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Karma




La sala da pranzo è immersa nel grigio di quella giornata uggiosa. Nemmeno la luce accesa riesce a riscaldare l'ambiente.

Manuel rigira il caffè ormai freddo con il cucchiaino. Tiene lo sguardo basso, tentando di ignorare il resto.

Il resto, ossia Simone che gli è seduto accanto in sala da pranzo.

Il problema è che la sua presenza è difficile da ignorare ed è terribile ricevere soltanto indifferenza dall'altra parte.

Non può nemmeno biasimarlo: al suo posto, avrebbe fatto pure di peggio.

Peggio di entrare a scuola, delle volte, alla seconda ora per non andare insieme su l'unico motorino che hanno.

Peggio che uscire un'ora prima per andarci in autobus o farsi venire a prendere da qualcuno - che immagina sia Andrea.

Anzi, ovviamente è Andrea.

Certo che è Andrea, lo ha pure visto in più d'una occasione e ha decisamente perso il controllo sugli avvenimenti tra i post di Instagram e commenti.

Insomma, la situazione risulterebbe difficile in qualunque circostanza, ma nella loro, in particolare, è decisamente più complicato.

Perché vivere sotto lo stesso tetto e non parlarsi è deleterio, specialmente quando sopraggiungono quesiti esterni.

A lui, ad esempio, Anita non smette di domandare cosa c'è che non va, che devono parlare, che se lo sono promesso.

Ma non risponde, dal momento che l'unica replica sarebbe che tutto non va, che c'ha tutto fuori posto e che a parlare non ci riesce. Con nessuno.

Così, inesorabilmente, allontana tutti.

Che merda.

Persino Dante ha iniziato a farlo ed è opprimente perché al professore gli è difficile mentire e deve evitarlo quanto più possibile.

È quest'ultimo che prende posto al tavolo, di fronte a loro che manco si guardano, manco si considerano. Accenna un sorriso, sarcastico, mentre afferra la caffettiera dal manico e si versa l'ultimo goccio di caffè in una tazza di ceramica cerulea. «Ah, stamattina c'è ancora il gioco del silenzio, vedo» esclama e abbozza una risata, per smorzare la tensione nella stanza.

Simone solleva lo sguardo in quel momento, distratto, mettendo in bocca un biscotto che ha appena inzuppato nel latte. Non replica in alcun modo a quella affermazione, piuttosto «Possiamo avere un'altra moto?».

«Come?».

«Un'altra moto» ribadisce. «Abbiamo venduto l'altra, ma non è stata una grande idea». Scrolla le spalle, sta ancora masticando e butta giù il boccone. Ignora lo sguardo interrogativo che gli sta rivolgendo chi gli è di fronte e «Possiamo?».

Dante aggrotta le sopracciglia. «E perché questa fantastica idea?».

«Io e Manuel abbiamo orari diversi, poi devo fermarmi a scuola e fare cose mie. Ci conviene averne due e tu mica puoi lasciarci la macchina».

«No, ma...».

«È pure Natale tra un po'».

Manuel ascolta la conversazione col capo basso. Non hanno davvero bisogno di una nuova moto, una sola va più che bene – è sempre andata bene, nell'ultimo anno - ma capisce il motivo di una simile richiesta.

Perché tanto pure per Simone è difficile ignorarsi.

Lui non dice nulla, non interviene in quel dialogo nel quale Dante taglia corto con «Poi vediamo, eh».

Già lo sa che sicuramente l'altro ragazzo l'avrà vinta ed è un nuovo colpo che deve incassare.

Un po', comunque, pensa pure di meritarselo.

Simone beve d'un fiato il latte rimasto nella tazza. Lo fa mentre già si sta alzando in piedi. Dopo annuncia «Vabbè, io vado». Riserva un'occhiata fugace a Manuel - che per l'altro equivale ad essere colpito da una lama affilata che gli taglia la pelle e lo fa sanguinare - e abbandona la stanza.

Dante rimane immobile. Corruccia le labbra in una smorfia. Sente la porta d'ingresso sbattere, immagina a causa del figlio che è appena uscito di casa.

Gli occhi ricadono su chi è rimasto, silenzioso e cupo. «Tutto bene?» osa domandare. «Di solito ti dobbiamo chiedere di smettere di parlare e dire cose fuori luogo, adesso sono giorni dobbiamo pregarti per il contrario».

La voce del professore arriva alle orecchie di Manuel con leggero ritardo. Ci impiega qualche secondo a metabolizzare, a distogliere l'attenzione dal caffè che ha smesso di fumare. Sbatte piano le palpebre. «Tutto bene» sussurra.

«Sicuro?».

«Sì».

Dante annuisce e schiocca la lingua sul palato. Congiunge le mani sul tavolo. «Sai che...» comincia, con leggera esitazione. «Nella nostra scuola, le voci girano in fretta. Ovviamente sono solo voci, non le reputo vere finché rimangono tali».

«Che voci?».

«Voci, Manuel. Voi ragazzi parlate tanto, no?».

«Pure troppo».

«Eh». Si ferma per un attimo, fingendo un colpo di tosse. «É solo per dire che...» riprende «Che 'ste voci non le sto ascoltando, perché se ci fosse qualcosa da dire, sono sicuro che me la diresti tu. A me o a tua madre».

Il respiro di Manuel si smorza un briciolo. Gli sembra quasi che tutti siano pronti ad affrontare un discorso che sente troppo distante da sé, come se non ne fosse assolutamente in grado.

No, non è proprio capace di affrontarlo in quel momento, con nessuno.

