palmo della sua mano. In qualche modo riesce ad accoglierlo e sollevarlo, raccatta la felpa e lo fa accucciare in quel groviglio di tessuto.

Un po' si sente persino stupido, in realtà, ancor di più quando Martina lo guarda e gli sorride. «Che c'è?» sbotta.

«Manuel Ferro ha un lato tenero» lo prende in giro. «Lo avresti mai detto?».

Manuel alza gli occhi al cielo. Vorrebbe ribadirle di smetterla, ma poi lascia perdere. «Cammina, va'».


**


Essersi addormentato presto lo ha un po' scombussolato.

Non voleva, in realtà, è accaduto per caso, con la musica alta nelle orecchie e pensieri docili in testa.

Quelli cattivi e intrusivi non sono davvero passati, anzi: per cacciar via quel genere di pensieri ci vuole tanto e costante lavoro, che lui deve ancora iniziare.

Però, almeno per quella sera, la mente ha deciso di dargli tregua.

Forse è stata la conversazione con Dante, la decisione di riprendere il percorso di terapia miseramente abbandonato più di un anno prima, forse altro.

Non ne ha idea, però, perlomeno, ha recuperato del sonno perso.

Non può gioire per il fatto che ha chiuso gli occhi alle nove circa e quindi adesso, alle due e mezza di notte, ha le palpebre che non vogliono saperne di abbassarsi.

Perfetto.

Simone è rimasto sdraiato a letto, con lo sguardo rivolto al soffitto, per almeno un quarto d'ora.

Si è rigirato tra le coperte, cercando, magari, di addormentarsi di nuovo, ma con scarsi e nulli risultati.

Che poi, ora che ci pensa, ha preso sonno con le cuffie nelle orecchie e il telefono sul materasso, mentre adesso entrambi gli oggetti risultano abbandonati sopra il comodino.

Forse è passata Anita, pensa.

Scuote il capo e si alza in piedi. È ancora vestito con gli abiti di quel giorno, jeans e maglione grigio. Dovrebbe cambiarsi e indossare un pigiama, ma rimanda una simile azione.

Si passa una mano sul viso e si trascina fuori dalla stanza, con ai piedi due paia di calzini, come sempre.

Il corridoio è buio, però non è un problema, dato che conosce a memoria quella casa quindi riesce a muoversi benissimo nonostante l'assenza di luce.

La sua intenzione è semplicemente quella di recarsi in cucina e raccattare un bicchiere - magari due - d'acqua, visto che ha la gola secca e la bocca impastata. Presuppone che, a quell'ora tarda, tutti a villetta Balestra dormano.

Tuttavia, quando scende l'ultimo gradino delle scale di legno, facendolo scricchiolare, si accorge presto che una fonte di luce è presente e proviene dalla cucina.

Ecco, t'aspetta un'altra conversazione cuore a cuore.

È convinto ci sia il padre nella nuova stanza, ne è praticamente certo, tanto che prende un respiro profondo come a prepararsi ad una immersione. Non che sia particolarmente infastidito, il contrario, ma alle due e mezza di notte proprio non se la sente di sostenere grandi e profonde conversazioni.

Spera che non sia quello il caso.

Nel momento in cui fa il suo ingresso in cucina, si rende conto che non è Dante ad essere sveglio - quindi discorso filosofico evitato - ma scorge una chioma riccia di spalle davanti al lavandino; nota anche il frigo spalancato e una serie di tovaglioli di carta sparsi sui ripiani dei mobili.

«Manuel?» lo richiama. Rimane in piedi, a qualche metro di distanza dall'altro ragazzo. Prima che quest'ultimo possa rispondere, tuttavia, il verso di un miagolio aleggia nella stanza e rompe il silenzio.

Simone aggrotta le sopracciglia, si avvicina di un solo passo, poi due, infine tre. «Che cosa—» gli esce di bocca.

Manuel si volta in quell'istante. Ha un braccio piegato, sul quale regge una felpa marrone appallottolata; a causa del colore, è facile intravedere qualcosa di bianco sporco avvolto nel tessuto, due orecchie appuntite e il naso rosato.

