Chi è Martina?
[TW: uso di slur, fword]
Simone fissa il fumo che esce dalla tazzina di ceramica bianca col bordo dorato. C'è dentro del caffè bollente e preferisce nettamente focalizzarsi di quello che sul resto.
È seduto al tavolo della sala da pranzo, con la luce di un sole tiepido che proviene dall'esterno in quella mattina d'autunno, colorando ogni cosa di un tenue arancione.
Tiene entrambi i pugni chiusi sulla superficie piana e serra la mandibola così forte da farsi male. Manuel gli è accanto, con in mano una brioche confezionata che ha appena aperto e a cui ha dato un solo morso; di tanto in tanto, gli rivolge un'occhiata distratta e sospira.
Vorrebbe pure dirgli qualcosa, ma sono due giorni che l'altro non gli parla e soltanto la sera prima gli ha sbattuto la porta in faccia quando vi si è presentato sulla soglia.
Quindi, in pratica, sono entrambi incazzati per qualche motivo.
«Simone, ma tutto bene?». Anita è seduta davanti al ragazzo a cui si sta rivolgendo. Tiene tra le dita una tazza più grande color carta da zucchero, contenente del tè caldo al mirtillo – l'odore è forte e si sente in tutta la stanza. Ne beve un sorso, distratta, nel momento in cui Simone solleva il capo: ha le sopracciglia aggrottate, lo sguardo cupo, che è lo stesso che rivolge in maniera fugace a Manuel, per poi affermare «Seh, tutto bene».
Anita non è affatto convinta. «Sicuro?» insiste «Hai una faccia». Non ottiene una nuova risposta, piuttosto è lei stessa a notare come i due ragazzi si scambino ulteriori occhiate, sempre quando uno di loro non può vedere l'altro.
Sbuffa, esasperata. «Manuel, che gli hai fatto?» esclama e posa la tazza sul tavolo, incrociando le braccia sullo stesso.
Manuel strabuzza gli occhi. «Ma che c'entro io?» sbotta, con la bocca mezza piena.
«C'entri sempre» fa notare la donna «E poi sò du' giorni che non ve parlate. Che ve pensate, che non le noto le cose, io?».
Simone si sforza per mantenere lo sguardo sulla tazzina di caffè, sul fumo che è diminuito – così da non voltarsi verso Manuel, dal momento che esploderebbe per quanto è arrabbiato.
«Allora?» Anita rimarca «Che je hai fatto?».
«Ma perché deve esse colpa mia, scusa?» è la replica del figlio.
«Intuito».
Un briciolo è persino divertente vederli battibeccare. Simone lo pensa sul serio – almeno da qualcuno i rimproveri se li becca.
Tuttavia, poco dopo si convince ad intervenire e «Non è successo niente» esclama «Manuel non ha fatto niente». Si alza in piedi, facendo strisciare la sedia sul pavimento e producendo un rumore sordo. «Vado prima a scuola, devo fare una cosa». Si congeda in tal modo, non consumando, alla fine, neppure la colazione e abbandonando la sala da pranzo con le spalle ricurve.
Manuel rimane seduto al tavolo con mezza Nastrina in mano, la tazzina del caffè vuota e gli occhi di Anita puntati addosso. «Niente, niente gli hai fatto, eh» lo rimbecca quest'ultima.
Il ragazzo è ancora impegnato a seguire la figura di Simone – sente la porta d'ingresso chiudersi con un tonfo, per cui immagina sia addirittura già uscito di casa. Torna a porre l'attenzione alla madre soltanto in seguito. «A' mà, che te devo dì?» esclama, frattanto che si sta rimettendo in piedi. Molla la brioche sulla tovaglia e si passa una mano sulla bocca. «Vado pure io» annuncia.
«Manuel...».
«Oh, lui le può avé le cose da fa' prima de scola e io no? Eh, su» taglia corto - perché la predica pure dalla madre non può sopportarla, adesso. Da quella stanza, esce con passo svelto, ignorando un rinnovato «Poi ne riparliamo» che Anita gli urla dietro.
Manuel raccatta il proprio zaino che, in precedenza, ha abbandonato sui cuscini del divano, se lo mette in spalla, e esce dalla villetta Balestra.
Una volta fuori, nel giardino davanti all'edificio, nota che Simone è ancora lì, in sella alla moto dalla carrozzeria bianca che, solitamente, utilizzano insieme, il casco in testa e il motore ancora spento.
Scuote il capo e accenna una corsa per poterlo raggiungere. Si ferma soltanto quando gli è a meno di un metro di distanza, gli poggia una mano sulla spalla, ma l'altro lo scansa in malo modo.
«Ma me spieghi che c'hai?» domanda e tenta di mantenere un tono di voce basso. Non ottiene alcuna risposta, anzi, non è in grado neppure di incrociare i suoi occhi. Appoggia entrambe le mani sui fianchi e «Oh, sò du' giorni che non me parli, manco m'hai risposto ai messaggi» tenta di nuovo «Che c'hai?».
Simone ci sta provando ad ignorarlo. Di solito, non è così: lui è quello che le situazioni le affronta – magari non sempre nel modo giusto, però, se si tratta di parlare e discutere qualcosa, lo fa. Non ha ancora ben capito il motivo per cui ora sta, semplicemente, andando in tilt e ha terrore di come potrebbe affrontare quella, di situazione.
In tilt, comunque, ci è andato nell'esatto momento in cui, due sere prima, ha visualizzato la storia Instagram di Manuel, in compagnia di una ragazza di nome Martina e allora...
Beh, ha perso il senno.
Presuppone si tratti di gelosia e – che stupido, è di sicuro gelosia e che stupido, che cosa si aspettava? Non sa neppure se può esserlo, geloso, se quel che hanno gli dà qualche diritto a provare determinate cose. Tecnicamente non stanno insieme, no?