Le parole gli si bloccano in gola ogni volta.

Ogni. Cazzo. Di volta.

Quindi a stento riesce a sostenere lo sguardo dell'uomo per qualche secondo. Poi non regge, si alza in piedi in maniera lenta, abbandonando a metà la colazione. «Devo andà» annuncia.

«Manuel...».

«Simone s'è preso la moto sicuro, se non m'avvio adesso, faccio tardi».

Dante scuote appena il capo. «Fai la strada con me».

Manuel si irrigidisce. Manco di fare quello è capace. Ci sarebbero altre domande. «Meglio di no» taglia corto. «Faccio du' passi e poi ce sta er pullman».

«Sicuro?».

«Sicuro».


**


Simone non ha preso la moto quella mattina. Manuel ha trovato le chiavi al solito posto, abbandonate sopra il mobile di legno accanto alla porta d'ingresso.

A scuola, tuttavia, ci arriva comunque in ritardo ed è costretto ad entrare alla seconda ora.

Un po' lo fa di proposito, un po' no.

Tanto ogni lezione è una tortura e lui non ascolta o memorizza nulla: le parole dei professori gli entrano da un orecchio e gli escono dall'altro, soprattutto se si tratta di lettura e analisi de La Divina Commedia - che stanno trattando pure Il Paradiso che è la parte che più lo annoia.

L'Inferno, quello sì che era bello.

All'inferno ci si sente adesso, ma questi sono dettagli.

Uh, tragica.

È il momento della ricreazione.

Manuel è seduto su una delle panche di legno sistemate in corridoio, tra il viavai degli studenti e un chiacchiericcio costante che rimbomba tra le mura spoglie.

Di solito, lì ci si metteva con Simone, seduti l'uno accanto all'altro per qualche secondo prima di andarsi a chiudere in bagno, insieme.

Adesso, invece, non sa manco dove sia l'altro ragazzo: non è in aula, nemmeno nei paraggi.

Da un lato, meglio così: non deve vederlo in compagnia di qualcuno.

Tiene lo sguardo basso. I capelli scompigliati gli ricadono in avanti e, parzialmente, gli nascondono il viso. Ha ficcato le mani nelle tasche della felpa che indossa.

«Vuoi?».

Manuel solleva il capo con leggero ritardo.

Chicca gli è di fronte, l'espressione seria in viso. I capelli castani le incorniciano il viso e cadono lisci sulle sue spalle. Regge un bicchiere - di sicuro proveniente dalla macchinetta della scuola - da dove fuoriesce del leggero fumo; dall'odore, pare caffè d'orzo.

«Che è?» borbotta lui.

«Caffè d'orzo macchiato».

«Madonna, che schifo. Te bevi quella roba?».

La ragazza scuote il capo e accenna una leggera risata. Gli siede poi accanto. «Non è male» spiega. «Il caffè de qua me fa venì er bruciore di stomaco».

«Pensa te». Manuel rotea gli occhi, smette di prestarle troppa attenzione, puntando gli occhi altrove - un punto vuoto davanti a sé, ad esempio, che sembra essere più interessante di tutto il resto.

Ah, come c'è finito ad essere così spento?

Chicca rigira la bevanda calda con lo stecchino di plastica biodegradabile che viene fornito insieme - ha quasi l'impressione che possa sciogliersi di lì ad un attimo. Resta in silenzio per qualche secondo, guardandosi in maniera furtiva attorno. «Te posso dì una cosa?».

Tanto lo farai, qualunque sia la risposta. E dunque: «Vai».

«Te stai a' isolà».

A Manuel sfugge una risata. Quel particolare l'ha notato da solo, non c'è assolutamente bisogno che qualcuno glielo faccia presente. C'è anche un motivo evidente, tipo che la gente pare rivolgergli uno sguardo diverso ogni volta o che parli sussurrando appena entra in una stanza.

Grazie al cazzo che si isola.

«Giura, Chì» borbotta allora. «Mejo che me isolo che stare a sentì le cazzate che dicono gli altri, no?».

Chicca prende un respiro profondo e scrolla le spalle. «Senti, è solo– per come è successo, no?» confessa. «La gente - gli altri che parlano, perché nessuno se lo aspettava».

«E non me sembra tanto una giustificazione» attesta Manuel e soltanto ora torna a far incrociare i loro sguardi. «Te pare?».

«Non lo è». Chicca abbozza un nuovo sorriso, con meno entusiasmo rispetto a prima. «Non sto giustificando nessuno. Nemmeno me quando t'ho scritto certe robe»

«Quindi che voi?».

«Che non te allontani» le viene fuori con voce appena strozzata. «Da me, almeno. Che sò sempre l'amica tua, no? E che se me vuoi parlà, de qualsiasi cosa, anche se non di questo...». Fa una breve pausa quando scorge Simone apparire in fondo al corridoio. Manuel, però, non lo nota poiché ha il capo girato dalla parte opposta.

«Io ce sto per te, Manuel. Dico sul serio».

Manuel serra la mandibola. Manco gli risultano nuove quelle parole. Incredibile come sia circondato da persone che gli dicono che ci sono eppure lui si senta tremendamente solo.

Magari perché alzare spessi muri come difesa provoca quello: sentirsi soli, anche in mezzo ad una folla di persone.

«Vabbè» taglia corto. «Se me viene in mente qualcosa da dirte, te cerco».

«Manuel, sono seria».

«Eh, pure io». Nel momento in cui pronuncia quelle ultime parole, è in procinto di rimettersi in piedi. Tuttavia, si gira prima di farlo ed allora incrocia lo sguardo con Simone, che sta per rientrare in classe.

