Caos
Alla fine, all'invito a quella festa ha detto sì.
Un po' lo ha deciso da solo, un po' è stato spinto da Martina ad accettare perché così ti distrai, Manu, te diverti, fidate.
Sarà, ma in quel momento non si sta distraendo e, di sicuro, non si sta divertendo.
La festa non è troppo movimentata: si svolge in una casa a due piani poco fuori Roma, affittata su Airbnb, racimolando i soldi di tutti – insomma, qualcosa con poca organizzazione, visto che le uniche cose da bere sono birre del discount e bottiglie di Spritz scadente.
Neppure la parte dei regali è stata soddisfacente, dato che ha ricevuto un paio di calzini con sopra disegnati degli avocado – ma vabbè, un briciolo ha apprezzato dato che lui non ha comprato nulla per nessuno.
La gente presente è poca: in quella grande stanza – evidentemente il salotto, considerato il divano a otto posti che fa angolo di finta pelle rossa – una dozzina di ragazzi sono disseminati in gruppi da tre o quattro persone, chiacchierando in piedi o seduti su pouf bianchi; non devono nemmeno sforzarsi di alzare troppo la voce, dato che il volume della musica non è alto.
Manuel ha persino provato a lamentarsi con Chicca, sostenendo che ad una festa un briciolo più carina poteva invitarlo – lei gli ha fatto la linguaccia e gli ha ribadito che è ancora presto e che, quindi, sarebbero arrivate altre persone dopo e gli eventi avrebbero preso un'altra piega.
Okay, ma è in pratica mezzanotte e mezza, è lì da quasi due ore e non è successo ancora niente.
È stufo, vorrebbe andarsene. Tuttavia, in quel luogo ci è arrivato insieme alla ragazza, Laura e Luna, dato che è rimasto senza moto quella sera – presa prima da Simone, che a quella festa non ci è andato; nemmeno Andrea lo ha fatto, ovviamente – quindi non ha un mezzo per tornare a casa e non se la sente di sfidare il sistema dei trasporti di Roma a quell'ora tarda.
Deve per forza rimanere e aspettare.
Che gioia.
Sospira sommessamente. Ha le spalle appoggiate al muro. Scruta i presenti, nella luce soffusa, dai riflessi ambrati. Gli pare di non conoscere nessuno là dentro, eppure dovrebbero essere suoi amici – quasi tutti, perlomeno.
Ci sono Giulio e Aureliano col fondoschiena sul bracciolo del divano; davanti a loro soltanto Monica, che regge un bicchiere in una mano e sposta il peso del corpo da un piede all'altro, ridendo. Ha un vestito rosso addosso, corto e con le maniche lunghe, che fascia in maniera perfetta la sua figura.
Non sa di cosa stiano parlando, ma ridono spesso, per cui immagina sia qualcosa di divertente.
A pochi metri di distanza, ci sono Chicca e Matteo, uno di fronte all'altro, abbastanza vicini: lei sorride, lui inclina il capo su di un lato. Forse hanno iniziato a frequentarsi, forse no – Matteo non era uscito con Ludovica? Boh, non ricorda bene.
Ci sono altri ragazzi dalla parte opposta della stanza, di un'altra classe – forse la sezione C, invitati per fare numero.
Manuel si sente abbastanza fuori luogo. Scuote la testa. Mantiene una bottiglia mezza vuota di birra in mano quando esce dalla portafinestra e si ritrova su un ampio terrazzo, con una ringhiera in ferro battuto dalle linee semplici e verticali. La vista non è ottimale: c'è un campo spoglio di granturco davanti, ma, a causa della poca luce, niente è davvero visibile.
L'aria gelida gli lambisce le guance. È uscito senza giacca, del resto, e la camicia nera è davvero troppo leggera per quel clima.
Accosta la porta vetrata alle proprie spalle. Il rumore della musica, adesso, è udibile in maniera ovattata. Compie qualche passo distratto, rigirando la bottiglia tra le dita, prima di prendere un sorso del suo contenuto. Si ferma davanti alla ringhiera, su cui appoggia la mano libera per una frazione di secondo. È la stessa che poi indirizza verso la tasca posteriore dei jeans grigi che indossa, per recuperare il telefono; lo sblocca tramite il riconoscimento facciale.
Sullo schermo non appaiono notifiche.
Con il pollice, preme sull'icona di WhatsApp. Il contatto Simo non risulta online.
Si morde piano l'interno della guancia e digita in maniera rapida:
Dove sei?
No, non va bene, non gli piace. Che lo immagina benissimo dove possa essere l'altro, per cui sarebbe da masochisti chiederlo direttamente.
Lo cancella. Ci riprova:
Sei a casa?
Ancora niente, elimina pure quello.
Certo che non è a casa, stupido cretino.
Di nuovo:
Mi manchi.
Vabbè, sta esagerando. Scuote vigorosamente la testa, mentre preme il tasto per cancellare ogni cosa. È del tutto inutile. Si sente patetico.
Prima lo doveva dire, prima.
Prima doveva parlargli.
Prima.
«Oh, qua sei».
Manuel se ne accorge con leggero ritardo che qualcuno lo ha raggiunto – tanto che sussulta e il telefono rischia di cadergli di sotto, dal primo piano. Sbatte più volte le palpebre per ritrovare un minimo di contatto con la realtà. Alla fine, al proprio fianco ritrova Matteo, con mezzo sorriso stampato il viso e i gomiti sopra il bordo della ringhiera.
Non è esattamente la persona che vorrebbe accanto, non in quel preciso istante. Quindi sbuffa e infila il cellulare di nuovo in tasca.
Matteo si accorge che non è gradito e pensa pure con ragione. Lo sa bene. È il motivo per cui leva il sorriso, si fa serio – per quanto ciò sia possibile per lui - e si stringe nelle spalle, ma non ci rimane neppure troppo male.
«Senti, ma – te posso chiede 'na cosa?» esclama e il suo tono risulta incerto. È strano che lo sia: di solito, è il prototipo di persona che parla senza pensare, senza ragionare, che dice cose che non hanno senso e, molto spesso, di cattivo gusto, non morali e scorrette. Allora è strana una sua minima esitazione, specie in quel contesto.
Manuel tiene gli occhi fissi davanti a sé, premendo i polpastrelli sul collo della bottiglia. «Se devi» borbotta – e spera non debba proprio.
«Sicuro?».
«Se te movi, Mattè, altrimenti me ne torno dentro».
Matteo finge un colpo di tosse, per schiarirsi la voce. «Basta che non t'offendi, però, eh».
Manuel prende un respiro profondo e gli rivolge un'occhiata fugace. «Se non spari 'na cazzata delle tue, non m'offendo».
«Okay» l'amico corruccia le labbra in una smorfia. «È che stavamo a parlà nei giorni scorsi, io e Chicca, ma pure co' gli altri, de quello che è venuto fuori alla festa pe' il compleanno tuo».
«Ancora?».
«E vabbè, ogni tanto esce er discorso».
«Perché lo fate uscì voi, Mattè».