O pensa che, forse, geloso di Manuel lo è stato da prima che per lui esistesse.
Simone tiene lo sguardo basso per tutto il tempo; lo solleva poco dopo e si sente davvero così piccolo di fronte all'altro che lo sta scrutando e che pretende una spiegazione.
«Chi è Martina?» chiede e cerca di mantenere la voce ferma – perché col cazzo che gli fa vedere che crolla.
In un primo momento, Manuel neppure realizza il tipo di quesito che gli viene posto: ci arriva dopo, spalancando gli occhi con stupore. Si passa una mano sul volto, incredulo e «Cioè, tu – stai a fà così pe' la storia co' Martina?» dice.
Okay, Simone pensa che se si è trattenuto dal prenderlo a pugni fino a quel momento, è stato per qualche miracolo e grande forza di autocontrollo – sì, ogni tanto gli capita di averlo, l'autocontrollo.
Serra le labbra, nervoso. Sta per dire qualcosa, ma viene preceduto da «Madò, Simò, è n'amica! C'hai presente?». Fa una breve pausa. «Tu pure stavi co' quell'altro, no?» rimbecca.
«Co' Andrea?».
«Eh, co' quello».
«A studiare, Manuel. Non a scopare». Simone lo dice tra i denti, un po' perché teme di esagerare, un po' perché manco ne è sicuro e adesso si sente persino idiota ad avere un comportamento del genere per così poco. Ma, del resto, è risaputo che basta poco per farlo scattare.
«Perché tu a questo sei arrivato da 'na storia?» Manuel rimbecca e allarga le braccia, esasperato. «Che stavamo a scopà? Madonna, forse era meglio quando non ce l'avevi Instagram, guarda».
«Certo, così chissà quante altre storie interessanti non ho visto».
«Aridaje! Te lo devo ripete n'altra volta che n'amica?» quasi urla «Amica, Simò! La gente normale ha degli amici».
Un briciolo, Simone si sente ferito da quelle parole - perché l'altro ragazzo lo sa benissimo che è una sua debolezza, che lui ha pochi e rari amici, forse nessuno, una volta glielo ha confessato, quindi tale frase è esternata soltanto per ferirlo, ne è consapevole. «Vaffanculo, Manuel» gli dice, secco, mentre gira la chiave e accende il motorino.
In risposta, Manuel nemmeno dice niente - si è reso conto di aver esagerato, di nuovo; lo realizza spesso, purtroppo.
Simone si sistema meglio in sella, si aiuta con i piedi per avanzare di qualche centimetro sul veicolo a due ruote; è pronto per avviarsi e questo Manuel lo sa. Difatti «Mò 'ndo vai? Ce sta scola» dice, con tono fiacco. In replica, ottiene un'occhiata tagliente e capisce che l'altro ragazzo non ha alcuna intenzione di attendere e farlo salire. Lo comprende benissimo quando gira la manopola dell'acceleratore e fa rombare il motore.
«E io come vado?» biascica.
«Te fai accompagnare dall'amica tua, no?» Simone taglia corto. Serra la mandibola, gli rivolge l'ennesimo sguardo di rimprovero, prima di sollevare i piedi da terra e partire, sgommando, mentre Manuel lo osserva andar via, rimanendo senza un passaggio per quella mattina.
**
Arrivare a scuola da solo, a Simone sembra strano perché nell'ultimo anno si è abituato a Manuel che guida il motorino e lui che gli è seduto dietro - il che gli ha sempre dato un senso profondo di sicurezza, forse in maniera irrazionale.
Quindi sì, giungere davanti a quell'edificio, lasciare il veicolo al solito parcheggio ed essere solo, è strano. Ma cerca di non pensarci troppo poiché, in fondo, con Manuel è arrabbiato per cui non gliene frega niente.
Ecco, magari se se lo ripete in testa un centinaio di volte, se ne convince pure.
È ancora presto per il suono della campanella della prima ora - mancano una decina di minuti - ma Simone scorge alcuni dei compagni di classe di fronte al portone d'ingresso e quasi tira un sospiro di sollievo: perlomeno può unirsi a loro, alle chiacchiere frivole e smettere di pensare ad altro.
Sì, vabbè, a Manuel, s'è capito.
Si avvicina al gruppo di ragazzi a passo lento: sono presenti, disposti a cerchio, Chicca, che quel giorno ha la frangia colorata di un rosso fuoco e delle ciocche appena mosse, Giulio, Monica, Andrea e Matteo - è quest'ultimo che sta parlando, intrattenendo gli altri, e infatti esordisce «Ma nun potete proprio capì, regà!».
Simone è silenzioso quando si appropinqua loro e li saluta con un cenno del capo e mezzo sorriso, mantenendo lo zaino grigio su una spalla sola.
«Ce stava a provà, ve o' giuro» racconta ancora Matteo «Mo je devo chiede de uscì pe' forza».
«Sempre che te dice sì, Mattè» lo schernisce Giulio.
«Certo che me dice sì».
«Di che parlate?» Simone prova ad intromettersi nel dialogo. Non che gli interessi per davvero, è pressoché sicuro stia parlando di qualche pischella conosciuta in giro, quindi il resoconto non è che lo faccia impazzire, ma, come annunciato, ha bisogno di distrazioni.
«Di quella fregna de' la barista!» replica Matteo «Ieri sera l'ho beccata in un localetto del centro, me stava a magnà co' li occhi. Ce devo provà».
«Ma tu pensi sempre che te stanno a magnà co' li occhi» appunta Monica, ridendo. Si trova accanto al ragazzo e gli tira un colpo leggero col gomito. Poi lo sguardo lo rivolge ad Andrea, che le è di fronte a meno di un metro di distanza; quest'ultimo non mantiene il contatto visivo con lei per neppure mezzo secondo, dal momento che gli occhi li ha già puntati su qualcun altro - colui che si è appena unito a loro, per esempio.