Dura poco, una frazione di secondo, forse, durante la quale Manuel trattiene il respiro. Dopo, l'altro ragazzo scompare oltre la soglia dell'aula della 5^B.

Fa strano guardarsi, ma non vedersi.

Le ore successive a lezione sono addirittura peggio - se mai possibile.

Manuel si ritrova a scandire il tempo che passa inesorabilmente lento e pesante, come se le lancette del grande orologio a sfondo bianco piazzato sopra alla lavagna si fossero fermate.

Di nuovo, immagina che, all'inferno, le pene da patire siano più lievi.

Ogni tanto, cercando di non farsi notare, si gira per osservare Simone, posizionato all'ultimo banco. Non riesce mai ad incontrare i suoi occhi, ma meglio così, altrimenti sarebbe fregato.

Il suono della campanella dell'ultima ora sa di liberazione.

Manuel è il primo ad abbandonare l'aula, lo fa di fretta e furia, senza aspettare nessuno - che deve aspettare, poi?

Chi deve aspettare, poi.

Lo zaino pressoché vuoto gli rimbalza sulla schiena frattanto che scende di corsa le scale. Non ha dove andare, in realtà, vuole soltanto abbandonare quell'edificio.

Ciò nonostante, non appena ne è fuori, si blocca davanti al grande portone aperto di legno.

Lo fa quando nel proprio campo visivo rientra Martina: la vede di fronte al chiosco dove iniziano a servire panini per il pranzo, con le braccia incrociate al petto e il capo piegato su di un lato.

La sua espressione non vuole analizzarla perché gli pare soltanto adirata - e c'ha pure ragione. Anche a lei ha riservato il trattamento del silenzio per giorni.

Esita a raggiungerla.

Lo fa qualche istante dopo, guardandosi attorno e stringendo i pugni lungo i fianchi.

Cerca di apparire meno nervoso di quanto non lo sia in realtà. «Che ce fai qua?» dice, tra i denti, quando le è di fronte.

Martina rotea gli occhi, infastidita. «Disse quello che ha smesso de risponne ai messaggi e alle chiamate».

«Stavo a scola».

«Pure ieri?» incalza lei «O l'altro ieri o il giorno prima ancora?».

«Martì, e daje».

«Daje de che? M'hai fatto preoccupà, m'hai fatto!». Sbuffa e, con un palmo aperto, batte piano sul suo petto. «Te immaginavo già a galla sul Tevere».

«La stai a fa' tragica».

«Ah, mò sò io la tragica?».

Quella conversazione avviene mentre gli alunni del liceo abbandonano l'edificio a piccoli gruppi. Tra di essi, c'è anche Simone.

Manuel se ne accorge quasi nell'immediato: la sua presenza la percepisce, in un modo contorto, sempre e comunque. Per cui non è affatto un caso che si volti nell'esatto momento in cui l'altro ragazzo supera la soglia del portone della scuola, per vederlo uscire con accanto Andrea; è quest'ultimo che segue a passo svelto, lungo la strada, nella direzione opposta rispetto a dove si trova lui.

Anche stavolta, il loro contatto visivo dura un breve istante, un battito di ciglia.

Anche stavolta si guardano, ma non si vedono.

Martina se ne rende conto, nota tutto e, come già detto, il silenzio dell'amico lo capisce ogni volta. «Gli hai parlato?».

Manuel sbatte rapidamente le palpebre, un po' per aiutarsi a tornare alla realtà. «A chi?».

«Come a chi! A Simone, me pare ovvio».

Ecco.

No, ovviamente non ci ha parlato con Simone. Sono trascorse quasi due settimane dall'ultima volta in cui davvero si sono rivolti la parola. A scuola si evitano, a casa pure; l'altro, poi, a casa la sera non c'è quasi mai, esce la maggior parte delle volte e torna tardi, avvisando soltanto Dante o Anita.

È impossibile, in pratica, avere una conversazione con lui, dovrebbe braccarlo e non ne ha per nulla il coraggio.

In sostanza, tutti vogliono parlare con Manuel, eccetto la persona con cui davvero vorrebbe parlare, la stessa con la quale ha il terrore di iniziare un dialogo.

Perfetto, insomma.

«Non—» fa per dire. «Vabbè, io, uhm— c'ho delle cose da fà». Cambia discorso, evita l'ostacolo.

«Che c'avresti da fà?».

«Cose mie, Martì. Ce sentiamo, mh?».

«Davvero fai?».

Manuel ignora quell'ultima domanda, così come l'espressione che Martina assume, sia confusa che, di nuovo, arrabbiata.

Pensa che ne abbia tutte le ragioni, ma lui non riesce a sostenere un eventuale interrogatorio, non reggerebbe a quesiti che lo porterebbero ancora una volta a crollare. Quindi, meglio allontanarsi il più possibile, da tutto e tutti, adottando quei meccanismi di difesa deleteri dei quali non riesce a liberarsi.

Difatti, già si accinge a raggiungere la moto dalla carrozzeria bianca, recuperando le chiavi che ha tenuto nella tasca del giubbotto nero che indossa - finalmente lo ha cambiato, il calo delle temperature ha contribuito ad una simile scelta.

Fa finta di non sentire il «Manuel, sul serio?» che l'amica gli urla ulteriormente dietro.

Recupera il casco da sotto la sella del motorino e lo indossa.

Che poi è strano guidare il motorino di Simone senza di lui.