Simone spalanca gli occhi e «Hai rubato un gatto?» esclama.

L'altro ragazzo sbuffa. «Ma te pare che vado a rubà un gatto?» si lamenta. Scrolla le spalle. «L'ho trovato per strada, mica potevo lasciarlo lì».

Ed effettivamente non poteva, non ne avrebbe avuto il coraggio. L'avrebbe forse ceduto volentieri a Martina, ma tant'è.

Nel frattempo, Simone si è avvicinato ulteriormente. La sua attenzione è già quasi del tutto focalizzata sul felino e la parvenza di un sorriso appare sulle sue labbra. Sparisce subito, però, quando sul ripiano della cucina scorge una ciotola di plastica rigida e gialla, con dentro del liquido bianco. «Mica gli stavi dando il latte?».

Manuel annuisce. «Boh, non bevono quello i gatti?».

«Sì, ma quello della mamma, non puoi dargli quello dal frigo!».

«E quello ho, che faccio?».

Stanno parlando tutti e due a voce piuttosto bassa. Se solo osassero usare un volume più alto, di sicuro sveglierebbero Dante e Anita e non è loro intenzione.

Simone tenta di ragionare un attimo su cosa sia effettivamente opportuno dare al gatto che ogni tanto miagola ancora poiché affamato. «Almeno daglielo fuori frigo» propone. In realtà, una parte di lui sta per partire con una filippica su cosa far mangiare o bere ad un animale così piccolo - è davvero molto informato - ma si trattiene.

Manuel scuote il capo. «Vabbé» borbotta. «Lo vuoi tené te mentre lo prendo?». Si sente persino stupido e sta maledicendo Martina.

Quella scena è surreale e al contempo bella.

Bella, quando Simone fa cenno di sì con la testa e accoglie tra le braccia il felino avvolto nella felpa.

Bella, quando Manuel lo osserva minuziosamente e vede il suo volto illuminarsi di fronte a qualcosa che gli piace molto.

Assurdo, no? 

Come basti così poco.











Alla fine, il latte al gatto glielo hanno dato ed è stato apprezzato - tanto da fargli sporcare tutto il muso e i lunghi baffi.

Hanno abbandonato la cucina.

Ora Simone è nella sua stanza, seduto sul letto sfatto. Tiene la felpa marrone sulle cosce, laddove il felino si è accomodato, raggomitolato su sé stesso.

Lo accarezza piano sulla testa, con la punta di indice e medio.

Manuel è in piedi, a qualche metro di distanza. È entrato da poco nella camera, con leggera esitazione - succede sempre, come se non avesse il diritto di essere lì.

La visione che ha davanti la ritiene sublime: perché vede Simone contento, in un momento che trasuda gioia ed è da tanto che non lo vedeva in una simile veste.

Il fatto di esser stato responsabile per la maggior parte delle cose che lo hanno distrutto, lo fa stare male.

Alla conclusione che le parole di Andrea, quella sera, fossero vere, ci è arrivato presto, del resto.

Non sa neppure se merita o meno d'essere perdonato.

Manda giù a fatica della saliva. «Come lo vuoi chiamare?» esclama, ad un tratto, senza ragionarci troppo, probabilmente per scappare da nuove realizzazioni e pensieri laceranti.

Simone solleva lo sguardo. «Cosa?».

«Il gatto».

Fa cenno di no con la testa. «Non possiamo tenerlo» sussurra. «Magari è di qualcuno».

«Non ha un collarino e— non me sembra nelle condizioni d'esse di qualcuno».

«Tua madre e mio padre non lo vogliono».

«Beh, ma ormai è qui, no?». Manuel trova il coraggio di avanzare verso di lui. Lo fa in totale apnea e riprende fiato soltanto nel momento in cui gli siede accanto, facendo traballare appena il materasso. «Quindi?» insiste. «Come lo vuoi chiamà?».

Simone finge di pensarci - come se non avesse già una lista in mente di almeno venti nomi con cui chiamerebbe un eventuale animale domestico che brama da tutta la vita. Si morde piano il labbro inferiore. «Milk?» prova.