Nel frattempo, Simone cerca di capire a chi possa mai riferirsi l'amico. Rivolge per un attimo l'attenzione al chiosco alle proprie spalle: di solito, è sempre presente una ragazza dai capelli corvini, gli pare si chiami...
«Ma Ludovica?» domanda - ecco, lei che quella mattina non è presente, al suo posto c'è un uomo con i capelli brizzolati e il pizzetto; ricorda il suo nome perché glielo ha letto sulla targhetta che porta sulla divisa.
«Lei!» afferma Matteo «Non è una gran fregna?».
Simone scrolla le spalle e «Sì, boh, è carina» dice - ed effettivamente è vero, la trova una bella ragazza, nulla da aggiungere. E il discorso si potrebbe pure chiudere lì, se non fosse che Matteo si lascia sfuggire una risata «Carina?» cantilena e scuote il capo. «Vabbè, inutile chiedertelo a te che sei frocio, Simó» attesta.
Da quando Simone ha ammesso di essere gay pubblicamente - un po' è stato costretto,, dato che Laura, con la quale si è confidato, non ha tenuto la bocca chiusa e nel giro di poco ne sono venuti a conoscenza tutti - si è sentito appellare in tal modo in più d'una occasione. Finge sempre che quella parola non lo ferisca, che non lo offenda - perché sì, è una brutta parola, offensiva, che dovrebbe essere bandita e gli ricorda persino quelle volte in cui è stato Manuel ad urlargliela addosso.
Ecco, è come rivivere quei momenti ogni volta che gli capita.
Eppure non sa mai in che modo reagire. Si ritrova sempre ad abbassare lo sguardo, incassare e stare zitto, per quanto lo trovi ingiusto.
Succede così anche in tal occasione: ammutolisce, con un sorriso sforzato sulle labbra, si chiude nelle spalle e lascia andare un sospiro sommesso, ignorando la risata dell'altro ragazzo, accompagnato da quella di chi gli sta intorno.
Ma non ridono tutti.
Andrea, ad esempio, è in silenzio, con le mani nelle tasche anteriori dei jeans neri e stretti che indossa. Fissa Matteo con espressione estremamente seria e gli occhi ridotti ad una fessura. «Com'è che lo hai chiamato?» esclama, ad un tratto.
Matteo non comprende subito il quesito, tanto che ci impiega un po' a far affievolire la propria risata e «Che?» borbottare - e quindi pure le risate attorno si quietano, di riflesso.
Andrea piega la testa su di un lato. «Ho chiesto come lo hai chiamato» ribadisce. Il suo tono è fermo, sicuro – quasi tagliente.
Simone gli rivolge l'attenzione per un attimo, confuso - non comprende; osserva poi anche Matteo, lo vede in difficoltà mentre si passa una mano tra i capelli biondi e li scompiglia un briciolo.
Una risposta non sopraggiunge, non subito.
È Chicca ad intervenire con «Vabbè, Andre, lascia perde, stava a scherzà».
Purtroppo, però, ad Andrea non va di lasciare perdere.
«Sai che è una parola offensiva quella che hai usato, vero?» insiste.
Matteo corruccia le labbra in una smorfia. Si guarda attorno, cerca gli occhi degli altri compagni come se potessero aiutarlo. «Ma era per dire, eh» borbotta «Poi Simone lo è, mica s'è offeso. Vero, Simó?».
Simone non sa davvero cosa rispondere; che sì, in realtà si è offeso - pure parecchio - ma tentenna, dalla bocca gli escono parole prive di senso logico e a stento comprensibili, un borbottio scomposto, mentre mantiene ancora gli occhi fissi a terra, sulle proprie scarpe.
Andrea è ancora focalizzato su Matteo, quando lo rimbecca ancora: «Simone si è offeso, ma forse è troppo gentile ed educato per fartelo notare».
«Vabbè, Andrè, ma mó me devi fà la predica pe' questo?» l'altro ribatte e ancora tenta di trovare supporto dai compagni attorno, solo che nessuno di loro reagisce o fa qualcosa, perché quella situazione è spinosa e manco la sanno gestire; forse perché l'uso di una simile parola è spaventosamente quotidiano da averci fatto l'abitudine e nessuno si è mai soffermato su quanto possa essere dannoso.
Andrea curva le labbra in un sorriso velato e gelido. «Non ti sto mica facendo la predica» afferma «Ti sto spiegando le cose. Simone non ti ha detto che si è offeso, ma, vedi, se un giorno dovessi chiamare me così, te lo direi, che è offensivo e mi arrabbierei un bel po'. A quel punto, io non sarei più tanto gentile».
Matteo non recepisce bene quel discorso - probabilmente troppo ottuso per farlo - per cui l'unica reazione consona che trova è «Ma perché, sei gay pure tu?».
Andrea si lascia scappare una risata priva d'entusiasmo. «Sono pansessuale» dice «Ma non sto qui a spiegarti cosa vuol dire, forse sarebbe troppo per un cervello così piccolo».
Simone resta immobile, stringe i pugni lungo i fianchi quando osserva il profilo di Andrea, impassibile, con ancora mezzo sorriso beffardo stampato sulle labbra.
L'espressione di Matteo, invece, è confusa, inizialmente. No, non ha proprio recepito nulla da quella conversazione, non c'ha manco dato peso e immagina che per i compagni attorno sia pressoché lo stesso.
È in tal momento che, tuttavia, riesce a decifrare ciò che gli è entrato nelle orecchie – probabile soltanto l'ultima parte della frase - e allora «Scusa, che hai detto?» borbotta e fa mezzo passo in direzione del ragazzo bresciano.
Andrea non si muove, è del tutto impassibile. «Oh, ti sei offeso?» lo sbeffeggia «Mi spiace».