In seguito, ci sale su, inserisce la chiave e accende il motore, il quale fa rombare. Parte accelerando, facendo sgommare la ruota anteriore sull'asfalto e lasciando la ragazza con ulteriori preoccupazioni.


**


Manuel rientra a casa a tardo pomeriggio.

Lo fa in assoluto silenzio, mentre a villetta Balestra non pare esserci nessuno. Quantomeno, lui non se ne accerta.

Sale le scale al buio, che tanto le conosce a memoria – per fortuna, non cade.

Ha intenzione di andare in camera propria, togliersi di dosso lo zaino che porta sulle spalle che si è fatto irrazionalmente troppo pesante, così come i vestiti che gli danno solo fastidio, gli irritano la pelle.

Non è davvero così, è una sensazione sua. Il punto è che, in quel momento, gli dà fastidio ogni cosa.

Gli dà fastidio persino esistere.

Tuttavia, la luce proveniente dalla stanza che precede il luogo dove vuole recarsi, lo blocca.

La porta della camera di Simone è aperta.

A Manuel basta fermarsi sulla soglia per notare la sua presenza lì dentro: lo vede di spalle, davanti al letto; presume si sia appena infilato quel maglione nero, al di sopra di una camicia bianca.

L'ha rimessa, la camicia.

Indugia per qualche secondo perché vorrebbe dire qualcosa, addirittura pensa a qualche frase che non risulti strana o inopportuna. Per cui «Stai uscendo?» dice e strizza le palpebre per aver pronunciato una frase simile.

Vabbè, insomma, c'hai provato, lo rimbecca la propria coscienza.

Quasi teme la risposta – che è abbastanza scontata, dato che Simone si sta vestendo, ha le scarpe ai piedi, ovvio stia per uscire. Quest'ultimo, difatti, ci impiega un po' a rispondere. Lo fa voltandosi in maniera lenta, mentre aggiusta il bordo inferiore del maglione per non creare pieghe. La sua espressione è seria. «Ah-ah» risponde, sintetico e con tono piatto.

In quell'istante, nella testa di Manuel rimbomba la voce di Martina, i suoi consigli sul parlare a cuore aperto, sul confessare le cose, anche se fanno paura.

Il problema è che la paura, delle volte, è troppo grande per poter essere davvero combattuta, un mostro nero che avvolge e stritola senza possibilità di fuga. E lui non riesce a liberarsene, di quella dannata paura, di quella morsa soffocante che lo attanaglia.

Si chiede perché sia così.

Perché non può essere tutto più semplice?

«Senti, uhm---» ci prova, abbassando lo sguardo e chiudendosi nelle spalle.

«Faccio tardi» Simone lo precede, smorza ogni possibile frase per cominciare un dialogo.

Manuel strabuzza gli occhi, frattanto che osserva l'altro ragazzo infilare un cappotto nero, felpato all'interno, che non gli ha mai visto indossare; non sa manco quando l'ha comprato, l'ultima volta, per negozi, ci sono andati insieme.

Stringe i pugni lungo i fianchi, lo squadra ancora, analizza i movimenti che compie nella stanza che lo portano a raccattare il telefono e il portafoglio abbandonati sulla scrivania e, in seguito, a inserirli nelle tasche posteriori dei jeans.

Si pizzica il labbro inferiore con gli incisivi. «Non te puoi fermà manco du' secondi?».

Simone fatica a farlo, a fermarsi. Fatica persino ad essere nella stessa stanza con Manuel, dal momento che sa benissimo che significa essergli vicino: sa che si sta sforzando per stargli lontano, che lo sta facendo perché è la cosa migliore, per non stare di nuovo male, per non farsi spezzare di nuovo il cuore. Sa che ha bisogno di tempo per far sì che le proprie ferite si rimarginino e questo implica imporre una distanza tra lui e l'altro ragazzo.

L'indifferenza è l'unica arma che è in grado di utilizzare e per questo deve, si costringe a mostrarsi in quel modo: impassibile e freddo. Per non cedere. E dunque «No» esclama. «Sono di fretta».

Pochi metri li separano in quella stanza che pare essere troppo piccola e adesso si guardano addirittura in faccia.

Manuel incassa pure quel colpo. Pensa di meritarlo, ancora. «Okay» sussurra. «Magari quando torni, allora».

«Quando torno, cosa, Manuel?».

Rabbrividisce a sentirlo pronunciare il proprio nome in quella maniera: è strana, diversa dal solito; è un tono apatico, tagliente, lacerante. Non è come prima.

Tira su col naso e prende un respiro profondo. «Possiamo parlare quando torni».

A Simone sfugge una risata, un briciolo isterica. «Mi pare che--- m'hai già detto tutto quello che dovevi dirmi, no?».

No.

No, Manuel non l'ha fatto, non gli ha detto davvero un cazzo, ma deduce sia normale che l'altro lo pensi.

Purtroppo, è assolutamente logico.

«No, io...» fa per controbattere, ma Simone lo frena per una seconda volta, scuotendo il capo, superandolo e indirizzandosi verso la porta.

Perfetto.

«Simo...» lo richiama, con la voce che gli si spezza appena in gola. Deve compiere mezzo giro su sé stesso per poter tornare a vederlo, di spalle, fermo sulla soglia della porta. «Quindi – va così?» dice, piano. «Finisce e basta?». Non inserisce alcun soggetto, non fa ulteriori riferimenti.

Fa paura persino dare una definizione di ciò che hanno avuto. E anche quella sarebbe facile da tirar fuori, se solo non fosse paralizzato dal terrore.

È, poi, la prima volta che un concetto del genere gli esce fuori di bocca – un finisce qualcosa che non ha mai reso concreto.