Manuel arriccia il naso in una smorfia. «Conciato così me pare più caffè» commenta e indica il pelo del gatto che è ancora sporco di terra, nonostante abbia provato a ripulirlo poco prima con dei tovaglioli, che non sono sufficienti, ovviamente. Accenna una risata. «Che poi me aspettavo 'na roba tipo Mister Cat» lo sbeffeggia.

Simone si finge offeso eppure un sorriso si è già delineato sulle sue labbra. Allarga un gomito per dargli un leggero colpo sul braccio. «Che stronzo» replica.

«Oh, è la fantasia tua quella!» Manuel si difende, alzando entrambe le mani in cenno di finta resa.

Touché.

In fondo, ha ragione e Simone ne è perfettamente consapevole. «Poi ci penso» conclude. «Deve essere un bel nome» e passa oltre il fatto che abbia accettato di tenere quel gatto nel giro di pochissimi secondi. Tanto è pressappoco sicuro che, in qualunque modo, la mattina dopo non sarebbe in grado di portare l'animale in un rifugio o dove altro, di sicuro non lo lascerebbe andare, quindi.

In maniera lenta, la sua espressione torna seria. Abbassa lo sguardo, sul gatto che gli dorme placidamente sulle gambe.

Prende un respiro profondo. In quel momento, è come tornare chiusi in una bolla di sapone, solo che l'aria che si respira è differente; forse appena più tesa, ma non si tratta di una brutta tensione. È più ansia da prestazione, quella che hanno gli attori di teatro prima di andare in scena.

Ecco, una cosa del genere.

Del resto, delle volte, per parlare e aprirsi, si deve essere come degli attori e il palcoscenico è, semplicemente, la vita.

«Oggi ho detto a mio padre che torno in terapia» esordisce - che pare persino un discorso campato per aria in quel momento, una confessione forse non necessaria che, però, sente il bisogno di esternare.

Manuel accenna un sorriso che vuole essere rassicurante. Lui c'è stato durante quelle poche sedute in passato, lo ha sempre incoraggiato ed è stato il primo a tentare di convincerlo a non mollare - non riuscendoci, purtroppo.

«Só contento» è l'unico commento che gli viene fuori che non sa quanto sia giusto; magari è persino fuori luogo.

Simone si morde piano l'interno della guancia. Non lo sta ancora guardando. «Non so se— sarò costante o meno, però posso provarci».

«Hai chiesto aiuto, Simó» lo rassicura l'altro. «È un primo passo, no?».

«Immagino di sì» commenta Simone. Di quello manco è sicuro. A volte crede di essere così inconsistente da non essere nemmeno in grado di seguire un percorso di psicoterapia.

Se n'è reso conto durante i primi incontri con la dottoressa Morozzi, quando continuava imperterrito a dire di stare bene, finché bene non lo è stato più.

È un discorso delicato, non è un semplice parlare con qualcuno e sfogarsi. È un viaggio dentro sé stessi che un briciolo lo intimorisce.

È guardare la propria anima da una prospettiva diversa ed è lecito avere paura.

Per il momento, tuttavia, non vuole fissarsi troppo. Pensa affronterà la cosa in quello studio con le poltrone rosse, il giorno che sarà.

Non ora.

Ora è nella sua stanza, con Manuel seduto accanto e un gatto bianco, sporco di terra che gli dorme addosso.

È uno scenario che lo tranquillizza.

«Ho pensato anche a— la cosa dell'altra sera» cambia discorso.

«Cosa?».

«Al fatto che hai detto a tua madre che ti piacciono i ragazzi» spiega; soltanto adesso solleva lo sguardo e lo rivolge al compagno. «Hai fatto una cosa - coraggiosa».

Manuel scuote il capo e si lascia scappare una risata priva d'entusiasmo. «Ma va» esclama. «Non ho fatto nulla de che».