«Vabbè, posso andà avanti?».
Manuel alza gli occhi al cielo. Una parte di sé immagina persino dove possa mai andare a finire quel dialogo e ne è un briciolo intimorito. Beve l'ennesimo sorso della birra, che s'è fatta addirittura calda e «Vai avanti» attesta.
Matteo annuisce. Che poi manco è bravo con le parole, anzi, tutto il contrario. «Stavo a pensà, no?» comincia – e addirittura, pensa l'altro ragazzo, però cerca di non renderlo troppo evidente.
«Cioè, me fa 'n sacco strano pensà a te e Simone insieme, capì? Però, oh, sò scelte vostre, eh. Però pensavo, se vai co' Simone, vuol dire che te piacciono i maschi, no?».
Ecco, Manuel non pensa di essere in grado di affrontare quell'argomento così apertamente, perlomeno non con la persona con la quale sta avvenendo la conversazione. È stato già abbastanza arduo dirlo ad alta voce di fronte alla madre; in circostanze diverse, non è certo di esserne capace, ragione per la quale, un briciolo, si sente soffocare. Si ritrova a stringere così forte il collo della bottiglia tanto da far sbiancare le dita. Trattiene il respiro. «Eh – e quindi?» bofonchia.
«Quindi – non è che te piaccio pure io?».
Gli viene da ridere e, da un lato, è persino positivo. Quantomeno, non ha dovuto ascoltare parole pesanti, nuove frasi da opprimergli il petto. Ha semplicemente udito qualcosa alla Matteo - ossia un po' ignorante e pregna di luoghi comuni. Incredibilmente, gli sta persino bene, per quanto contorto sia il ragionamento.
«Era questo che te premeva chiedermi?» esclama, con le labbra curvate in un mezzo sorriso.
«Eh, sì, oh!» replica subito Matteo. «Ma è per sapè, giuro».
Manuel ride per davvero, stavolta. Alza gli occhi al cielo per un brevissimo istante. «Mattè, te posso dì 'na cosa?».
«Eh, dici».
Punta lo sguardo su di lui, cerca di essere serio – per quanto gli sia possibile. Dopo attesta: «Non sei proprio il mio tipo».
Matteo aggrotta le sopracciglia. Finge di rimanerci persino male e quindi «Sicuro? Vedi che sò caruccio».
«Ma vaffanculo, Mattè». Manuel replica scherzosamente. Non è arrabbiato, no, il contrario. Quello è un momento leggero, senza più voci e brusii di sottofondo. Va bene così.
«Ah, te posso dì n'altra cosa?».
«N'altra?».
Matteo strabuzza gli occhi e «Già che ce stamo» borbotta. Vede l'amico annuire. Quindi «Me sblocchi da WhatsApp?».
Manuel scuote il capo. Gli tira un leggero colpo sul braccio, col pugno chiuso. «Mo ce penso» conclude. Ride di nuovo, insieme all'altro ragazzo e quella festa, almeno per un po', si fa più tollerabile.
**
Simone si sfrega gli occhi, scendendo le scale di legno di villetta Balestra. Si è svegliato da poco, è assonnato. La sera prima – notte, meglio – è rientrato tardi, dopo esser stato al cinema con Andrea e aver passato ore in macchina a, semplicemente, parlare.
Parlano un sacco, loro due.
Alla festa con compagni e amici ha preferito non andarci.
E poi, c'era Manuel a quella festa.
Regge il telefono in mano - non ha ancora controllato le notifiche - e sbadiglia.
Non ha ripreso uno stretto contatto con la realtà, soprattutto perché non ha assunto la dose quotidiana di caffeina. È forse questo uno dei motivi per il quale la visione di chi si ritrova all'ingresso lo tramortisce alquanto: una donna dai capelli color neve gli sorride e allarga le braccia. Il rossetto bordeaux spicca sulle sue labbra sottili.
«Nonna?» borbotta Simone. Sì che il suo arrivo lo aspettava, ma credeva più tardi, nel pomeriggio.
«Simone!» esclama la donna. Ha ancora le braccia allargate perché «Non vieni a salutare la nonna?».
Ecco. Virginia è sempre allegra, in ogni situazione; di sicuro è una persona stravagante, creativa, come l'abito lungo con paillettes fucsia attaccate sopra, a livello delle spalle.
«Sì, ecco, saluta la nonna, poi mi aiuti con le sue trecento valigie, mh?». È Dante a parlare, lo stesso che appare sulla soglia della porta, carico di due grossi borsoni di finta pelle marrone scuro. Virginia gli rivolge uno sguardo distratto, poi rotea gli occhi. «Per due sciocchezze» commenta. «Tuo padre si lamenta sempre» dice, invece, al nipote.
A Simone sfugge un sorriso. Nonna Virginia è un suo punto saldo di riferimento, anche se, da quando lei si è trasferita a Viterbo, si vedono meno. Però c'è sempre - o quasi - una chiamata tra di loro la domenica mattina o pomeriggio.
Vorrebbe sempre raccontarle mille cose, sebbene, nell'ultimo anno, i segreti siano aumentati anche con lei. Immagina che, se solo fosse rimasta più vicina, forse alcuni eventi sarebbero stati diversi. Forse lo avrebbe aiutato meglio, con la sua saggezza.
Ma al telefono è sempre stato difficile aprirsi.
Ad ogni modo, Simone scrolla le spalle e raggiunge la donna, riservandole un abbraccio caloroso, stringendola forte a sé e inebriandosi del suo profumo di rosa. «Ti aspettavo nel pomeriggio» sussurra, depositando un bacio sulla sua guancia e staccandosi da lei poco dopo.
«Sì, sì, ho un po' anticipato» spiega lei «Ma è la vigilia di Natale, no? Ci sono un sacco di cose da fare e preparare e voi uomini avreste lasciato tutto alla povera Anita».
Dante ha abbandonato i borsoni a terra, accanto alla porta, recuperando dal cofano della macchina un grosso trolley che, adesso, fatica a portar dentro casa. Tuttavia, le parole della madre le sente benissimo e dunque «Qui ognuno fa il suo, mamma».
Virginia sbuffa - di nuovo. «Ci credo solo se lo vedo» commenta e scuote il capo. Dante la ignora. Sta ancora lottando per fare entrare la valigia in casa. «Oh, non m'aiutare te» borbotta, paonazzo in volto.
Simone ride, poi va in suo soccorso. Prendendo il trolley dal manico, si accorge come esso sia effettivamente molto pesante e persino lui fatica a trasportarlo.
Distratto da ciò, a stento si accorge dell'arrivo di Anita, che ha indosso un grembiule di stoffa chiara con su la scritta Kiss the cook, ricamata in rosso. Sente soltanto la sua voce «Virginia, finalmente!» e solleva il capo per vedere le due donne scambiarsi un abbraccio.
Deduce che anche loro abbiano legato in quell'ultimo anno. Del resto, chi non lo farebbe con Virginia? È un sole che splende e tutti sono attratti dalla sua luce.
