Epilogo - Parte 1
Qualcuno una volta ha detto che le cose belle non finiscono mai per davvero, come se dentro le persone restasse qualcosa - d'una esperienza, di un amore - un piccolo pezzo di un evento più grande, in grado di continuare a vivere in modo perpetuo dentro ai cuori di ogni singolo individuo che ne ha preso parte.
Fino a due anni fa, Manuel non avrebbe considerato la fine del liceo come il capolinea di qualcosa di bello.
No, lui ha sempre pensato alla scuola come una prigione da cui scappare, un inferno di cristallo dove è stato costretto a rimanere, intrappolato.
Più di una volta ha desiderato mollare tutto, rinunciare al diploma, andare a lavorare per aiutare la madre in casa.
Invece, in due anni è cambiato tutto.
Ed è paradossale constatare che ha cominciato a pensare alla scuola come qualcosa di bello l'anno in cui è stato bocciato, in terza superiore.
Immagina fosse destino, che l'effetto farfalla gli abbia fatto l'occhiolino e gli abbia sussurrato da adesso cambia tutto.
Gli sembra di vivere quei due ultimi anni in una serie di immagini che gli passano davanti in tanti flash, mentre è seduto davanti ad un foglio protocollo che dovrebbe riempire dopo aver scelto la traccia dei temi che più lo aggrada - gli fanno schifo tutti, ma questi sono dettagli.
Lancia un'occhiata a due banchi davanti a sé: tra lui e Simone ci sono Matteo e Giulio, ma riesce comunque a scorgere la sua schiena ricurva e percepisce la sua estrema concentrazione in quel preciso momento.
Non fa nulla che abbia passato tutta la notte a rassicurarlo, a dirgli che sarebbe andato tutto bene e di non agitarsi troppo - sa che è un tentativo vano poiché Simone continuerà ad agitarsi per ogni cosa, incondizionatamente.
La sua ansia l'ha fatta anche un po' propria: le cose brutte pesano meno se portate sulle spalle in due.
Così, per un attimo, la mente di Manuel smette di concentrarsi sul tema da scrivere, piuttosto si focalizza su dei ricordi.
Primo giorno nella nuova 3^B.
In quella scuola che gli faceva schifo, dopo aver litigato furiosamente con la madre Anita perché non voleva presentarsi, voleva mollare e basta.
Non ne valeva la pena. Sarebbe stato meglio abbandonare gli studi e fare altro.
Non ne valeva la pena la situazione, non ne valeva la pena lui. Almeno se avesse guadagnato qualcosa, avrebbe avuto una certa utilità.
Invece quel giorno, la donna lo aveva addirittura accompagnato in classe, accertandosi di fargli varcare la soglia dell'aula.
Manuel odiava tutti: ogni nuovo viso pulito, ogni sguardo che persone che non conosceva gli rivolgevano, incuriosite da quella nuova presenza.
Con la vecchia classe non aveva mai avuto chissà che rapporto, tanto da non sentire nessuno durante l'estate - forse una sola persona si era preoccupata di scrivergli che gli dispiaceva per la bocciatura e nulla di più - però un po' li sopportava.
Questi nuovi gli sembravano un ammasso di perfettoni con la loro stretta cerchia e nessuna possibilità di entrarci, come una cazzo di élite dove i nuovi venivano messi al bando o comunque dovevano guadagnarsi l'ingresso.
E Manuel non ci teneva proprio ad entrare in un gruppo di stronzi.
Si sedette all'ultimo banco, scrutando tutti con estremo astio, già annoiato e stufo di quella situazione.
«Tu sei quello nuovo?».
Una voce sopraggiunse alle sue orecchie e fu facile capire da dove provenisse. Gli bastò sollevare lo sguardo per notare, un banco avanti, un ragazzo dai folti ricci scuri, un maglione bordeaux con il colletto della camicia che spuntava dal bordo superiore, che lo fissava ancora seduto al suo posto e col busto girato nella propria direzione.
Il suo primo pensiero fu ma chi cazzo porta la camicia sotto i maglioni? E poi è settembre, ma non ha caldo?
Ovviamente non esplicò nessuno di questi commenti, si limitò ad annuire e borbottare un «Seh, só io».
«Simone, piacere».
Quella era un'altra parte che Manuel odiava: presentarsi, parlare del più o del meno - in classe si doveva fare così, per forza. Borbottò il proprio nome in maniera poco comprensibile.