A quelle ultime parole, Matteo cerca di scagliarsi contro di lui, emettendo un grugnito iracondo. Tuttavia, viene trattenuto da Giulio e Chicca, che lo frenano tenendolo - il primo con una mano sul petto, la seconda afferrandolo per un braccio.
Andrea manco ha l'intenzione di reagire in qualche modo, resta assolutamente impassibile ed estremamente tranquillo. Attende che Matteo si calmi - o meglio, che venga calmato - e in seguito osserva il modo in cui viene letteralmente trascinato via dagli altri compagni di classe, dentro alla scuola, per evitare una eventuale rissa che, di sicuro, sarebbe scoppiata. Ignora un «Ma manco a fà così» che quasi gli urla Chicca.
Alla fine, fuori ci rimane soltanto con Simone. Quest'ultimo lo guarda per un attimo. Osserva il suo profilo e il modo in cui un singolo riccio di capelli scuri che gli ricade in mezzo alla fronte.
Che poi Andrea è pure carino, pensa, in maniera un po' inconscia.
«Non - non dovevi» balbetta, stringendosi nelle spalle.
Andrea si volta nella sua direzione soltanto in quell'istante e «Cosa?» replica.
«Difendermi con - cioè... Matteo è un coglione».
«E nessuno ha mai pensato di farglielo notare?».
No, effettivamente nessuno lo ha mai fatto. Da che Simone ha memoria, nessuno è mai intervenuto per dare un freno a quei commenti poco carini, sono sempre passati in secondo piano rispetto al resto. Per cui, scuote leggermente il capo e «Immagino di no» biascica.
«Beh, almeno ora lo sa, mi pare» commenta Andrea e allarga il sorriso, talmente tanto che raggiunge anche i suoi occhi, formando delle linee sottili attorno ad essi. «Oh, aspetta» dice, dopo.
Simone non sa cosa succede nel momento in cui l'altro ragazzo compie mezzo passo nella propria direzione. Si avvicina un briciolo, la distanza che li separa diminuisce e di molto – si riduce a qualche centimetro. Sente una sua mano sulla guancia, gli sta sfiorando uno zigomo con due dita, indice e medio.
Si ritrova - per ragioni ignote - col cuore che gli batte all'impazzata nel petto e le gote che di sicuro gli si sono tinte di rosso per quel minuscolo contatto.
E manco ne capisce il motivo. Forse perché l'altro ragazzo sta compiendo tale azione in maniera spontanea, senza esitazioni, senza rimuginare troppo su come possa esser visto un gesto simile dall'esterno. Non ne ha idea.
Forse un miscuglio di tutto ciò che lo porta, addirittura, a trattenere il respiro, finché Andrea non smorza una risata e mormora: «T'è caduta una ciglia».
Simone deglutisce rumorosamente. «Oh» bofonchia - perché nemmeno sa che dire, crede di essere un briciolo scombussolato in quel momento, mentre fissa quella ciglia sulla punta di un suo dito.
Allora sta per proferire parola - non che sappia esattamente quale - però viene preceduto da un rumore, un colpo di tosse finto. A Simone è sufficiente voltare di qualche centimetro il capo per scorgere Manuel accanto a loro, con lo zaino retto su entrambe le spalle e la giacca bomber verde militare aperta, lasciando intravedere una canotta da basket rossa con i dettagli bianchi. «Ve siete incantati?» lo sente borbottare.
Strabuzza gli occhi, per un breve istante - che non ha idea di come abbia fatto ad arrivare a scuola in così breve tempo; presume lo abbia accompagnato Anita o forse direttamente insieme a Dante, non ne ha idea. Non dice nulla, comunque.
Andrea rivolge un distratto cenno del capo a Manuel, che funge come saluto.
Quest'ultimo, comunque, lo ignora. Schiocca la lingua sul palato. Fissa dapprima il pischello borghese, poi Simone - che non si limita a fissare, lo trafigge proprio con lo sguardo. In seguito «Con permesso» esclama e passa in mezzo ai due, separandoli e riservando a Simone un colpo con la spalla che un briciolo lo tramortisce e lo fa indietreggiare.
Andrea osserva Manuel varcare la soglia dell'edificio scolastico. Aggrotta le sopracciglia. «Mi odia proprio, mh?» commenta.
Simone sospira sommessamente, confuso da quel suo comportamento. «Odia un po' tutti».
**
A Simone, la lezione di educazione fisica a scuola non è mai piaciuta, il che è un briciolo contraddittorio col proprio essere, considerando che ama lo sport, gioca a rugby - in quello è un po' scarso, ma questi sono dettagli - e la mattina va a correre.
Probabilmente l'odio per la motoria in quel particolare frangente è dovuto alla palestra che cade a pezzi, col pavimento color cobalto pieno di crepe, le spalliere di legno a ridosso della parete più corta in tale ambiente con un gradino rotto e uno sano; persino le finestre non si chiudono bene e lasciano entrare spifferi continui.
Poi adesso stanno anche giocando a pallavolo con una rete troppo bassa - gli sarebbe sufficiente alzare un braccio per superarla facilmente e lui è alto, sopra la media.
In un campo troppo piccolo per contenere bene sei giocatori a squadra - difatti non riescono neppure a mantenere una posizione consona senza scontrarsi tra di loro - Simone osserva Manuel che si trova al di là della rete - rotta anche questa, tra parentesi, poiché i buchi quadrati hanno bordi tagliati e consumati. Lo vede nell'angolo del campo della squadra avversaria, mentre schiaccia con un piede la linea bianca e sbiadita dipinta a terra e non partecipa attivamente alla partita a cui entrambi dovrebbero giocare.
I loro sguardi, di tanto in tanto, si incrociano, sempre per poco - per davvero pochissimo, brevi frammenti di tempo che sfuggono tra le dita.