«Non è vero» Simone si affretta a contraddirlo. «Hai detto che in quel momento eri tu al cento per cento ed è— Quel che intendo è che...». Fa una breve pausa, scrollando le spalle. «Delle volte si ha paura, no? Lo sai. Però si sconfigge quella paura e si diventa coraggiosi». Accenna un lieve sorriso. «E quando si è coraggiosi, si è liberi. Anche se spesso la libertà ti riporta alla paura perché— Ci sono persone là fuori che temono la libertà, quasi la disprezzano e tentano di affossare quella altrui con cattiveria e atti meschini. Troppo coraggio e troppa libertà scatenano un panico generale alla gente che vorrebbe tutto - uguale e ordinario, niente fuori posto. Vanno in tilt se qualcosa esce dai loro schemi, dai loro stupidi canoni».

Manuel ascolta in silenzio quel discorso. Considerata l'ora, il silenzio della notte, i versi dei grilli che si odono a causa della finestra socchiusa, quelle frasi gli rimbombano notevolmente nel cervello.

«A me piace 'sta libertà» dice, lo confessa con una naturalezza disarmante che manco credeva di possedere. «Non ce rinuncerei pe' nulla al mondo».

Simone si rabbuia per un attimo. «Nemmeno per le cattiverie?».

«Non me fanno più paura manco quelle» Manuel risponde di getto. Incredibile pensare che, qualche mese prima, la fissazione dell'opinione altrui lo avrebbe ridotto a pezzi.

Ma adesso non importa più.

Ora è decisamente libero.

L'ennesimo sorriso si delinea sulle sue labbra. «Te ricordi che m'hai detto la sera de Capodanno?» soffia e vede l'altro ragazzo annuire. «Non te sapevo risponne perché ancora non ero libero» esclama. «Peró mó lo sono e scusa se c'ho messo tanto, ma mó... Mò te direi sì».

A Simone un briciolo il petto trema, per una serie infinita di motivi - come aver aspettato oltre un anno per quello, forse persino di più. Gli occhi gli si son fatti appena lucidi. «Ci arrivi sempre tardi alle cose» soffoca.

Manuel annuisce. «Mi madre me lo dice sempre che sò un ritardatario cronico» sdrammatizza e abbozza una leggera risata.

In seguito, muoversi è spontaneo, così come allungare una mano verso di lui.

Sono seduti a pochi centimetri di distanza, del resto, e gli ci vuole poco per raggiungere il viso del compagno: posa lieve un palmo su di esso e Simone, di riflesso, ci spinge la guancia sopra.

Probabilmente si bacerebbero. Lo vogliono entrambi.

Se fossero un po' più coraggiosi, in quel momento, lo farebbero.

Eppure è sufficiente una leggera esitazione, un'attesa priva di senso e il gatto ancora privo di nome che si sveglia e arranca con le zampe, passa dalle gambe di Simone a quelle di Manuel, con lieve fatica e barcollando.

Il primo abbassa prontamente lo sguardo e, poco dopo, non sente più la mano dell'altro ragazzo su di sé. «Gli piaci» bofonchia, con voce impastata per essere stato sul punto di piangere - ma sarebbe stato una sorta di pianto bello.

«M'ha graffiato tutto prima, altrochè».

«È una dimostrazione d'affetto quella».

«Giura» Manuel lo prende in giro, mentre il felino gli sta mordicchiando un dito. «T'assomiglia allora».

Simone s'affretta a fare cenno di no con la testa. «Assomiglia più a te» replica. «C'ha la faccia tutta incazzata».

«Che vorresti dire, scusa?».

«Niente, niente!» ridacchia.

Quel momento di leggerezza serve ad entrambi, nella magia della notte, con in sottofondo il verso dei grilli e lievi miagolii.

Il gatto, infatti, è approdato sul materasso, impiglia le unghie nelle coperte.

Lo fissano entrambi, con un sorriso che non accenna a levarsi, fisso sulla bocca.

Manuel distoglie per primo lo sguardo dall'animale, portandolo, come ovvio, su Simone che ancora scruta e analizza ogni movimento del cucciolo.

Prende un respiro profondo, vorrebbe dirla quella cosa. Ce l'ha sulla punta della lingua, insieme alla voce di Martina che gli rimbomba nella testa e lo incoraggia. Forse sta persino per farlo poiché schiude le labbra, sta per articolare la prima sillaba quando «Vuoi restare?» lo precede l'altro, rivolgendogli l'attenzione. «A— Dormire intendo. Chiudiamo la porta».