Simone rimane serio. Volta il capo di qualche centimetro, quel che è sufficiente per far incrociare i loro occhi. «Non può finire una cosa che non è mai iniziata, no?».

Quella sentenza è micidiale. Si abbatte su Manuel con violenza, lo tramortisce.

E pensa di meritare anche quello, che sia il karma a punirlo per azioni compiute in passato.

Che se lo merita di stare male adesso, di perdere Simone, di vederselo scivolare via tra le dita, trascinato lontano da altre persone.

Se lo merita per come si è comportato e per le cose che gli ha detto.

Se lo merita, se lo merita, se lo merita.

Non è nemmeno in grado di reagire. Non saprebbe come replicare.

Si fa avvolgere dal silenzio che si fa opprimente.

Non prova manco a fermare l'altro ragazzo.

Lo lascia andare, per l'ennesima volta.


**


«Simo, tutto okay?».

Le dita di Alessio gli vengono schioccate davanti e Simone sbatte rapidamente le palpebre per riprendere un minimo di contatto con la realtà.

Tutto okay non è la definizione esatta per come si sente in quel momento: spezzato, rotto, vuoto.

Però «Sì, tutto okay» borbotta. La sua voce a stento è udibile nel chiasso del pub dove si trovano. È un locale dallo stile irlandese, con tavoli e sedie di legno lucido e scuro e ornamenti verdi posti in ogni dove nell'ampia sala rettangolare; le pareti sono riempite da quadri ritraenti paesaggi di montagna oppure stemmi di squadre di calcio che lui non conosce. Non è mai stato appassionato a quello sport.

Simone è seduto ad un tavolo decisamente piccolo per starci in cinque: il divanetto su cui è accomodato, di finta pelle - anch'essa verde scuro - è stretto; ha accanto, sul lato destro Alessio e, su quello sinistro, Mirko. Di fronte, su due sedie e, quindi, più larghi e comodi, ci sono Leonardo e Andrea.

I bicchieri di birra posti sulla superficie piana sono mezzi vuoti per tutti.

«Sicuro?» insiste Alessio, bevendo un sorso dell'Irish Stout che ha ordinato. Gli rivolge un'occhiata rapida, di sfuggita, poi lo sguardo lo sposta su Andrea che gli è davanti – ed è una cosa che accade spesso, tra di loro. Del resto, sono migliori amici da anni, si conoscono alla perfezione e si capiscono senza manco dirsi niente.

Non è una sorpresa che soltanto Alessio sia a conoscenza dell'interesse di Andrea per Simone – quello che non è mai svanito, settimane dopo settimane. E questo il primo ragazzo lo sa e si è già preoccupato di rimproverare Leonardo per aver fornito su un piatto d'argento il suo numero direttamente a Mirko.

Mirko, che è un tipo strano, piacevole sotto certi aspetti, terribile sotto altri. Quest'ultimo è rimasto silenzioso per tutta la serata, invece.

«Sì, sicuro» risponde Simone, accennando un sorriso privo d'entusiasmo. Ha la testa altrove, eppure sta cercando di distrarsi. Non ha funzionato molto, in realtà, deve impegnarsi di più. «Uhm – devo... Mi fai passare un attimo?».

Alessio corruccia le labbra in una smorfia. Gli obbedisce, per lasciargli via libera e potersi rimettere in piedi. «Torno subito» annuncia Simone.

Lo vedono allontanarsi tra i tavoli pieni del locale, presumibilmente per raggiungere il bagno che si trova oltre il bancone, anch'esso di legno scuro e massiccio, dove sono presenti due ragazze intente a spillare birra in dei boccali di vetro.

«Il vostro amico mi fa salire la depressione» è il commento che esce fuori dalla bocca di Mirko nell'istante in cui la figura del ragazzo che si è allontanato non può più essere vista.

All'udire quelle parole, Andrea si irrigidisce. Tuttavia, non replica, si limita ad abbassare lo sguardo. È un particolare che nota soltanto Alessio, che si morde piano l'interno della guancia.

«Mirko, e daje» rimbecca, invece, Leonardo, scuotendo il capo.

«Sono serio. Penso sia la persona più noiosa sulla faccia della Terra e ho pure dovuto dirgli che è un tipo interessante».

«E perché gli hai chiesto di uscire allora?».

«Per scopare, genio». Mirko lo attesta con una naturalezza disarmante e, a tratti, fastidiosa. Scrolla le spalle, prendendo in mano il bicchiere della birra grande che ha consumato quasi nella sua totalità. «Magari stasera è la volta buona. Spero, non ce la faccio più».

Andrea serra la mandibola. Non ha idea cosa lo stia trattenendo dal tirargli un cazzotto in faccia. Pensa che, forse, avrebbe dovuto farlo prima, dal momento in cui ha saputo che aveva chiesto di uscire a Simone, che avrebbe dovuto, magari, avvertirlo, metterlo in guardia, non lasciare che, semplicemente, accadesse. Che Mirko, poi, non è manco suo amico, è un conoscente, un compagno di serate, nulla di più.

«Guarda che te conviene dirglielo se vuoi solo quello» interviene Alessio. «È un bravo ragazzo, non lo trattare di merda come tuo solito».

«Nessuno che è venuto con me s'è mai lamentato» Mirko ridacchia. «Tranquillo che non gli dispiacerà, se si sveglia, insomma. O lo devo far svegliare io, in qualche modo».