«Oh, attento, Simó!» la voce di Luna riecheggia nell'ambiente e questo è sufficiente a distrarre il ragazzo dai mille pensieri. Una palla rischia di abbattersi sulla propria faccia, ma mette le mani davanti al viso per evitarlo e colpisce l'oggetto sferico con i palmi, facendolo finire dapprima contro la rete, poi a terra.
«Ma a rugby ce giochi meglio, sì?». Luna gli è di fronte, a qualche metro di distanza. Lo prende in giro e dopo ridacchia, raccogliendo la palla dal pavimento sporco, che è la stessa che lancia dall'altra parte del campo, passandola alla squadra avversaria per la battuta.
Simone scrolla le spalle e non risponde. Ha la testa altrove, in realtà, su molte cose e parecchi avvenimenti in un tempo relativamente breve, come la storia Instagram con Martina, le parole di Manuel quella mattina, Andrea che lo difende da Matteo e poi Andrea che gli sfiora una guancia, Manuel che arriva e sembra - geloso?
Follia, se lo deve ripetere: Manuel non è geloso di lui.
Basta, Manuel non è geloso di lui e probabilmente con Martina ci ha scopato pure, non importa quel che dice.
Che deve pretendere, povero cretino.
Simone sbatte rapidamente le palpebre quando sente un tonfo sordo nei timpani. Gli basta sollevare lo sguardo per vedere come il gioco sia ripreso senza che se ne accorgesse e ora nota il modo in cui Andrea salta davanti alla rete e schiaccia la palla con forza.
Non ha idea se in maniera casuale o meno, ma essa è indirizzata a Manuel che dovrebbe respingerla in qualche modo - un bagher, un palleggio, qualcosa.
È probabile, però, che il colpo sia troppo forte, tant'è che l'oggetto sferico gli finisce addosso di prepotenza, rimbalzando sulla sua spalla e riproducendo un rumore acuto.
Quando Andrea torna coi piedi per terra, si rende conto di ciò che è successo, per cui si affretta a passare al di sotto della rete, sollevare entrambe le mani in cenno di colpevolezza e indirizzarsi verso il ragazzo che ha – involontariamente (forse) – danneggiato. «Oh, scusami, eh!» esclama «Ti sei fatto male? Non l'ho fatto apposta».
Simone guarda quella scena dall'esterno, eppure gli pare quasi un film già visto, principalmente perché riesce a prevedere con esattezza ciò che accade. E difatti, osserva il modo in cui Andrea si avvicina in maniera cauta a Manuel, per accertarsi che stia bene, e come quest'ultimo gli rivolge un'occhiata fulminante e non esita, non aspetta mezzo secondo per compiere un passo nella sua direzione e spintonarlo, con violenza.
Andrea barcolla all'indietro a causa di tal colpo assestato - in realtà, forse nemmeno se lo aspetta, quindi la sua espressione risulta un po' scioccata, sorpresa. La situazione peggiora quando Manuel gli riserva una seconda spinta, più vigorosa rispetto a prima, ed è allora che l'altro ragazzo reagisce, con il medesimo gesto. Così cominciano a strattonarsi, correndo il rischio di cadere a terra entrambi.
Per separarli, deve intervenire il professor Battaglia, che prima soffia nel fischietto che porta appeso al collo – ovviamente quel suono non serve a nulla, per cui è costretto a mettersi in mezzo, aiutato da alcuni ragazzi della classe come Matteo, Giulio o Aureliano che, in realtà, devono più trascinare via Manuel che Andrea, visto che è il primo ad essere più iracondo, a quanto pare.
In un primo momento, Simone rimane immobile, spettatore di tale avvenimento. Si costringe a muoversi soltanto dopo, quando quel principio di colluttazione è stato già fermato.
Nota Manuel liberarsi in malo modo dalla presa salda in cui il professore lo ha racchiuso con entrambe le braccia, tenendolo per il busto, mentre ancora si sbraccia per colpire in qualche modo Andrea, lo stesso che, invece, si è rapidamente calmato, tiene le braccia lungo i fianchi, ma scruta l'altro con lieve astio.
«Manuel, vatti a cambiare subito che la prossima volta finisci dritto dalla preside!» è il rimprovero del professor Battaglia che riecheggia nella palestra.
Manuel indossa una maglietta azzurra a maniche corte, la stessa che ora risulta stropicciata e scomposta. Cerca di sistemarla, frattanto che rivolge un'occhiata truce prima ad Andrea, dopo a Simone che gli è accanto. In seguito, abbandona quel luogo, borbottando un «Fanculo» a stento comprensibile.
C'è un momento di stallo in cui, alle orecchie di Simone, giungono solamente suoni ovattati, tra il chiacchiericcio dei compagni di classe e lo sguardo interrogatorio che carpisce da parte di Andrea.
Scuote il capo, nota che la figura di Manuel è già scomparsa oltre la porta di tal posto. Dunque «Prof?» richiama l'uomo che ha ripreso il fischietto in bocca per poter riportare ordine tra gli alunni. Riesce ad ottenere la sua attenzione, poco dopo, e «Posso andare a...» propone e gesticola.
Il professor Battaglia alza gli occhi al cielo. «Vai, vacci dietro che magari lo calmi» borbotta.
Simone non se lo lascia ripetere due volte, di seguire Manuel – lo avrebbe fatto comunque, con autorizzazione o meno.
Ma non eri arrabbiato? Martina, mh?
Fanculo Martina.
Per raggiungere l'altro ragazzo, deve percorrere uno stretto e minuscolo corridoio che conduce ad una porta di legno di un giallo sbiadito, scrostata e che cade a pezzi - come tutto il resto lì dentro, a quanto pare.
Simone ne varca la soglia, muovendosi il più piano possibile, e se la chiude alle spalle.