Tutti.
Nonostante lei sia comunque piuttosto selettiva con affetti e conoscenze. Insomma, fa avvicinare soltanto chi ne è degno.
Il tonfo della porta che Dante chiude fa sussultare Simone, ma non è per quello che il suo cuore perde un battito. Piuttosto, lo provoca sollevare il capo e notare la presenza di Manuel in cima alle scale, il modo in cui scende i gradini a piedi scalzi e si sfrega una mano sul volto per ravvivarsi, coi capelli scompigliati e la barba appena ricresciuta sulla linea della mandibola.
Simone deve mandare giù a fatica della saliva - perché Manuel è bello e lo ha sempre pensato, non capisce come mai gli faccia lo stesso effetto dopo giorni a costringersi a non pensarlo.
Si è quasi convinto di esserci riuscito.
In quella settimana – o poco più - ha trascorso la maggior parte del tempo in compagnia di Andrea ed è stato bene.
È stato più che bene.
Non ha avuto un peso opprimente addosso tutto il tempo, si è sentito libero di dire e fare qualunque cosa - anche gesti semplici. Hanno trascorso ore a guardare serie tv, a parlare. Non ci sono stati altri baci.
Qualche carezza, qualche abbraccio. Hanno dormito nello stesso letto e una mattina lui si è svegliato con l'altro ragazzo che gli premeva il petto sulla schiena e lo stringeva a sé.
Ma poi nulla più.
Per tutto quel tempo, a Manuel ci ha pensato davvero poco.
È vero che ha cercato di evitarlo in qualunque occasione, in casa o a scuola e anche questo ha aiutato.
Eppure è assurdo come ritrovarselo davanti con gli occhi ancora assonnati e i capelli in disordine risulti micidiale in quel preciso istante.
Immagina debba lavorarci ancora su, per dimenticarlo, per strappare via la pagina del capitolo della propria vita che gli appartiene.
«Manuel!» esclama Virginia, non appena si accorge del ragazzo che ormai dista da lei meno di due metri. «Ma guardati, ma te lo danno da mangiare? Che viso sciupato».
Gli si avvicina, con le braccia ancora allargate e non esita neppure per mezzo secondo a stringerlo e intrappolarlo. Come accade spesso, Manuel fatica a replicare a tal gesto - nessuno lo ha avvertito, del resto, ma di sicuro non può avere che ridire con la nonna; per cui, seppur in maniera impacciata, tenta di reagire a quell'abbraccio, strabuzzando comunque gli occhi e cercando quelli della madre come supporto.
Tuttavia, Anita si limita ad osservare la scena e a scrollare le spalle, che equivale ad un mica posso farci qualcosa.
La presenza di Virginia all'interno della villetta Balestra rende l'atmosfera più calma e tollerabile - più o meno: che fino a quel momento, lo spirito natalizio lo hanno sentito poco tutti quanti, forse fatta eccezione per Anita, tant'è che in casa ci sono pochi addobbi. Nemmeno l'albero con decorazioni oro e rosso posto in salotto, vicino alla grande finestra, riesce a spiccare o a dare una mano.
Quantomeno, però, la nonna continua a raccontare aneddoti sulla sua nuova e vecchia vita, mentre si accinge a preparare e stendere la pasta fresca su un piano di legno, in cucina, spiega ad Anita vari passaggi per pietanze che intende servire a cena quella sera.
Manuel sente le loro risate, nonostante si trovi in un'altra stanza.
È in salotto, vi è appena entrato, con le mani dentro le tasche dei jeans e una felpa pesante addosso, di un arancione sbiadito. Le luci gialle dell'albero decorato scintillano ad intermittenza e sono pressoché l'unica fonte luminosa di quell'ambiente.
La stanza non è vuota: Simone è seduto sul divano, col telefono tra le dita, facendo scorrere i polpastrelli sullo schermo. Non si accorge della presenza dell'altro ragazzo.
Non lo stava nemmeno cercando. Deduce che il proprio inconscio lo abbia trascinato in quel luogo di proposito.
Forse merito del destino, forse no.
Esita per un paio di secondi, mordendosi piano il labbro inferiore. Poi prende un respiro profondo, muove dei passi, quelli che sono sufficienti a raggiungere il divano e abbandonarsi sui cuscini.
Pochi centimetri finiscono per separarli.
Per un attimo, Manuel crede che Simone si alzi nell'immediato e corra in camera - visto che è già successo nei giorni precedenti. Tuttavia, ciò non accade: l'altro resta immobile, con gli occhi ancora fissi sul cellulare; non gli presta alcuna attenzione, però.
«Tua nonna è molto carina» Manuel, allora, tenta di parlare. È un discorso neutro, pensa, su qualcuno che adorano entrambi, quindi non può sbagliare.
Magari riesce persino a scambiare più di due parole con lui, senza ricorrere ad ulteriori silenzi, gli stessi che ormai fatica a sopportare. Tiene i palmi sulle ginocchia, lo sguardo che si sposta di continuo e lentamente, tra l'albero di natale che scintilla e il profilo dell'altro ragazzo.
Simone non si volta neppure. «Seh, lo so» taglia corto.
«Mi ha detto che je hai dato er numero mio» Manuel insiste ad avviare una conversazione, nonostante il primo infausto riscontro. «Era pe' chiederme del regalo. Penso sia arrivata piena de pacchi, eh».
A quel punto, una reazione più seria arriva e, con molta probabilità, sarebbe stato meglio troncare tutto e subito.
Difatti, Simone blocca il cellulare con uno scatto. Serra la mandibola e volta il capo di pochi centimetri, sufficienti a far incrociare i loro occhi. «Fai sul serio?» sibila.
Manuel deglutisce a fatica. In realtà sì, è serio, perché sta provando a fare qualcosa, a parlarci, pur di qualcosa di più frivolo all'apparenza. Ma percepire il suo sguardo tagliente e micidiale addosso rende ogni cosa più complessa.
«Stavo solo...» tenta di spiegare, ma viene bloccato da: «Sì, lo so che stavi facendo».
Gli sfugge una risata, amara. «È Natale, Simò» dice e il tono di voce che utilizza risulta basso e appena rauco. «Magari potresti fare meno lo stronzo con me, solo per oggi».
«Ah, io faccio lo stronzo?».
«Non me pare che ce sta qualcun altro qua».
Anche Simone ride, con isteria. «Ah, adesso sono io» commenta, acido.
Manuel strabuzza gli occhi, incredulo. «Beh, se te fosse sfuggito» puntualizza «È da stronzi evitamme pe' giorni, chiedere a tu' padre n'altra moto quanno manco ce serve, risponne ai messaggi due ore dopo, cambià stanza quanno entro entro. Questo è fare gli stronzi, Simò».
Di fronte a simili accuse, Simone balza in piedi. Si passa una mano - quella non occupata dallo smartphone - sul volto. Appare stanco, esasperato. «Certo» sibila e allarga le braccia. «Adesso è da stronzi. Quando lo facevi tu, andava tutto bene».