«Piantala». Andrea solleva il capo in quel momento, rivolgendo un'occhiata tagliente al ragazzo che ha appena parlato. Quest'ultimo ride ancora e «Che c'è, Andrè?» esclama. «Volevi fartelo prima tu? Possiamo sempre scambiarcelo, eh, non ti agitare».

Ecco, ora ad Andrea le mani appoggiate sul tavolo iniziano addirittura a tremare. Si costringe a non cedere – che nemmeno lo sguardo supplicante di Alessio riesce a calmarlo.

Così, si alza in piedi con uno scatto. Raccatta il cappotto nero e lungo senza indossarlo, borbotta un «Coglione» e si affretta ad abbandonare il pub, ignorando il «Permalosetto» che Mirko biascica come commento alla scena.

Alessio ha come primo istinto quello di seguirlo – ciò che farebbe ogni migliore amico, del resto. Viene frenato dal ritorno di Simone in sala, lo stesso che nota il modo frenetico in cui Andrea lascia il locale – troppo frenetico, arrabbiato, strano, non da lui.

Che comportamenti che non gli appartengono ne ha notati parecchi, ultimamente.

È il motivo per cui, senza manco ragionarci su per mezzo secondo, gli va dietro, incurante di tutto.

Lo fa per istinto, uscendo addirittura senza la giacca e patendo il freddo pungente di dicembre.

La strada davanti al pub irlandese è deserta e l'asfalto è reso lucido dalla pioggia caduta nelle ore precedenti. La temperatura è bassa, tanto che nuvole di vapore fuoriescono dalla bocca quando si respira.

Andrea è in bilico sul gradino del marciapiede, con il cappotto scuro che si è messo addosso: regge una sigaretta accesa tra indice e medio e ha lo sguardo rivolto davanti a sé, su un punto vuoto e buio – nemmeno la luce calda dei due lampioni presenti riesca a schiarire l'orizzonte. Tanto, comunque, non gli interesserebbe scrutarlo.

Simone si ferma a qualche metro di distanza, stringendo i pugni lungo i fianchi. «È – successo qualcosa?» osa chiedere. Non ottiene alcuna risposta, non nell'immediato. «Andre...».

«Niente, Simo» replica l'altro, voltandosi soltanto per mezzo secondo. «Torna dentro che si gela».

Quel consiglio non viene ascoltato, anzi, viene completamente ignorato, poiché Simone compie due passi nella sua direzione. «Boh, ti sei – alzato di scatto e sei uscito come una furia».

«Seh, volevo fumare».

«Solo quello?».

«Sì, Simo, solo quello». È appena acido il tono di voce che Andrea utilizza – perché è infastidito, è scontroso, vorrebbe prendere a sberle Mirko e la sua faccia strafottente, vorrebbe tornare indietro nel tempo e avere una reazione diversa agli screen ricevuti di quella conversazione, ancora più indietro, nei bagni della scuola, dove si è sentito dire grazie per essere mio amico.

Dalla parte opposta, Simone è confuso. Ancora una volta, si ritrova a non saper decifrare le persone ed è un particolare che detesta. Forse è la parte che lo conduce sempre a farsi del male in qualche modo, notando come la storia continua a ripetersi e lui a cadere in quella rete. «Sicuro?» prova ad insistere.

Andrea si lascia sfuggire una risata sull'orlo dell'isterismo. «Son sicuro» ribadisce ed allora compie mezzo giro su sé stesso, così da fare incrociare i loro occhi. «Davvero. Se per cortesia torni dentro che fa freddo, poi sono sicuro che Mirko c'avrà tante belle cose da raccontarti».

Okay, gli è uscita male. Si pizzica la lingua coi denti per aver parlato troppo.

Difatti, Simone aggrotta le sopracciglia. «Che – c'entra Mirko?». Sospira sommessamente. «Ci siamo visti un paio di volte, ma non è...». Si interrompe. Non deve giustificarsi, del resto. Non deve dire che con Mirko ci è uscito qualche sera, ma è stato strano e, per quanto lo abbia trovato – a tratti – simpatico, non pensa di voler proseguire la sua conoscenza. Tutto ciò non lo proferisce ad alta voce, però.

«Lascia stare, Simo. Sul serio».

Parole simili, Simone le ha già sentite. Anzi, gli sembra quasi di essere intrappolato in un circolo infinito di frasi taciute, di cose non confessate.

Ancora, ancora, ancora. Non se ne libera mai.

Alza le mani, in cenno di finta resa. «Sai cosa?» esclama. «Fai come vuoi, non mi interessa. Mi sono stancato della gente che non parla». Scuote il capo, ha intenzione di rientrare nel pub – ha mentito, fa davvero freddo là fuori.

Il tempo pare scorrere più lentamente in quell'istante, a rallentatore.

Accade quando Andrea lascia ricadere sul marciapiede il mozzicone di sigaretta ancora acceso. Prende un respiro profondo.

Uno.

Due.

Tre secondi esatti scanditi da tre falcate con le quali raggiunge Simone. Prende il suo viso tra le mani e preme la bocca sulla sua.

È un bacio diverso dal primo che si sono scambiati in quell'attico della periferia di Roma.

È diverso, perché quello è un vero bacio.

Simone, in un primo istante, non sa come reagire. Rimane fermo, socchiude le palpebre, appoggia i palmi sulle sue braccia.

Andrea si distacca di poco – davvero poco, perché ancora vicino per poter far sfiorare la punta dei loro nasi. «Non voglio essere solo un amico tuo» soffia.

C'è un attimo di silenzio tra di loro, anche se il tempo ha iniziato a scorrere più veloce.