Lo spogliatoio maschile è piccolo: appena si entra, sulla destra ci sono degli armadietti di metallo privi di chiavi – per nulla sicuri, tra parentesi – che in pochi effettivamente usano, dato che i ricambi di pressoché tutti sono sparsi in giro in quel piccolo ambiente, sul pavimento o sulle due panche, anch'esse di legno, che sono sistemate da entrambi i lati dello stanzino.
Manuel si è già sbarazzato della maglietta azzurra e si è rimesso addosso la canotta rossa con i dettagli bianchi.
«Ma che t'è preso?» esclama Simone. Cerca di parlare a bassa voce, avvicinandosi a lui e lanciando un'occhiata all'ingresso dello spogliatoio che ha comunque appena sigillato e nessuno può, di fatto, vederli.
«M'è preso che quello è un coglione» è la replica secca di Manuel - non specifica chi sia il coglione, ma è abbastanza chiaro. Appallottola la t-shirt che tiene in mano e la ficca dentro la sacca blu di stoffa che, di solito, utilizza per la motoria – ha sempre usato direttamente lo zaino di scuola e basta, senza troppi fronzoli, ma nell'ultimo periodo Anita ha insistito per non mettere le scarpe da palestra nello stesso posto dei libri e, soprattutto, mettendoci pure gli indumenti sudati e allora, ecco la sacca blu.
Sbuffa. All'altro manco riesce a guardarlo in faccia, si limita a qualche sguardo sfuggente frattanto che finisce di cambiarsi e infila ogni cosa all'interno della sacca.
Simone allarga le braccia, esasperato. «E ti pare il caso di rischiare di finire dal preside per questo?» sbotta «Rischi che ti sospendono davvero stavolta».
Manuel rotea gli occhi. Soltanto ora si volta verso il compagno – sono già abbastanza vicini, in realtà, li separa solamente qualche centimetro. «M'ha lanciato la palla addosso e dovevo stà calmo, Simò?» ribatte.
Simone sospira sommessamente e «Stavamo giocando, son cose che capitano» tenta di spiegare, ma probabilmente gli esce male poiché, come reazione, ottiene l'altro che schiocca la lingua sul palato e borbotta: «Ah, mò devo sentì pure tu che lo giustifichi? Ma davvero?».
«Non sto giustificando nessuno, tu – sei partito in quarta per niente. Che devo fare?».
«Per esempio non difenderlo».
«Guarda che non è colpa mia se ti sta sul cazzo, eh».
«Vabbé, Simò, vaffanculo pure tu». Manuel finisce per scuotere vigorosamente il capo. Richiude la sacca di stoffa tramite due laccetti bianchi, che tira, stringe e lega in un nodo lento. La infila su una spalla sola ed ha intenzione di abbandonare lo spogliatoio e, probabilmente, firmarsi una giustifica per andare a casa – visto che lo può fare tranquillamente.
Tuttavia, quando ha mosso soltanto mezzo passo, le dita di una mano di Simone si stringono attorno al proprio braccio. Non lo sente dire niente – assolutamente nulla – soltanto premere con forza, il che lo porta a strattonare appena per liberarsi da quella presa che è tutt'altro che blanda. «Oh, me lasci?» sibila.
No, non funziona, l'altro non molla. Deve lottare per essere rilasciato, che alla fine deve addirittura spintonarlo e rischiare di farlo capitombolare a terra.
A tal punto, Simone abbassa lo sguardo.
Che stupido, si è addirittura convinto che tutta quella faccenda fosse...
No, di nuovo, non lo è.
Manuel gli rivolge un'occhiata rapida e fulminante, prima di compiere mezzo giro su sé stesso e accingersi ad uscire per davvero da tale stanza.
Ciò nonostante, nell'attimo in cui stringe tra le dita la maniglia di finto ottone della porta, Simone lo vede fermarsi.
Accade in una frazione di secondo: Manuel che torna indietro con due falcate, che gli si ferma di fronte, che gli afferra il viso con una sola mano – da sotto al mento – e poggia le labbra sulle proprie in maniera violenta, irruenta, aggressiva, quasi sul punto di fargli male con i denti.
È un bacio fugace ed impetuoso, che gli toglie il fiato, che gli fa male e bene al contempo. E dura poco - fin troppo poco.
Simone sta trattenendo il respiro in quell'istante, con il viso di Manuel a pochi centimetri dal proprio – il suo, di respiro, lo percepisce sulla pelle ed è terribilmente bello avere il suo respiro sulla pelle.
Cazzo.
Deglutisce rumorosamente, il petto gli trema e qualcosa dentro di lui sta supplicando per averne ancora, ancora e ancora.
Così finisce per sporgersi nella sua direzione, a richiamare un ulteriore bacio, a richiedere di essere annientato di nuovo - ogni volta, tutte le volte.
Tuttavia, Manuel rilascia la presa del suo volto con poca delicatezza, indietreggia e fa cenno di no con la testa.
Simone schiude la bocca perché vorrebbe domandare qualcosa, vorrebbe proferire mezza parola, sebbene non gli venga in mente nulla.
Difatti, non parla.
Non lo fa neppure Manuel che, anzi, abbandona lo spogliatoio, sbattendosi la porta alle spalle.
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Alla fine, Manuel firma quella giustifica ed esce prima da scuola.
Simone prova l'istinto di mandargli un messaggio e chiedergli dove sia andato, ma si trattiene. Nota che nella loro conversazione su WhatsApp ci sono quattro vocali che non ha volutamente ascoltato in precedenza.
Ha l'intenzione di farlo adesso, mentre è seduto sul muretto di pietra davanti alla scuola – quello che è diventato un po' il proprio posto nell'ultimo periodo. E di Manuel, anche, in realtà.
Quindi regge il telefono in mano, sta per premere play sul primo audio da quattordici secondi e...