Manuel si blocca per un breve istante, mentre il gatto si sdraia e rotola tra le lenzuola. «Non c'è bisogno» sussurra. «De chiude la porta».

Il cuore di Simone perde un battito - o forse manco più batteva da prima, quindi non è cambiato un po' molto.

È sempre incredibile come il tempismo vada a scombussolare tutto.

Se avesse sentito tutto ciò soltanto due mesi prima, gli eventi si sarebbero svolti in modo diverso, adesso lo starebbe baciando, per poi fare l'amore e dormire insieme.

Invece si costringe a fare solo quell'ultima cosa perché in testa ha ancora un groviglio che non accenna a sciogliersi, ha i sensi di colpa che lo opprimono per far star male una persona che come unico crimine ha compiuto quello di volergli bene, solo che è capitato nel momento più sbagliato possibile.

Sono le uniche cose che davvero lo frenano, che la libertà un briciolo gliela fanno sfuggire di mano.

Per scelta.

Perché deve stare meglio lui prima di tutto e soltanto dopo può farlo con qualcun altro.

Pensa che si meritano questo.

Così, per quella notte, senza spingersi oltre, prendono entrambi posto su quel letto ad una piazza e mezza, uno accanto all'altro, sdraiati su di un fianco, faccia a faccia su un unico cuscino e un gatto bianco ancora un po' sporco di terriccio che gioca sul materasso ai loro piedi.

Non è niente di eccezionale, una notte di tardo inverno che richiama alla lontana la primavera.

Non è niente di eccezionale, ma ci sono loro due.

E questo è già più che sufficiente.


**


La luce del sole picchia sul viso, passando attraverso i vetri spessi della porta-finestra.

È l'unica cosa che conduce Manuel al risveglio.

Il sonno lo ha accompagnato per ore.

Ricorda vagamente di aver parlato con Simone fino alle cinque di mattina - di cosa non lo sa, per l'esattezza; niente di troppo importante, nessun discorso serio, solo lievi bisbigli e proposte assurde di nomi da dare un gatto.

Si trova sdraiato a pancia in su sul materasso, la schiena gli fa un po' male.

Allunga un braccio verso il lato destro del letto, quello che Simone ha riempito durante le ultime ore. Lo trova vuoto, ma non si allarma troppo.

Sì, persiste in lui un lieve timore di essersi immaginato ogni cosa, però ci sono prove evidenti che tutto è successo per davvero - ad esempio il fatto che si trova nella sua stanza, che scorge la mensola della libreria con tutti i pupazzi sopra; non vede quello a forma di rana che qualche mese prima gli ha regalato.

Chissà che fine ha fatto, si chiede.

Come si chiamava?

Mister Frog.

Chissà che fine ha fatto Mister Frog.

Magari, pensa, un giorno lo scoprirà.

Si stropiccia gli occhi, mentre, a fatica, tenta di abbandonare il letto.

C'è parecchia luce in tutta la casa, la quale è anche riempita da un forte odore di caffè.

Non sa che ore siano, ma il sole gli pare molto alto nel cielo.

Di sicuro è tardi per andare a scuola, però, quella volta, non gli dispiace per nulla aver marinato le lezioni.

Trascina i piedi scalzi sul pavimento, poi sui gradini di legno che scricchiolano sotto al suo peso.

Raggiunge la sala da pranzo poiché da quel luogo ode gli unici rumori presenti nell'abitazione.

Lì, seduto al centro esatto del tavolo, con davanti una tazza grande di ceramica blu e un pacco aperto di Macine della Mulino Bianco, ci trova Simone, accomodato su una sedia, con il gatto accovacciato sulle sue gambe che, con occhi vispi, segue ogni movimento della sua mano, dall'inzuppare il biscotto nel latte, al portarselo alla bocca per morderlo.

Manuel si ferma in piedi, a pochi metri di distanza.

Le sue labbra si curvano in un mesto sorriso.

L'altro ragazzo non si è accorto della nuova presenza, tanto che tiene il capo basso ad analizzare le reazioni del felino ai propri gesti.