Tanti pensieri si affollano nella mente di Simone, come il fatto che abbia sempre saputo di piacergli, che ha presupposto, però, che fosse qualcosa di scemato col passare dei giorni; invece, è ancora tutto lì. E, forse, la cosa non gli dispiace nemmeno un po'.

Perciò, si ritrova a sorridere appena, con gli occhi leggermente lucidi e il cuore che batte forte nel petto – per motivi che si sta sforzando di capire – con ritmo leggero e libero. Ed è allora che si spinge nella sua direzione ed è lui a cercare un secondo bacio, che dura di più, che coinvolge le loro lingue e smorza i loro respiri, mentre lievi oscillano, spostando il peso del corpo da un piede all'altro, sotto la luce del lampione che ora pare brillare sull'asfalto.


**


Manuel non lo sa cosa lo ha condotto proprio lì.

È abbastanza tardi, forse mezzanotte, e lui è seduto sullo sgabello rettangolare di finta pelle bordeaux, con davanti la tastiera del pianoforte e gli spartiti rilegati aperti su una pagina in particolare.

Ha difficoltà a leggere le note, non lo fa da un bel po' – da anni – ed è piuttosto arrugginito.

Le mani gli tremano un briciolo quando posa le dita sui tasti lucidi bianchi e neri. Esita, credendo quasi di non aver alcun diritto a suonare quello strumento, come se non lo meritasse.

Che quello è un regalo che gli ha fatto Simone e non gli ha mai detto grazie.

Non gli ha mai detto un sacco di cose, in realtà.

Inclina il capo su di un lato. La luce nella stanza è soffusa, anche se la lampadina fulminata è stata cambiata, ma probabilmente è di una intensità inferiore rispetto alle altre.

Manuel prende un respiro profondo, pare si debba preparare ad una immersione. Più o meno, è davvero così. Cerca di seguire le indicazioni che lo spartito gli fornisce, fa scorrere agili le dita sulla tastiera. Alcune note le manca, altre le prende sbagliate.

Corruccia le labbra in una smorfia, insoddisfatto.

Ci prova ancora, sforzandosi di essere meno teso, a lasciarsi guidare dalla musica senza pensare troppo, senza renderla troppo impostata – che forse non è manco un giusto metodo per avere una tecnica eccellente, ma tant'è.

La seconda volta, dunque, va meglio.

Ci sono soltanto note soavi che si levano nell'ambiente, fluide, che risultano una carezza per le orecchie – se ci fosse qualcun altro ad ascoltarle, quantomeno.

Non ci sono parole in quella melodia, sebbene a Manuel piaccia pure cantare ed è pure abbastanza intonato - così dicono.

Se ci fossero, però, reciterebbero:


Come stai?
E penso a te
Dove andiamo?
E penso a te
Le sorrido, abbasso gli occhi e penso a te.


Smette di suonare quando incespica in un passaggio poco prima del ritornello, il che lo porta a ritrarre le mani. Sbatte le palpebre e manco si accorge della singola lacrima solitaria che gli ha rigato una guancia.

Così come non si è reso conto della presenza di qualcuno alle proprie spalle. È la stessa persona che, con lentezza, si avvicina e prende posto al suo fianco.

«Te l'ho detto che eri bravo» sussurra Anita, con un sorriso stampato in faccia. «E lo sei ancora».

Manuel non le rivolge lo sguardo. Lo mantiene dritto di fronte a sé, sui pentagrammi disegnati e le note che li riempiono.

Non crede di essere bravo.

Nella musica o in qualsiasi altra cosa, al momento.

La madre resta in silenzio, scruta il suo profilo per un mezzo istante. «Com'è che faceva?» mormora. Le sue dita, poi, raggiungono i tasti, li premono con leggera incertezza a riprodurre gli stessi suoni di poco prima, solo leggermente più incerti e con meno fluidità.

Quel tentativo, strappa a Manuel una lieve risata che cozza con l'espressione spenta e assente che ha dipinta sul viso. «Te viene meglio co' la chitarra, ma'» biascica, rivolgendole un'occhiata fugace.

Anita scuote il capo, divertita. «Embè, me puoi insegnà allora».

Adesso ridono entrambi, producendo un nuovo suono, armonioso. È lo stesso che, però, pian piano si affievolisce.

La donna distende il sorriso che ha sulle labbra. Osserva il volto del figlio, la sua espressione addolorata e affranta. Allunga una mano nella sua direzione, a sfiorargli dapprima la guancia. In seguito, con due dita gli porta un riccio scomposto dietro ad un orecchio.

«Me vuoi dì che hai?». Il tono che usa risulta al pari di una supplica. «Sò - settimane che stai così e non capisco perché».

Manuel si affretta a scuotere la testa. Si stringe nelle spalle. Mantiene lo sguardo basso. «Non è niente».

«Eh, che non è niente è 'na cazzata» viene rimproverato, ma con voce bassa. Anita gli lascia un'ultima carezza sul viso. «Ce siamo promessi de parlà de tutto, te lo ricordi?» fa presente. «Però non me sembra che la stai a rispetta' 'sta promessa». Fa una breve pausa, esitando. «Non te devi tene' tutto dentro, come fai sempre. Lo so io, lo sai tu. Come sai che me puoi dì tutto».

Di norma, Manuel interromperebbe il discorso in quel preciso istante – perché è qualcosa che lo rende vulnerabile, la stessa cosa che gli fa paura. È ciò che ha fatto più di tutto in quegli ultimi giorni, con chiunque.

Eppure, adesso, non agisce in quel modo.

Non ha idea di cosa lo spinga a fare il contrario rispetto al solito.