«Sei davvero sicuro che non mi odia?». La voce di Andrea lo precede. Gli è sufficiente sollevare lo sguardo per vederlo, frattanto che prende posto su quello stesso muretto, sedendosi al proprio fianco.
Okay, i vocali devono aspettare.
Abbozza una risata e blocca lo smartphone attraverso il tasto laterale. Non ha necessità di domandare a chi si riferisca, insomma, è chiaro.
«Te l'ho detto che odia tutti» borbotta, fissando dapprima un punto vuoto di fronte a sé e soltanto in seguito l'altro ragazzo.
«Beh, mica tutti, tutti» puntualizza Andrea. Dalla tasca interna della giacca di finta pelle nera che indossa, estrae un pacchetto di Winston Blu; lo apre, prende tra indice e medio una delle sigarette e se la porta alla bocca. Offre quello stesso pacchetto al ragazzo che ha accanto, ma ottiene un cenno di no con la testa e uno stentato «Non fumo».
Simone scrolla le spalle. «Che intendi con non tutti, tutti?» chiede.
Andrea recupera anche un accendino viola dalla medesima tasca, gira la rotella su di esso e con una lieve fiammella accende la sigaretta che regge tra le labbra. Aspira a fondo e rilascia una nuvola di fumo che si disperde leggera nell'altra. «Beh, che a te mica ti odia» fa presente.
A Simone sfugge una risata. In realtà, del fatto che Manuel lo odiasse, soltanto due anni prima ne è stato pienamente convinto – beh, poi le cose che gli ha urlato in quella che pare quasi un'altra vita, a volte gli risuonano ancora nel cervello, insieme a tutto il resto. «Va a periodi» borbotta, abbassando appena il capo «Più o meno».
«Forse per vivere nella stessa casa ha dovuto imparare a tollerarti meglio, allora».
«Forse sì».
Se solo sapesse.
«Allora – per domani va bene?» Andrea cambia argomento, soffiando in alto ulteriore fumo.
Simone non afferra subito – è un po' distratto – e dunque «Per domani, cosa?» borbotta.
«Le lezioni private».
«Ah, quelle – uhm, sì, va bene domani».
«E per quell'altra cosa?».
Ah, all'altra cosa ci ha pensato di meno. In realtà, è stato perché il discorso gli è sembrato casuale e ci ha dato poco peso, una conversazione uscita nel bel mezzo delle ripetizioni di matematica, in una pausa davanti ad un caffè, che poi si è trasformato in una sorta di aperitivo e direttamente in una cena.
Insomma, Simone ha passato l'intero pomeriggio e la sera a casa di Andrea ed è emerso che quest'ultimo, nel tempo libero, si diletta nella fotografia, per cui è parso grandioso per il bresciano proporgli di posare e fare qualche scatto insieme.
«Ah, ehm – non lo so» bofonchia Simone in quel momento, in leggera difficoltà e «Te l'ho detto, vengo male in foto».
«Tu vieni male?».
«Eh, io».
«Ma li hai gli specchi in casa?».
Un briciolo, si sente persino offeso dall'ultima frase, tant'è che aggrotta le sopracciglia e vorrebbe rispondere che sì, li ha e ha detto una cosa obiettiva - circa. Tuttavia, Andrea lo frena con una leggera risata. Prende un ultimo tiro dalla sigaretta consumata per metà e la spegne, premendola sul muretto di pietra, dal quale poi scende con un balzo. «Vabbè, tu pensaci ancora un po', dopo vediamo» esclama. «Ti scrivo più tardi» conclude, prima di allontanarsi e lasciare Simone di nuovo solo.
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Allora, forse Manuel è geloso.
Simone non pensa ad altro da ore, da quel bacio nello spogliatoio dato con l'alto rischio che qualcuno entrasse e li vedesse.
Forse Manuel è geloso.
Lo ritiene tale perché la sua reazione alla pallonata di Andrea è stata eccessiva, e poi c'è il banco, ci sono le storie su Instagram, i vocali che ha avuto modo di ascoltare e gli chiedevano di beccarsi da qualche parte in casa mentre erano presenti anche Dante e Anita e persino un pezzo di una canzone - che ha scoperto essere la stessa da cui è tratta la didascalia del suo ultimo post sul social network - dove gli dice "ascolta questo che tu scegli solo musica di merda".
Un po' ci ha riso persino sopra.
Ma la canzone l'ha ascoltata comunque.
Chili d'amore sotto le occhiaie, un'altra notte insieme a te.
La camera di Manuel si trova in fondo al corridoio al primo piano della villetta Balestra. È la stanza che, in precedenza, ha occupato la nonna Virginia che non vive più lì dal trasferimento di lui e Anita.
Ovviamente, il ragazzo ha cambiato e stravolto tutto l'arredamento e la stanza in sé, ha ridipinto le pareti di un blu elettrico e appeso locandine di film su di esse - tipo quella di Pulp Fiction e Il Corvo. Di mobili ha tenuto giusto l'essenziale: un letto ad una piazza e mezza dalla struttura di legno color noce chiaro, un armadio a tre ante dello stesso colore sulla parte più corta della stanza, sulla destra quando si entra, e una scrivania posizionata ad di sotto della finestra, dove spuntano fogli sparsi e libri ancora da leggere.
Simone si presenta sulla soglia della porta e lì si ferma, appoggiando una spalla sullo stipite. Vede l'altro ragazzo sul letto, con le gambe allungate sul materasso, al di sopra della coperta bordeaux, e il cellulare in mano.
«Sei tornato» dice, con lieve incertezza.
Manuel solleva lo sguardo dallo schermo per una frazione di secondo. «Sei arrivato tu dopo di me» puntualizza «Io sono qui da mó».
Simone annuisce, poi incrocia le braccia al petto. Compie mezzo passo dentro alla stanza. «L'ho ascoltata» esclama «La canzone che m'hai mandato».