Manuel ci prova a rimanere calmo, ad essere impassibile. La verità è che gli risulta molto difficile.
Perché ci sono ancora i suoi occhi, dannazione.
Alla fine, per quanto in lotta con sé stesso, di una cosa è sempre stato certo: che Simone è il caos nella propria vita.
Caos, perché l'esistenza gliel'ha stravolta dal primo momento in cui si sono conosciuti.
Caos, perché lo ha spinto a pensare e fare cose che in precedenza non ha mai considerato.
Caos.
Perché Simone è quel battito d'ali imprevedibile in una sequenza di eventi che all'ultimo minuto ha cambiato tutto per lui, senza che potesse fermarlo.
E adesso non riesce e non vuole neppure riportare ogni cosa come era prima, all'origine.
Ma il caos ha tanti, troppi aspetti negativi.
«Mò a questo semo arrivati?» esclama e assume una posizione eretta, con estrema lentezza.
Muove due passi nella sua direzione, stringendo i pugni lungo i fianchi. «Che me devi trattà peggio pe' vendicarte? Semo all'asilo, Simò?».
Non attende una sua risposta, piuttosto avanza ancora, lo fa finché non rimane poca - pochissima - distanza a separarli. «Dio, tu vuoi sempre tanto parlà, Simò, e mò manco me stai a guardà in faccia» incalza «Manco me fai dì qualcosa, te ne scappi sempre».
Simone scuote la testa. I suoi occhi sono fatti leggermente lucidi. «Tu adesso vuoi parlare?» sussurra. «Nell'ultimo anno dove cazzo eri?».
Fa una breve pausa, lasciandosi scappare uno sbuffo. «Ogni volta che te l'ho chiesto io, non volevi mai, trovavi sempre una scusa e dovevo farmelo andare bene. Invece ora pretendi - tu pretendi che sto zitto di nuovo e ti ascolto soltanto perché adesso lo hai deciso tu? Perché adesso vuoi farlo tu?».
Manuel assorbe quelle frasi come una spugna: rispecchiano la verità, del resto. Si è nascosto per oltre un anno dietro a cose non dette, dietro a gesti che ha sempre cercato di camuffare e ora non può pretendere qualcosa di più.
Non può pretendere un trattamento diverso.
Annuisce, un sorriso amaro gli si dipinge sulle labbra, mentre una crepa appare sul proprio cuore - quello che ha tirato fuori dalla teca di legno, con l'aiuto della madre.
Ecco, vedi, può rompersi.
«Nemmeno 'na cosa me fai dì?» biascica.
«No».
«Perché?».
Per un brevissimo istante, Simone esita. Guarda altrove, per non osservare troppo il viso dell'altro ragazzo e permettere a ciò di distrarlo, di farlo cedere. «Perché adesso sono io che non voglio ascoltarti».
Per tutte le volte che non m'hai ascoltato tu, soffia una voce nel proprio cervello.
Manuel resta immobile. Stringe talmente tanto i pugni da conficcare le unghie nei palmi e farsi male.
Quella è solo una diretta conseguenza del proprio comportamento. Un effetto domino che ha innescato lui stesso e che può solo andare a peggiorare.
Simone non aggiunge ulteriori parole, né gli riserva altri sguardi. Infila il telefono nella tasca posteriore dei pantaloni blu scuro che indossa ed è da subito in procinto di abbandonare il salotto. Cammina svelto, verso la porta, borbottando un «Devo uscire, torno più tardi».
Manuel sospira sommessamente. Si morde l'interno della guancia. È avvilito, triste, si sente in colpa. Il suo petto viene scosso da un leggero sussulto quando lieve pronuncia: «Vai da Andrea?».
Specifica quel nome, lo sottolinea. Che in quei giorni ha visto ogni storia, ogni riferimento a loro due insieme, ha saputo del tempo che hanno condiviso. Sa tutto e finge non faccia male.
Simone è di spalle, non si gira. «La sai già la risposta» sentenzia e, alla fine, abbandona la stanza.
Manuel ha come primo istinto quello di seguirlo, ma i suoi piedi rimangono incollati al pavimento. Ogni fibra del suo corpo sembra paralizzata e lo rimane finché non ode la porta sbattere, un tonfo che lo fa tremare e cadere ancor di più nell'abisso.
Per l'ennesima volta una conversazione con Simone si è conclusa in una catastrofe e non ha potuto fare nulla per impedirlo.
Chiude e riapre le palpebre ripetutamente. Gli occhi gli pizzicano, ma non vuole piangere. È stanco di farlo, non ci è abituato ed è meglio evitare che succeda in quel momento.
Si passa un palmo sul viso, sperando possa servire a farlo riprendere, almeno un po'.
«Tutto bene, Manuel?».
La voce di Virginia risulta al pari di una carezza in tale istante.
Manuel vede la donna ferma sulla soglia della porta: ha addosso un grembiule azzurro, che è stato leggermente sporcato da tracce di sugo all'altezza della pancia.
«Seh» borbotta e cerca di essere credibile - sebbene l'espressione che ha dipinta in faccia, in qualche modo, un briciolo lo tradisce. Finge un colpo di tosse per schiarirsi la voce e «Volevo dire - sì, tutto bene».
Virginia corruccia le labbra in una smorfia, il rossetto si è leggermente sbavato. «Ho sentito Simone andare via sbattendo la porta» esclama. «Mica avete litigato, eh? Non si litiga a Natale».
A Manuel viene quasi da ridere, in maniera isterica.
Fosse solo a Natale.
Si stringe nelle spalle. «No, non abbiamo...» tenta di spiegare. «Non è niente, davvero».
La nonna non crede neppure a quello. È brava a scovare le bugie, tanto quanto a mantenere i segreti. Così accenna un sorriso, che vuole essere rassicurante, frattanto che muove qualche passo, lento, all'interno della stanza.
«Sarebbe un peccato, altrimenti» dice, unendo le mani in avanti, all'altezza del grembo. «Che litigate voi due, intendo» specifica. «Siete carini insieme».
«Insieme?».
«Beh, passate molto tempo insieme, no?».
«Ultimamente un po' meno» Manuel confessa, con leggero rammarico. Nemmeno rimugina su quelle frasi appena sentite, non ci fa troppo caso, non cerca significati nascosti - cosa che sarebbe accaduta fino a qualche giorno prima, di sicuro. Ma, del resto, si sta sempre parlando di nonna Virginia.
Quest'ultima sorride, inclinando un capo su di un lato. «Beh, allora» attesta «Il Natale mi sembra un ottimo momento per sistemare le cose. È quel giorno dell'anno dove si è tutti più buoni, certo, ma anche quello in cui si possono avere nuove occasioni».
Manuel pensa che ne vorrebbe mille, allora, di giorni del Natale. Sarebbero necessari per rimediare davvero, da sostituire a quelli persi o vissuti male. A voce, però, non dice nulla. Si limita ad accennare un sorriso, contenente un briciolo d'entusiasmo.