«Il latte no, ma i biscotti sì?» esclama Manuel, ad un tratto, e spera di non aver distrutto l'atmosfera, quell'equilibrio precario che si è creato.

Ma non accade.

Simone solleva lo sguardo e gli sorride di rimando, con la bocca mezza piena e delle briciole sul mento.

«Non glieli ho dati, ovviamente» borbotta.

«Ovviamente» lo prende in giro il compagno.

Ovviamente, ma come parli?

Si avvicina in maniera lenta al tavolo, fino a che non può prender posto accanto al compagno. Allunga una mano per recuperare una delle Macine dalla confezione giallo chiaro.

Il gatto segue con attenzione pure quel gesto e si lascia scappare persino un miagolio.

A Manuel viene da ridere e da roteare gli occhi al contempo.

Che a lui manco piacciono i gatti, tra parentesi.

«Ma che ore sono?» domanda ad un tratto.

«Quasi l'una» risponde Simone, mentre afferra la tazza piena di latte tiepido e ne beve un sorso.

«E mi madre non c'ha svegliato urlando pe' farci annà a scola?».

«Penso c'abbia provato, ma non abbiamo sentito».

«Ah, bene».

«Però le è piaciuto Biscotto».

Manuel non afferra subito la frase, ci impiega qualche secondo a collegare i pezzi. Aggrotta la fronte e «Cosa?» replica.

Simone abbozza una risata. Riposa la tazza sul tavolo, ormai mezza vuota, si passa tre dita sul mento per togliere le briciole, poi indica con un cenno del capo l'animale che tiene sulle gambe.

«Il gatto» spiega. «A tua madre piace, mi ha mandato un sacco di gif stamattina, quindi lo approva».

Manuel sbatte rapidamente le palpebre e sorvola sull'ultima parte del racconto. «Sì, l'avevo intuito» commenta. «Ma perché— Cioè, tu hai chiamato il gatto Biscotto?».

«Sì».

«Ma che nome del cazzo, scusa».

Simone spalanca la bocca - che in realtà ci ha pensato pure parecchio a quel nome e ne è abbastanza fiero. «Gli sta bene» insiste. «Gli piacciono e poi— Boh, pensavo che ancora mi devi...».

Abbassa lo sguardo, scrolla le spalle. Anche il tono della sua voce diminuisce appena. «Pensavo che ancora mi devi insegnare a farli» biascica. «I biscotti, intendo. Boh, era carino».

Per un breve istante, Manuel perde l'uso della parola. Nemmeno ci sarebbe mai arrivato ad un simile ragionamento: del resto, il cibo, per lui, è sempre stato un simbolo di pace, tregua; per farsi perdonare qualunque cosa, lo utilizza spesso.

Ricorda un episodio molto piacevole con patatine e ketchup, per esempio.

E ricorda anche il latte con i biscotti.

Non lascia trasparire il fatto che si sia addirittura commosso - il che va un po' in contrasto con ciò che voleva esternare la sera prima.

Finge un colpo di tosse e «Beh, sempre meglio di Milk» esordisce. «Non je sarebbe mai piaciuto quello».

«Penso di no».

Biscotto - quello ormai è il suo nome ufficiale - mentre loro conversano, si sposta e zompetta sul tavolo; ha ancora qualche traccia di terra che gli sporca il pelo, devono lavarlo.

«Simó, e non farlo salire sul tavolo» Manuel si lamenta nell'immediato, ma Simone sta ridendo a vederlo agitato per un simile evento, tanto che «Mica controllo dove va».

«Eh, dovresti!».

«Vedi che stanotte ha dormito sulla tua pancia».

«E non l'hai spostato?».

«Ovviamente no».

Ovviamente.

Manuel non sa come andranno le cose da quel momento in poi e nemmeno Simone.

Nessuno dei due ha un'idea ben precisa, perché si sono - forse - fatti del male a vicenda per molto tempo, nascondendosi dietro dubbi, segreti, paranoie e frasi celate e non dette.

Il non parlarsi è stato deleterio per loro, in precedenza.

Ma magari, una volta toccato il fondo, da lì possono ricominciare.

Piano.

Un passo per volta, nel risanarsi a vicenda.

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