Il ragazzo, tuttavia, gli sorrise comunque gentilmente. «Spero ti troverai bene qui con noi» disse. «È difficile entrare a far parte di un gruppo se è già consolidato, però t'assicuro che non sono tutti degli stronzi qui. Cioè, più o meno».
Manuel aggrottò le sopracciglia. «Ma parli sempre così tanto, ao. M'hai stordito».
Il sorriso di Simone svanì in maniera graduale, quasi avesse detto qualcosa di negativo e allora «Scusa» sussurrò.
Un briciolo, Manuel si sentì persino in colpa: del resto, quello sconosciuto, quel Simone stava solo cercando d'essere cordiale. Quindi rimedió con «Vabbè, grazie» e tagliò il discorso.
Da quel giorno, tuttavia, non si parlarono poi molto per mesi tanto che a lui sfuggì addirittura il suo nome - lo riconosceva per il cognome e soltanto perché richiamato durante le interrogazioni.
Un giorno ricevette persino una sua telefonata, da un numero che non aveva memorizzato e, a sentire l'altro, gli uscì fuori un «Simone chi?». Si ritenne un briciolo stupido.
Simone chi, prima.
Simone che è tutto, adesso.
La traccia che Manuel ha scelto è una su un'opera di Pascoli, La Felicità.
Con le parole è piuttosto bravo - perlomeno se deve scrivere - nonostante utilizzi un lessico semplice e non faccia uso di frasi contorte per esprimere un concetto.
Tanto nemmeno le capirebbe lui, figurarsi farle capire a qualcun altro.
Ha buttato giù già due pagine e mezza e gli fa male la mano. Si sbilancia un po' verso sinistra per poter scrutare di nuovo la figura di Simone.
In tale istante, lo vede già voltato nella sua direzione.
Dura poco, un battito di ciglia, durante il quale si sorridono. A loro basta quello, seppur distanti.
È un silenzioso guarda dove siamo arrivati.
Guarda da dove siamo partiti.
Manuel manco voleva accadesse. Non avrebbe dovuto accadere. Ed era pure la seconda volta.
Con la prima aveva già fatto un casino - aveva rimediato biascicando un con te è diverso privo di senso, ma in quel momento che scusa poteva avere?
Conosceva Simone e sapeva bene che l'altro ragazzo voleva parlare, sempre, di qualsiasi cosa.
Sebbene gli avesse detto esplicitamente che poi non ne avrebbero parlato.
E non poteva manco aspettarsi qualcosa di diverso: avevano fatto sesso nel piccolo capanno in ristrutturazione accanto alla piscina di Villa Balestra e qualche spiegazione gliela doveva.
Fece su e giù nella propria stanza talmente tante volte da rischiare di consumare il pavimento. Il respiro quasi gli si smorzò in gola quando Simone varcò la soglia della camera.
Manuel strinse i pugni lungo i fianchi. Vide l'altro avanzare nella propria direzione, fermarsi a un metro di distanza, poi schiudere le labbra per poter cominciare a parlare. Fu a quel punto che lo bloccò: protese una mano in avanti e «Ascolta, non— Quello che è successo...».
«Se mi dici di nuovo che è stato divertente, ti tiro un pugno in faccia, Manuel» la frase di Simone fu glaciale.
Manuel manco se lo aspettava. Barcollò sui propri piedi, si sentì del tutto debole. «Beh, lo è stato» sussurrò.
Simone serrò la mandibola, ancora «Manuel...» sibilò.
«Oh, è stata 'na scopata—».
«Due».
«Eh, due. Non dobbiamo farne n'affare de stato, possiamo...».
«Possiamo che?».
Manuel si passò una mano sul volto. «Possiamo tene' 'sta cosa pe' noi?». Fu consapevole di cosa stava richiedendo. Di ogni cosa. «Mica ce sta bisogno de mette i manifesti, no? Poi stai pure nella camera a fianco alla mia».
Simone si limitò ad annuire. Diede un tacito consenso a quella richiesta di segretezza alla quale lui non aveva mai ambito. Ma era un compromesso. Per essere un po' loro.
Per essere un po' suo.
Finché quelle volte non diventarono tre, poi quattro.
Poi entrambi smisero di contare, un'ultima volta dietro l'altra.
Manuel è uno dei primi a consegnare il compito e abbandonare l'edificio scolastico. Si apposta seduto sul muretto davanti all'ingresso per l'ora e mezza successiva. Viene raggiunto poco dopo da Chicca e Matteo e altri compagni - della classe e non - che si sparpagliano in quella stradina, facendo elevare un rumoroso chiacchiericcio.