Virginia accetta quel suo silenzio. Curva le labbra verso l'alto. «Perché non vieni ad aiutare me e tua madre, di là?» propone. «Ho della pasta da tirare e davvero bisogno di due mani in più».
«Ah, non sono molto bravo a...».
«Nemmeno tua madre. Vi insegno, dai».
**
«Ti avevo detto di non venire».
Il tono che Andrea utilizza non è di rimprovero, è il contrario: è forse fin troppo intenerito dalla visione di Simone oltre la soglia della porta blindata di casa propria.
Il ragazzo in questione, difatti, gli è di fronte, con le mani nelle tasche del giubbotto nero che indossa e il capo leggermente inclinato su di un lato. «Sì e io non ti ascoltato» attesta.
«Quando mai».
«Mi fai entrare?».
Andrea non replica neppure, si limita a scostarsi qualche centimetro, giusto per permettere all'altro di fare il suo ingresso e chiudere la porta alle loro spalle.
L'appartamento dei Mainardi è asettico. Lo è sempre, in realtà, solo che in quel periodo è un particolare che stona: sono assenti le decorazioni, non c'è un albero illuminato, nessun fiocco, nessuna ghirlanda.
Simone lo trova un po' triste, nonostante manco apprezzi quella festività. Cammina a passo lento nel living, raggiungendo il divano nero. Si leva il giubbotto e lo fa ricadere con fare distratto sui cuscini, sui quali poi prende posto. Ci ha passato così tanto tempo lì dentro che davvero quasi la considera un briciolo propria.
Andrea gli siede accanto. Ha i ricci scuri scompigliati, la t-shirt grigia che ha addosso è sgualcita ed è di sicuro un indumento troppo leggero per l'inverno; i pantaloni di tuta della medesima tonalità gli fasciano con morbidezza le gambe. «Guarda che non era davvero necessario che v---» fa per dire.
Tuttavia, Simone frena subito le sue parole: «Ormai sono qui».
«Ma è la vigilia di Natale».
«E quindi?».
«E quindi – a meno che tu non abbia dei genitori stronzi come i miei che manco tornano a casa dal figlio, è una cosa che si passa in famiglia».
Si irrigidisce un briciolo a tale affermazione. Si morde piano l'interno della guancia e scrolla le spalle. «Figurati» borbotta. «Manco mi piace il Natale, c'ho pessimi ricordi».
«Del tipo?».
«Del tipo – mio padre che non c'era mai, mia madre che lo chiamava di continuo per farlo tornare e poi piangeva».
Fa una breve pausa. Il suo rapporto con Dante si è leggermente risanato, soprattutto negli ultimi due anni, ne è consapevole. Però occorre ancora del tempo affinché risulti del tutto limpido. Il problema è che è tornato ad innalzare dei muri con lui e a costruire nuovi segreti, tanto da rischiare di riportare tutto al punto di partenza, quando non lo sopportava e basta.
Dopo riprende: «L'unica parte bella è sempre stata mia nonna e le sue tagliatelle».
«Le tagliatelle a Natale? Non si mangiavano i tortellini?».
«Quelli a Santo Stefano».
«Ah, giusto, mi scusi». Andrea ridacchia sull'ultima parte della frase e inclina appena il capo.
Simone abbassa lo sguardo. Inconsciamente – o forse no – la sua mano si sposta in maniera lenta. Va a raggiungere quella dell'altro ragazzo, la stessa che tiene appoggiata su un ginocchio piegato; ne sfiora piano il dorso, con la punta delle dita.
Lo ha fatto altre volte, quello.
Ha compiuto altre volte un simile gesto, persino fuori, al cinema o seduti su una panchina alla terrazza del Gianicolo, con persone attorno.
Tutte le volte, come quella volta, Andrea non si è scansato.
Ed è assurdo e micidiale il modo in cui ciò lo fa sentire.
Devastante il desiderio secondo il quale vorrebbe tanto fosse Manuel ad aver fatto lo stesso: a non averlo mai rifiutato, mai spinto via. L'ha immaginata molto spesso una simile eventualità, che sarebbe successo se.
C'è una voce dentro di lui che gli urla di smettere di fare confronti, di voltarla presto quella pagina, di lasciare andare l'illusione che si è creato di Manuel all'interno della propria testa.
Che ciò che ha vissuto con lui è stato soltanto illusorio, mentre con chi ha davanti può avere qualcosa di concreto, di tangibile.
Che con Andrea può funzionare tutto ciò che con Manuel non ha mai funzionato.
È questo pensiero che lo guida adesso, che lo conduce a sporgersi nella sua direzione, a mettere due dita della mano libera sotto al suo mento, per attirarlo appena a sé e poter premere delicatamente le labbra sulle sue.
Lo fa in modo lento, inserisce cauto la lingua e socchiude gli occhi.
Anche i baci sono diversi, poi.
Simone cerca di ammutolire la voce che ancora gli trilla in testa. Lo fa premendo il viso dell'altro ragazzo contro il proprio, posando i polpastrelli sulla sua guancia, tirandoselo di più addosso. Sbilancia appena all'indietro il busto, finendo con le spalle contro lo schienale del divano.
Andrea finisce per essergli sopra in parte e deve reggersi con un gomito sullo stesso schienale per non gravargli troppo addosso. Si distacca un briciolo, facendo sfiorare la punta dei loro nasi. Sorride e gli accarezza il viso, sfregando un pollice sullo zigomo.
Simone lo lascia fare, si bea per un attimo di quel minuscolo contatto, ponendo un palmo sul suo petto. Sospira, piano, e dopo: «Vieni anche tu».
L'altro ragazzo aggrotta le sopracciglia, confuso. «Dove?» domanda.
«Alla cena di Natale. Da me».
Una risata abbandona la sua bocca, tra il divertito e l'isterico, ma torna presto serio. E allora: «Sei serio?».
Simone annuisce. «Sì». È serio per davvero, per quanto paradossale sia la cosa. «Perché?».
«Beh...» Andrea tentenna. «La cena di Natale con il mio professore di filosofia, la compagna che non conosco, la nonna che non conosco e il ragazzo con cui andavi a letto. Mh - magari no?».
Simone lo sa benissimo che, nel caso in cui quell'invito venga accettato, la catastrofe sarebbe dietro l'angolo. Presume che avere sia Andrea che Manuel nella stessa stanza, seduti allo stesso tavolo, possa essere deleterio, per lui e, in generale, per tutti quanti. Non ha idea di cosa gli sia saltato in mente.
Cretino.
Scuote il capo, consapevole di ciò che effettivamente gli è uscito di bocca e decide di lasciar perdere. Per cui «Magari no» ripete, con tono fiacco e un mezzo sorriso gli compare sulle labbra. Intrappola tra indice e medio un lembo della maglietta dell'altro ragazzo e tira appena il tessuto all'altezza della manica.
«Facciamo così» esclama, a quel punto, Andrea e gli schiocca un rapido bacio sulla guancia. «Vai a casa, mangi le tagliatelle della nonna» gli sfugge una risata e la scaturisce pure nell'altro «Scarti i regali e poi se succede qualcosa o ti annoi, puoi sempre tornare qui. Tanto mica mi muovo».