Forse l'essere giunto al limite, essersi spezzato così tanto da non riuscire ad agire diversamente.

Forse a causa delle parole di Simone di soltanto qualche ora prima che ancora gli rimbombano in testa.

Forse una minuscola voce all'interno della sua testa che prova ad avere il sopravvento e inizia ad urlargli che non deve più scappare.

Che è diventato del tutto inutile fuggire.

Quindi rivolge gli occhi lucidi che ha alla madre. È arrendevole, debole.

«Ce sta una cosa...» gracchia e tira su col naso. «Ce sta una cosa che devo dirti».

Anita è sollevata solamente da una frase del genere e il suo sorriso torna ad illuminarsi. Annuisce e lo invita ad andare avanti, posando un palmo sulla spalla del ragazzo.

Manuel trema. Risulta ancora difficile parlare: la morsa che prima gli stringeva al cuore, ora si diverte ad impedirgli di respirare bene. Si tortura le dita, sfrega le nocche o conficca le unghie sul dorso.

«È che penso – io... Non – non lo penso solo, io credo che... Che ho capito che---». Deve respirare a fondo, incamerare quanta più aria possibile. Una seconda lacrima gli scivola su una guancia e sparisce sotto al mento. Ha lo sguardo puntato sulla madre, usa il suo volto come punto d'appiglio per non annegare.

«Mi piacciono i ragazzi» soffoca. «Anche – anche i ragazzi».

Non ha immaginato nemmeno per un secondo cosa potesse significare dirlo ad alta voce. Ha passato tutto il tempo a rimandare una simile confessione, ad evitare l'ostacolo per terrore di inciamparci sopra e farsi male.

Solo che si è fatto male lo stesso, alla fine.

Anita resta in silenzio, ma il sorriso le si allarga lo stesso sul volto. È sollevata, lieta. «Te faceva paura questo, Manuel?» esclama. «Dirmi che te piacciono i ragazzi?».

«Anche i ragazzi» specifica lui e si passa una mano sul viso. «Me piacciono ancora le ragazze, io – me possono piacere entrambe le cose, penso».

«E certo che te possono piacere tutte e due, certo» Anita afferma. «Com'è che se chiama? Uhm – bisessualità, no?».

«Seh, se - se chiama così».

«Eh, sò informata io, che te credi». Stringe la presa sulla sua spalla. In quel modo, cerca di fargli capire che gli è più vicino e di supporto di quanto lui pensi. «Manuel, tu – Dio, credevo te fossi messo de nuovo a fa' gli impicci strani, m'hai fatto prende dei colpi, non dormivo la notte» tenta di alleggerire lo stato d'animo del figlio.

Manuel abbozza una risata. Altre lacrime gli sono uscite dagli occhi, solo che non ha capito quale sia il vero motivo adesso: se è ancora per tristezza oppure per felicità, per gioia di essersi liberato di qualcosa che lo opprimeva.

Un po', comunque, si sente più leggero.

Ma è una sensazione che svanisce presto, quando un secondo pensiero gli affolla la mente. Si rabbuia di nuovo. «Mà?» sussurra, piano.

«Mh-m?».

«Ce sta pure un – ragazzo che me piace più degli altri».

«E chi è?».

Ecco.

Forse quella è la parte più complessa. Si morde il labbro inferiore, è teso. «Me prometti che non te arrabbi?».

«Perché dovrei ar---».

«Prometti».

Anita sbuffa. «Vabbè, lo prometto, che palle».

Manuel indugia per un attimo. È decisamente più difficile confessare quell'altra cosa. Però, ormai, lo ha detto, no?

Lo ha detto e può andare avanti.

Stringe forte i pugni, le unghie premono contro i palmi.

«Simone».

Pronunciare il suo nome risulta ancor più liberatorio.

Il cuore è più leggero, ogni parte del corpo inizia a formicolargli. Si aspetta di tutto, in realtà, che la madre si arrabbi, che inizi ad urlare, che gli dica che non doveva succedere, che Simone è il figlio del suo compagno, che doveva evitare, che chissà che può pensare la gente.

Tuttavia, Anita non compie nessun atto simile. Piuttosto, sorride ancora una volta – probabilmente non ha mai smesso di farlo da quando si è seduta su quello sgabello – e mormora: «Certo che è Simone».

«Come fai a...».

«È una storia lunga» taglia corto e arriccia il naso. Porta una mano tra i suoi capelli: sono umidi al tatto, sono stati lavati da poco e lasciati asciugare all'aria. «E lui lo sa?» domanda. «Glielo hai detto che te piace?».

Le labbra di Manuel si curvano in una piega amara. Fa cenno di no con la testa. «Non serve dirglielo, mà» sussurra. «Tanto a Simone l'ho già perso».

«Te l'ho detto una volta, mh?» tenta di rimediare la donna. «Simone non l'hai perso. Non lo puoi perdere».

«E invece sì».

«No, fidati di me» insiste. Accenna una risata, mentre giocherella con un riccio. «C'ho sempre ragione, io. Non l'hai perso».

Manuel prova a crederci alle sue parole. Vuole crederci, almeno un po'.

Permette alla madre di attirarlo un po' più a sé: si lascia stringere in un abbraccio privo di alcun permesso - è l'unica a cui lo concede. Anita gli permette di appoggiare la testa sulla propria spalla. Deposita un bacio fugace sulla sua tempia e lo culla docilmente.

E Manuel glielo concede.

Adesso che ha il cuore appena più leggero e che, forse, guardandosi allo specchio può di nuovo riconoscere i contorni del proprio viso.

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