L'ultimo ad uscire - manco a dirlo - è Simone. Manuel gli rivolge un mesto sorriso mentre l'altro avanza nella propria direzione. «Come è andata?» gli chiede, con calma.
Simone si sistema lo zaino che mantiene su una spalla, scuote il capo e si morde nervoso il labbro inferiore. «Secondo me 'no schifo» borbotta. Chicca, in piedi accanto a lui, gli tira un leggero colpo con il gomito. «Stai a dì fregnacce, Simó» commenta e ridacchia. «Tanto peggio de Matteo non puoi ave' fatto».
Il ragazzo menzionato schiocca la lingua sul palato. «Converrete che 'n tema scritto in romanaccio avrebbe avuto molto più impatto».
«Pe' farte boccia' fisso, Mattè!» esterna Manuel. Ride pure lui; la risata scema subito in un lieve sorriso mentre il suo sguardo torna fisso su Simone.
Gli fa solo un cenno per invitarlo ad avvicinarsi di più - che viene compreso e accolto: difatti, a Simone sono sufficienti tre passi, frattanto che Matteo ancora blatera qualcosa riguardo al suo tema impeccabile; sale sul muretto, al suo fianco. Le loro spalle si sfiorano, le loro dita si intrecciano.
«Sei tranquillo?» soffia Manuel, depositandogli un lieve bacio sulla tempia.
Simone annuisce e arriccia il naso. In quel momento, nonostante l'angoscia scaturita dall'esame, quella che è ancora perenne per le prove successive, lui è davvero tranquillo.
Sta cercando di mettere da parte ogni tentativo di auto-sabotaggio, ogni paura per il futuro sempre più prossimo.
Perché se lo sono detti che per agitarsi per ciò che accadrà c'è tempo.
Che poi alcune cose non si possono prevedere per cui non ha senso farsi divorare da sensazioni opprimenti a prescindere.
«Allora? Com'è andata?» una voce estremamente familiare sopraggiunge alle loro spalle.
A Manuel è sufficiente voltare di qualche centimetro il capo per scorgere la figura di Martina, con un sorriso stampato in faccia e quella contentezza che la contraddistingue.
Delle volte stenta a credere che l'abbia conosciuta in determinate circostanze.
Tipo...
L'idea di scaricarsi un'applicazione s'incontri non sapeva da dove l'avesse presa: aveva sentito Matteo parlarne con Giulio, quindi aveva deciso di scaricarla.
Già solo il fatto di dover scegliere tra delle ragazze soltanto da qualche foto e da qualche riga per descriversi, gli pareva una idiozia - cioe, mica era come le figurine, era una cosa crudele, insensibile e superficiale e basta.
Però, alla fine, si era arreso e aveva deciso di scaricare Tinder sul proprio cellulare.
Quel primo appuntamento era con una ragazza - ovviamente: le sue impostazioni prevedevano solo ragazze.
Okay, andava a letto con Simone da un po' di tempo, ma questo mica voleva dire che gli piacevano i ragazzi.
No, Simone era l'eccezione.
Con lui era diverso.
Gli altri non li guardava, non aveva mai provato attrazione verso qualche altro individuo di sesso maschile - nessuno, a parte Simone.
Quindi, era etero. L'attrazione verso le donne - pressoché qualunque donna - non s'era mai placata.
Forse stava solo prendendo un abbaglio e quella poteva essere la persona giusta per riportarlo in carreggiata.
L'aspettava in un pub in zona Trastevere. Non aveva perso tempo a sistemarsi granché bene, ma aveva evitato una di quelle canotte da basket che di solito portava sopra i jeans, optando per una maglietta nera a maniche lunghe, con sopra il suo fedele bomber verde militare.
La ragazza che aspettava si chiamava Martina Bucci: era bella, con occhi scuri e sottili che marcava sempre con una linea di eyeliner perfettamente dritta che sembrava non andarsene mai e lunghi capelli - quelli parevano neri.
Manuel aveva analizzato nei minimi dettagli dapprima il suo profilo Tinder, poi quello Instagram - non l'aveva ancora seguita, però.
Martina arrivò puntuale al loro appuntamento, forse persino qualche minuto in anticipo, il che giocava già molto in suo favore.
Come s'aspettava Manuel dalle loro conversazioni via internet, il suo carattere era molto estroverso, solare, con la battuta sempre pronta - alcune le capiva soltanto lei, ma tant'era.