Simone esita per un attimo, serrando le labbra. Per quanto l'idea di invitarlo alla cena sia folle, parteciparvi da solo lo è ancora di più. Perché quella situazione lo sta lentamente logorando, lo manda in tilt.
Il problema è che a casa c'è Manuel.
Il problema è che Manuel è sempre ovunque.
Come fa a liberarsene se è ovunque?
«Andata?» Andrea insiste, vedendo il suo tentennamento.
Simone si sforza di fare cenno di sì con la testa. Non dice nulla in replica, spera che basti quel gesto. Stringe ancora il tessuto della maglietta grigia tra le dita e ciò gli permette di tirare nuovamente l'altro più vicino, a ricercare un ulteriore bacio sulla bocca, durante il quale biascica: «Ho ancora cinque minuti, però».
«Vanno bene cinque minuti».
**
Manuel non è mai stato bravo ad apparecchiare. Lo è con tutte le altre faccende domestiche, considerando che ha dovuto imparare a fare ogni cosa sin da piccolo, crescendo con una madre giovane e single.
Però, ecco, a mettere la tavola – specie sotto le direttive di nonna Virginia, che vuole tutto perfetto – non è davvero capace. Ha sistemato i piatti su una tovaglia rosso scarlatto, le posate – pure il cucchiaino da dessert, del quale manco conosceva l'esistenza fino a mezz'ora prima. Ora sta cercando di destreggiarsi con i tre bicchieri che deve collocare ad ogni posto.
«Quello è per il vino». La voce di Anita lo rimbecca.
Manuel solleva lo sguardo dal calice ampio che sta reggendo in mano, fermo in piedi di fronte al tavolo parzialmente imbandito – c'è persino un centrotavola di ghirlande e fiocchetti rosso e oro. «Lo so che è per il vino» si lamenta e posa lo stesso oggetto sulla superficie piana, davanti ad uno dei piatti fondi che ha precedentemente lì collocato.
«Eh, meno male» esclama Anita. Lei mantiene in equilibrio su due palmi una pila di piatti fondi che, presumibilmente, serviranno per la prima portata. Sono quelli che appoggia su un angolo del tavolo, ancora impilati. Sospira e mette le mani sui fianchi. «Certo che la potevi invità l'amica tua» dice.
«Chi?».
«Come chi – Martina, no?».
Manuel scrolla le spalle. Ci ha addirittura pensato a chiedere alla ragazza di raggiungerlo; le ha mandato messaggi e persino chiamata, però le sue risposte sono stata piuttosto scarne. Ne capisce il motivo, soprattutto in quel periodo, per cui non ha insistito più di tanto. «Sta con la madre stasera, abita fuori Roma» spiega, veloce.
«Ah – e vabbè, veniva co' la madre».
«Magari no, eh».
Anita sbuffa. «Ma prima o poi me la fai conosce, no?».
«Seh, prima o poi».
La donna muove qualche passo distratto verso il figlio. Lo vede teso, di sicuro angosciato: lo nota da come mantiene lo sguardo basso la maggior parte del tempo o il modo in cui curva le spalle, giocherellando con i manici delle posate. «Senti 'n po'» sussurra e si guarda attorno furtiva, quasi qualcuno potesse origliare la loro conversazione. «Co' Simone c'hai parlato?».
A Manuel verrebbe da ridere se solo quella domanda non lo lacerasse dentro. «Mh-m» bofonchia. «Ma era meglio se non ce parlavo».
«Perché?».
«Lascia sta'».
Anita vorrebbe insistere. Apre la bocca per dire qualcosa, ma, alla fine, non lo fa. Reputa che, forse, non è il momento adatto.
Non quando poi quella cena di Natale deve avere inizio.
Simone rientra a casa abbastanza tardi. Svia i rimproveri di Dante per aver perso tempo fuori e non aver aiutato nei preparativi.
A parte roteare gli occhi, non fa nulla, neppure tenta di spiegare o difendersi. Non gli va e neppure si sente obbligato.
Sono tutti e cinque riuniti nella sala da pranzo, allestita a dovere per l'evento.
Simone sta per prendere posto il più lontano possibile da Manuel, ma ciò gli viene impedito da Anita che, con la scusa che deve alzarsi per recuperare le pietanze dalla cucina, lo costringe a sedersi accanto all'altro ragazzo.
Ecco, perfetto.
La cena, dunque, equivale ad una tortura.
Perché è difficile, per lui, fare finta che Manuel non esista: specie quando sente la sua voce, la sua risata che diventa acuta durante i racconti di Virginia su aneddoti delle feste passate.
È difficile far finta che il cuore non gli perda un battito ogni volta.
È difficile cancellare le persone quando paiono essere indelebili, come una scritta sul muro che neppure la pioggia lava via.
Come un tatuaggio sulla pelle, che sbiadisce, ma non sparisce.
La situazione, comunque, peggiora dopo, quando finiscono di mangiare e si spostano in salotto.
Sotto l'albero sono apparse buste dalla carta lucida e pacchetti incartati, ornati con fiocchi argento oppure oro.
Sono due, di carta color cobalto col nastro chiaro, quelli che Virginia tiene in mano. «Ah, questi sono per i ragazzi» annuncia, entusiasta.
Simone è seduto sul divano, Manuel è nella stessa posizione, dalla parte opposta – agli antipodi - il più lontano possibile.
Il primo esita ad afferrare quel regalo, lo fa soltanto per non deludere la donna. Solo al tatto, è già ben chiaro il contenuto: difatti, una volta rimosso l'incarto, spicca un maglione scuro, con davanti il disegno di una renna col naso rosso e le corna raffigurate come bastoncini di zucchero. Si tratta di un oggetto tipicamente natalizio e manco poteva aspettarsi qualcosa di diverso.
Virginia sorride ancora, soddisfatta e «Non mi avete risposto a cosa volevate per regalo» spiega «Quindi ho fatto io. Ve li ho presi uguali, eh!».
Il tessuto del maglione è morbido sotto le dita. Simone ne sfiora i bordi, tenendo lo sguardo basso. Non osserva la reazione di Manuel, immagina sia migliore della propria, poiché sente la sua voce dire «Grazie, è – molto bello, signora», mentre Virginia ridacchia: «Ti ho detto che devi chiamarmi nonna».
Okay, è davvero peggio di quanto ha messo in conto. Vorrebbe scappare.
Ma al peggio non c'è mai fine.
«Ma quello lo avete preso da poco?» è sempre Virginia a parlare, in piedi, al centro del salotto. Indica con un cenno del capo il pianoforte di legno posto a ridosso di una parete.
«Ah, sì» a rispondere è Anita, accomodata sulla poltrona posta perpendicolarmente al divano, con Dante appoggiato al bracciolo. Annuisce. «Gliel'ha regalato Simone a Manuel per il suo compleanno» spiega.