«Ah, quindi ora me parli di nuovo?» borbotta Manuel e accenna una risata. Blocca lo smartphone tramite il tasto laterale e lo abbandona in maniera distratta sul letto.
Simone si morde piano l'interno della guancia e okay, la loro discussione di quella mattina lo tramortisce ancora, ma in una singola giornata si sono susseguiti una serie di eventi che un po' lo hanno scombussolato. «Boh, volevo solo dirti che l'ho ascoltata» taglia corto. Pensa che, forse, manco è il caso di parlare in quel momento, forse ha persino sbagliato ad andare in quella stanza.
Quindi «Vabbé» dice ed è in procinto di andarsene.
«Aspè» Manuel lo frena, alzandosi dal letto e toccando il pavimento con i piedi nudi.
Simone lo osserva frattanto che si appropinqua alla scrivania, gli fa un cenno col capo per dirgli di raggiungerlo e poi fruga nel cassetto, l'unico presente.
Gli obbedisce quasi subito, lanciando un'occhiata al corridoio immerso nella semi-oscurità di quel principio di sera.
«T'ho preso una cosa» annuncia Manuel. Simone fa appena in tempo a sbattere un paio di volte le palpebre quando in mano all'altro ragazzo scorge un pupazzo verde, dalla forma di una rana.
Un lieve sorriso gli appare sulle labbra a quella visione. Dall'anello di metallo che spicca da sopra l'oggetto, deduce sia un portachiavi. «Che è?» domanda, per quanto sia evidente.
«Come che è» borbotta Manuel «Non c'avevi la collezione di 'sti cosi?».
«Sì».
«E hai perso quello della rana. Mister qualcosa».
«Mister Frog».
«Eh, Mister Frog». Solleva quella piccola figura di pezza, portandola al livello del proprio viso. «Non è proprio lui, ma magari c'assomiglia».
A Simone sfugge una risata e «Per niente» commenta, divertito. È allucinante, contorto e irrazionale come ogni sentimento negativo, come la rabbia, l'angoscia e l'incertezza sia scomparso di fronte a tal gesto. Probabile sia soltanto Manuel capace di avere così tanto potere sul proprio stato d'animo e deve ancora capire quanto ciò sia positivo o meno.
«Oh, ce fosse 'na volta che apprezzi qualcosa, eh» Manuel si lamenta, ma ride pure lui. Fa una breve pausa, inclinando la testa su di un lato. «Comunque ho letto 'na roba sulle rane oggi» attesta.
Simone è perplesso, aggrotta le sopracciglia e «Perché hai - letto 'na roba sulle rane?» chiede.
«Tu te leggi 'na cifra di robe inutili, mó stiamo a vedere quel che leggo io?».
Alza gli occhi al cielo - ma è ancora divertito. «Vabbè, che diceva 'sta roba sulle rane?».
Manuel esita per un breve istante. Scrolla le spalle. «Che c'hanno un linguaggio tutto loro» spiega «Tipo se vogliono chiedere scusa, dicono cra cra».
«Le rane dicono solo quello».
Non risponde a parole, piuttosto schiaccia con due dita il pupazzo che regge ancora ed è lo stesso che emette suono, gracida quel cra cra.
Simone, per un attimo, ammutolisce. In maniera razionale, lo sa benissimo che quello non è il modo di comunicare delle rane, ma non sta lì a puntualizzarlo, non quando Manuel lo sta fissando in tal modo, di sottecchi, da incredibilmente vicino, con in mano quel portachiavi che ha comprato appositamente per lui.
E pensa che forse, considerando che non vuole mai parlare di niente, quella sia la sua maniera per comunicare.
Ne ha parecchi di metodi alternativi.
Raccatta il nuovo Mister Frog dalle sue dita: è un oggetto carino, verde - ovviamente - con la testa e gli occhi grandi; un po' inquietante, forse, ma buffo.
Gli sfugge l'ennesimo sorriso, mentre preme sulla pancia del pupazzo e di nuovo cra cra, lo fa riecheggiare.
«Vuol dire anche grazie, a volte, il cra cra» esclama.
«Pure?».
«Eh, pure».
Quel momento tra di loro è raro. Perlomeno, Simone lo reputa raro e anche un po' magico. E adesso non si sente così stupido a pensarlo.
Probabile sia per questo che, nonostante tutto, la porta aperta, la luce accesa della stanza, non esista mezzo istante a sporgersi nella sua direzione, a ricercare un bacio, sebbene con il terrore di essere eventualmente respinto in tale istante.
Ma ciò non accade.
Manuel rimane immobile, si lascia baciare con delicatezza e cura, sebbene mantenga le braccia lungo i fianchi.
Nel mezzo di quel bacio dolce, soave, Simone sorride anche. Perché è felice, con la bocca su quella di Manuel, a percepire il suo respiro, con in mano quel pupazzo che significa tutto e niente.
Mister Frog, di nuovo.
«Manuel! Simo! La cena!». La voce di Anita è perfettamente udibile, proveniente dal piano di sotto ed è causa di tal suono che sobbalzano entrambi e sono costretti a distaccarsi, col cuore che batte in maniera un po' troppo forte nei loro rispettivi petti.
Per un breve istante, finiscono persino per guardarsi con un leggero imbarazzo, quasi fosse la prima volta che un bacio accade tra di loro.
Assurdo, no?
Sì, assurdo.
«Dobbiamo andà che se no c'ammazza» borbotta Manuel, grattandosi dietro ad un orecchio. Simone annuisce, abbassa lo sguardo. «Sì, meglio» borbotta.
Abbandonano la stanza qualche secondo dopo, in silenzio, evitando di rivolgersi anche solo mezza occhiata. Prima di scendere le scale, però, Simone si reca nella propria, di camera, unicamente per attaccare il portachiavi di Mister Frog allo zaino di scuola.
Soltanto dopo si reca in cucina per la cena.
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