Poi era bella, bella sul serio.
Quindi, dopo due birre e due gin tonic, si ritrovarono a chiacchierare seduti su una panchina con la vista su Roma illuminata.
E nonostante la buona compagnia, i discorsi strampalati sulle avventure della ragazza a svariati concerti a cui aveva partecipato, finendo pure per rompersi una costola per via di una transenna...
Nonostante quello, prorompente e incontrollabile, nella testa di Manuel balenava sempre il pensiero di Simone.
Non lo voleva quel pensiero, quell'immagine dei suoi occhi sgranati che lo fissavano, dei suoi ricci scompigliati dopo aver fatto sesso, delle sue mani addosso che lo toccavano, che—
Non doveva avere in mente il ritratto di un ragazzo in compagnia di una bella ragazza.
In quel momento, Martina sembrò una perfetta scappatoia.
Così, mentre lei ancora blaterava qualcosa riguardo ad alcune amiche conosciute per via di una band che seguivano insieme, lui si sporse in avanti e si avventò sulle sue labbra, alla ricerca di un bacio che serviva per cercare sicurezza.
Ma quel gesto risultò avventato, strano, confuso - troppo meccanico, con troppa lingua inserita troppo presto - il che portò Martina a ridere con ancora la sua bocca sulla propria.
La ragazza poggiò un palmo sul suo petto, lo invitò a scansarsi. Rise ancora.
In un primo attimo, Manuel si sentì persino offeso per quella reazione - cioè, era così malvagio? Aveva dimenticato come si baciano le ragazze? Perché Simone non rideva in quel modo dopo averlo baciato, mai. Sorrideva, ma per altro.
«Che te ridi?» disse, aggrottando la fronte.
Martina si portò una mano davanti al viso, cercò di camuffare il suo divertimento che poteva apparire fuori luogo. «Scusa, scusa, io—» faceva fatica a parlare e restare seria. Dovette fingere un colpo di tosse per riprendersi e «Scusa, è che è stato strano» commentò. «Cioè, mi— Mi è sembrato di baciare mio fratello».
A tale confessione, Manuel non seppe esattamente come reagire. «Tu' fratello, addirittura?».
«Eh. C'hai presente la chimica tra due persone, no? Ecco, me sa che... Non è che ce n'avemo tanta, io e te».
«Sì che ce l'avemo» insistette Manuel. Non era vero. Quel bacio manco a lui era piaciuto, era stato strano a dir poco, risata a parte.
Martina si morse piano il labbro inferiore. Scosse il capo, poi prese tra le mani il suo viso. Si avvicinò una seconda volta, a tentare un secondo bacio, quella volta più lieve e delicato. Dettò lei i movimenti - con poca lingua. Si staccò, sbatté le palpebre. «Sentito niente?» sussurrò, ancora tenendo la punta delle dita sulle sue guance.
No, Manuel non aveva sentito niente. Fece cenno di no con la testa e, a quel punto, venne da ridere pure a lui. Non seppe se in maniera isterica o per puro divertimento.
Di certo non poteva dire che mentre la baciava, in testa aveva un'altra persona. Magari la cosa era reciproca, magari no.
Martina ampliò il sorriso. Si distaccò, striscia di pochi centimetri sulla panchina. «È un peccato, però» esclamò. «Sei caruccio. Avremmo fatto scintille come coppia».
«Eh, se non te sembrava de bacià tu' fratello».
«Vuoi riprovarci? Magari la terza è la volta buona».
«No, pe' carità, m'è bastato» a Manuel sfuggì un'altra risata, appena più genuina.
Non provarono più a baciarsi - sarebbe stato strano, però non smisero di sentirsi. Mai, per oltre un anno.
Fino a quando non diventarono davvero come fratello e sorella.
**
Manuel schiaccia alla rinfusa i tasti del pianoforte. È un po' che non suona.
Di solito, lo fa per sfogarsi e, nell'ultimo periodo, ne ha poca di rabbia da sbollire.
Pensa che la musica venga meglio con sentimenti cupi, è una convinzione che non lo ha mai abbandonato quella. Eppure un po' suonare gli manca.
È pomeriggio, gli esami sono finiti.
Lui non ha nemmeno tirato le somme di ciò che ha fatto, con quale voto verrà promosso - se verrà promosso.
Ma non vuole pensarci troppo a quello. Per qualche giorno, almeno.