Simone serra la mandibola all'ultima frase. Si sforza di tenere ancora gli occhi bassi, per cui i movimenti dei presenti non li segue, cerca di non notarli. Si concentra sul maglione, sull'accarezzare le cuciture come distrazione.
È difficile, difficile, difficile fingere che Manuel non esista.
«Ma quindi – Manuel, sai suonare il piano?» domanda la nonna, curiosa. Manuel si affretta a scuotere la testa, in cenno di diniego e «No, io...», ma viene frenato da Anita, che incalza: «Certo che è capace».
Virginia allarga il sorriso. «Beh, facci sentire qualcosa, allora».
Al ragazzo viene spontaneo rivolgere lo sguardo per un secondo – per meno di un secondo – a Simone, a scrutare il suo profilo teso, il modo in cui non gli presta minimamente attenzione, la stessa che vorrebbe così tanto avere, specie in quel momento. Ma funziona così, quando si perdono le persone: svanisce l'interesse.
Ed è assurdo come da una parte ci sia la voglia di dimenticare e la difficoltà nel farlo, mentre dall'altra persiste la certezza che sia già successo, di essere dimenticati.
Del resto, tra loro due ha sempre funzionato in quel modo: mancano le parole e la fantasia fa solo disastri.
Manuel si pizzica piano il labbro inferiore con gli incisivi. «Meglio di no» mormora.
«Suvvia, non farti pregare» Dante esclama, mentre posa un palmo sulla spalla di Anita, la quale «Dai, vai!» insiste.
È difficile.
Simone osa sollevare lo sguardo soltanto ora. Lo fa nel momento in cui Manuel si alza in piedi, lentamente, abbandonando il maglione che ha scartato sui cuscini del divano. Segue la sua figura con gli occhi finché può, poiché il piano si trova alle proprie spalle, eppure non si volta, non ci riesce. È l'unico che, alla fine, non lo guarda sedersi davanti allo strumento.
Manuel, d'altra parte, è corroso dal nervosismo. A quel pianoforte ci si è avvicinato poche volte, la maggior parte delle quali è stato da solo e unicamente Anita lo ha sentito suonare.
Le mani gli tremano e ha gola secca. Non ha nessuno spartito davanti. Osserva i tasti neri e bianchi, paiono quasi estranei. Volta il capo di qualche centimetro, il proprio sguardo si incrocia con quello di Anita, poi con quello di Virginia e «Non le so fare le canzoni di Natale» sussurra.
«Allora suonaci ciò che vuoi» la madre lo rassicura e abbozza un sorriso.
Eh. Forse era meglio saperle suonare le canzoni di Natale.
Manuel torna a porre attenzione al piano. Le dita sono ancora scosse da tremori quando comincia a premere i tasti – va un po' a memoria, per questo su alcune note incespica, deve migliorare. Ci impiega qualche secondo a mantenere il ritmo, a far effettivamente ridondare qualcosa. Anche stavolta riproduce una canzone priva di parole.
Le parole che non sa mai come usare.
Ma forse solo la musica può parlare.
Mi sei scoppiato dentro al cuore
All'improvviso.
All'improvviso, non so perché.
All'improvviso.
Simone pensa di stare per soffocare.
Che quella canzone la conosce. Conosce un sacco di canzoni provenienti dalla playlist che l'altro ragazzo gli ha inviato, settimane e settimane fa, anche se nell'ultimo periodo ha smesso di ascoltarla.
Quella, però, la sa praticamente a memoria e a lui il cuore pare esplodere per davvero, nonostante le note del brano tornino ad essere incerte e, verso la fine, si spezzano pure, con uno «Scusate» biascicato da Manuel.
È allora che decide che non ce la fa più, che adesso il difficile è diventato insopportabile.
Che voltare pagina è davvero una merda.
Si alza in piedi con uno scatto. Il maglione gli cade a terra, si affretta a raccoglierlo e lo getta alla rinfusa tra i cuscini del divano. Tiene i pugni stretti lungo i fianchi, mentre letteralmente fugge via, recuperando il cappotto lasciato sull'appendiabiti accanto alla porta. Non dice nulla, ignora i «Simone, ma dove vai?» pronunciati sia da Virginia che da Dante.
Però non li ascolta e non permette a nessuno di fermarlo.
Perché adesso vuole essere in qualunque posto, meno che lì.
**
La notte di Natale ogni cosa pare essere più calma, serena.
Le finestre delle case sono illuminate, la gente è ancora sveglia a scambiarsi regali e abbracci.
A scambiarsi calore.
Calore che Simone non sente, non percepisce.
Lui sente il gelo e solo una minuscola parte di tale sensazione è dovuta alla bassa temperatura di dicembre.
È in sella al motorino dalla carrozzeria bianca, tra le strade di Roma durante quella notte in cui fiocchi candidi cominciano a scendere dal cielo.
Ah, neve a Natale, che cliché.
Simone nemmeno li nota quei cristalli che scendono lievi su di sé e si sciolgono sull'asfalto che ha davanti.
Sbatte rapido le palpebre per scacciare il pizzicore che ha agli occhi. Gira la manopola dell'acceleratore, il motore romba di conseguenza.
Ad arrivare alla destinazione prefissata ci impiega tredici minuti, la metà del tempo rispetto al solito a causa della mancanza di traffico.
Parcheggia la moto a bordo strada, oltre il gradino del marciapiede. Leva il casco e lo ripone nell'apposito scomparto sotto al sedile.
Guarda verso l'alto. Dei frammenti di neve gli si stanno già impigliando tra i ricci scuri.
Ha le mani congelate e trema quando preme il pulsante del citofono, accanto alla targhetta riportante la dicitura Mainardi B..
Il portone si apre senza che nessuno parli.
Meglio così.
Simone è nervoso e ogni fibra del suo corpo è scossa.
Di nuovo, nemmeno quello è per il freddo. Ha addosso una miriade di sensazioni che non sa decifrare.
In testa, ha soltanto caos.
Caos che è stato creato da ogni scelta sbagliata che gli pare di aver preso, che ha portato ad un collasso degli eventi, ad un cataclisma che non è stato in grado di evitare.
C'è caos dentro e fuori di lui.
C'è il caos alimentato dalle note che Manuel ha liberato nell'aria, le stesse che lo hanno colpito al pari di tante lame affilate, provocando tagli che ora bruciano sulla pelle.
Pure quelli rischiano d'essere indelebili.
Vuole girarla quella pagina, vuole andare avanti.
Perché Manuel gli ha fatto solo del male e lui glielo ha permesso, sempre.
Però, ora, deve distaccarsi. Deve smetterla di procurarsi nuove ferite rimanendogli vicino.
Ma è difficile, difficile, difficile.
È difficile spegnere l'amore.
Che quello per Manuel è un amore che fatica a morire.
E lui fatica ad ucciderlo.
Il trillo dell'ascensore giunta al piano lo fa sussultare. Le porte scorrevoli gli si aprono davanti.
Per una frazione di secondo, fa aderire la schiena ad una delle pareti dell'abitacolo. Prende un respiro profondo, come a prepararsi ad una lunga apnea.