Preme ancora una volta quei tasti bianchi e neri, riproduce un brano che tante volte ha suonato da solo. In alcuni momenti ha pure cantato. Gli viene bene anche quella parte.
In tale istante, però, d'improvviso non è più da solo mentre quelle note lievi vibrano nell'aria.
Simone prende posto al suo fianco, su quel lungo sgabello. Non dice nulla: si limita a guardarlo e ad esercitare pressione con le dita su quegli stessi tasti. Un briciolo ha imparato con le poche lezioni che l'altro gli ha fatto.
Il brano stona suonato in due perché Simone sbaglia gli accordi, ma Manuel non lo rimprovera. Piuttosto cerca di star dietro alla melodia, mentre gentilmente sussurra: «Ma c'è qualcosa di— Grande tra di noi, che non puoi cambiare mai-ai, nemmeno se lo vuoi».
Simone allarga il sorriso sulle labbra. Manuel sta ancora cantando quando lui si sporge nella sua direzione e fa collidere le loro bocche.
Si baciano che le loro dita scorrono sulla tastiera del bianco, note che un po' si rompono e si infrangono.
Ma le note rotte sono anche le più belle, del resto.
«Ti viene meglio adesso» mormora Simone, distaccandosi di qualche centimetro. Soltanto ora il brano cessa, lentamente.
«Cosa?».
«Questa canzone. Nel video della chiavetta mica tanto».
Come pronta reazione, Manuel gli tira un leggero colpo con il gomito. «Anvedi che stronzo» commenta.
«Posso riaverla?» Simone pigola e i suoi occhi paiono decisamente più grandi in quel momento. Ricorda di avergliela restituita dopo Capodanno: lo ha fatto come meccanismo di difesa, per avere con sé il meno possibile di lui.
Che poi è sempre stato un controsenso perché come ti liberi di qualcuno che ti entrato dentro, fino alle ossa?
In ogni fibra dei muscoli, in ogni vena e arteria, ovunque.
Non puoi.
Manuel schiocca la lingua sul palato. «Non lo so» esclama. «Te che me dai in cambio?».
«Quel che vuoi».
«Te prendo alla lettera così». Si sbilancia di qualche centimetro per depositare un placido bacio sulla sua tempia. «Ho solo una richiesta» dice. «Per adesso, per i prossimi mesi, anni magari, o per il resto della vita».
«Quale?».
«Che evitiamo l'effetto domino» spiega. «Che— Non lasciamo che una cosa brutta che succede ne faccia verificare un'altra ancor peggio e via discorrendo. Che delle volte quei tasselli se possono ferma', se vuoi».
«Non lo avevamo già deciso questo?».
«No, avevamo solo rimandato le preoccupazioni, ma se— Se controlliamo questo, andrà tutto bene. Se sistemiamo bene i tasselli, non crolla niente».
«Come i castelli fatti con le carte?».
«Eh, una cosa del genere».
Simone annuisce. I castelli di carta, di solito, sono fatti per durare poco, effimere costruzioni che cadono con un soffio. Ma nessuno mai ipotizza quanto possono essere forti e stabili se costruiti con delle solide fondamenta.
«Suonamene un'altra» propone, in seguito. «Ce n'era un'altra nella chiavetta che t'era uscita bene». Con un dito, preme uno dei tasti - di sicuro quello sbagliato. «Io lavoro— E penso a te» intona e stona, decisamente il canto non gli appartiene.
Ciò porta Manuel a ridacchiare e prendere il controllo della situazione, a tornare a far scorrere le mani sulla tastiera. «Non me prende 'n giro, però».
«Mai».
E allora: «Scusa, è tardi e penso a te, ti accompagno e penso a te, non son stato divertente e penso a te».
Simone chiude gli occhi: perché si ricorda di quando ha lasciato scorrere le immagini di quel video dove Manuel suonava e cantava, sebbene non si facesse vedere in faccia o c'era il buio a celare la sua espressione.
A lui, ad ogni modo, pareva di avercela davanti lo stesso - durante quelle note semplici e poi complesse, alla sua voce ferma che si spezzava in alcuni punti. Ed è diverso da adesso che quel brano gli entra soave nelle orecchie, lo accarezza e lo culla.
Capisce che poi anche attraverso la musica e le parole degli altri si può comunicare, perché essa esprime gli stati d'animo meglio di quel che può fare un singolo individuo.
Ed è assurdo pensare come sia nato tutto con una canzone e con una canzone tutto pare lieto finire.
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