Un po', in fin dei conti, è così.
Strizza le palpebre, poi cammina svelto, fuori, sul pianerottolo.
Vede Andrea fermo sulla soglia, con i capelli in disordine, con ancora la stessa t-shirt grigia addosso.
Vuole soltanto che il caos si quieti.
Vuole soltanto la calma.
Vuole soltanto che Manuel vada via dalla propria testa.
Strizza gli occhi, ha il fiatone.
Decide di smettere di pensare, di smettere di valutare pro e contro di ciò che sta facendo.
Raggiunge l'altro ragazzo, racchiudendo il suo viso tra le mani e preme la bocca sulla sua. Cerca e ottiene un bacio che sa di disperazione, misto a desiderio, pregno di ti prego, fammi dimenticare.
Ti prego, prendimi tu.
Simone si aggrappa alla sua maglia, tira il tessuto con fin troppa forza, lo strattona. Non si controlla molto, tant'è che gli morde il labbro inferiore tanto da rischiare di farlo sanguinare.
Andrea è confuso da un simile atteggiamento, poiché di occasioni per baciarsi in quel modo e andare oltre ne hanno avute parecchie, ma non è mai successo. Ci ha provato, a farlo accadere, ma ha sempre trovato una velata opposizione dall'altra parte, sufficiente a farlo desistere.
Ora, tuttavia, nessun blocco pare esserci, però risulta strano.
Sembra troppo.
Si costringe a frenarlo, almeno un briciolo. Appoggia i palmi sulle sue spalle, lo spinge con delicatezza all'indietro. «Oh – tutto okay?» chiede, a voce bassa.
Simone si affretta ad annuire. Tira su col naso e «Tutto okay» taglia corto. Si sporge subito, di nuovo in avanti, a ricercare e ritrovare le sue labbra, le stesse che riprende a baciare con foga.
Sposta le mani, le mette un po' ovunque, a tirare il bordo inferiore della t-shirt come se volesse togliergliela di dosso - anche se sono ancora sul pianerottolo.
A tal punto, Andrea lo tira dentro all'appartamento e chiude la porta, spingendola con l'aiuto di un piede. Tuttavia, seppur entrati in casa, lo ferma ancora, stavolta stringendo i suoi polsi e premendoci i pollici sopra. Si morde piano l'interno della guancia. La luce all'interno della casa è soffusa e fredda. C'è silenzio intorno, tra quei mobili moderni e anonimi.
«Sei sicuro?» domanda, con un filo di voce.
Simone aggrotta le sopracciglia. Ha le labbra gonfie e arrossate; lo stesso colore è presente sulla punta del naso e sulle sue gote. Fa cenno di sì con la testa. In realtà, in quel momento non ha bisogno di parole. Ha bisogno della calma al caos che ha dentro.
Però «Davvero? Perché poss--».
No, non vuole sentire alcuna alternativa. Gli si fionda addosso con più impeto, gli impedisce di intavolare un discorso, di intraprendere un dialogo che in quel momento non serve.
Ti prego, fammi dimenticare.
«Simo, non...».
«Sta' zitto e basta».
È allora che Andrea capisce. Comprende e tace. Asseconda i gesti dell'altro ragazzo, per quanto siano frenetici e sconclusionati. Cerca di calmarli, almeno un po', di renderli più delicati e attenti.
Barcollano entrambi, rimanendo incollati l'uno all'altro, con le bocche in un contatto che non si perde. Raggiungono una stanza dove spicca un letto a due piazze, con le lenzuola lilla giù sgualcite e in disordine.
Metà dei loro vestiti già non c'è più.
Simone ha rimosso il cappotto, le scarpe e il maglione. Rimane con addosso i pantaloni stretti e la camicia bianca. Tira l'altro ragazzo dall'elastico della tuta - perché la t-shirt gliel'ha letteralmente strappata via poco prima, lanciandola alla rinfusa sul pavimento.
Lo spinge sul letto, costringendolo a cadere di peso sul materasso. Non gli dà occasione per spostarsi o fare effettivamente qualcosa, poiché gli si piazza sopra, salendo a cavalcioni sulle sue gambe. Punta le ginocchia ai lati dei suoi fianchi, mentre si protende col busto in avanti così da poter raggiungere la sua bocca e baciarlo ancora.
Ancora, ancora e ancora.
Ti prego, ti prego, ti prego.
I gesti che compie rimangono pregni di eccessiva foga e smania, di avere tutto e subito.
Andrea fatica ad accordarlo, a stargli dietro. Devono rallentare. È la ragione per cui si costringe a ribaltare le loro posizioni: per farlo, lo afferra per i fianchi, lo spinge e con uno scatto è lui ad essergli sopra, almeno in parte. Gli fa piegare le braccia, gli blocca le mani sul letto, a livello della sua testa e fa intrecciare le loro dita. Deposita un primo bacio sul suo zigomo, poi sulla linea della mandibola.
«Facciamo piano, mh?» soffia, frattanto che posa le labbra sull'incavo del suo collo, bacia la porzione di pelle lasciata libera e succhia appena.
Simone vorrebbe liberarsi da quella dolce tortura. Una parte di sé gli sta urlando di ribellarsi e porre fine a ciò. Un'altra, tuttavia, lo spinge ad arrendersi, a non combatterla.
Quindi, socchiude le palpebre, sospira in maniera sommessa.
Si lascia baciare.
Si lascia spogliare con movimenti delicati e attenti, con tutta la cura del mondo.
C'è troppa cura e lui non ci è abituato.
Non è abituato al modo in cui Andrea gli accarezza ogni parte del corpo quando rimane nudo, passandoci la punta delle dita sopra.
Non è abituato ai baci che partono dai polpacci e salgono su, lenti, sulle cosce, sull'inguine, diventano insistenti sulla pancia e arrivano fino a sopra lo sterno.
Non ci è abituato e questo lo fa sussultare, quasi singhiozzare. Solo che non capisce quale sia il motivo.
Forse perché è bello.
Forse perché si sente in colpa.
Forse perché vorrebbe fosse capitato in quel modo con un'altra persona.
Forse tutte e tre le cose.
Quando riapre gli occhi, il viso di Andrea gli compare davanti. Non c'è molta luce in quella stanza, soltanto quella che proviene dal corridoio. I suoi lineamenti li scorge a stento.
«Stai bene?» lo sente sussurrare. Manda a fatica giù la saliva e annuisce.
Con una mano, Andrea gli sfiora una guancia, tracciando una linea immaginaria che parte dalla sua tempia e scende giù fino allo zigomo. «Se vuoi ci fermiamo» mormora «Stai tremando».
Simone si affretta a scuotere il capo. Abbozza un sorriso. «Non ci fermiamo» sussurra.
Ti prego, ti prego, ti prego.
Un briciolo, Andrea ancora tentenna. Si morde piano l'interno della guancia, poi «Okay» sibila «Okay». Lo bacia un'ultima volta, rapido. «Devo prendere delle cose di là, mh?» attesta. «Torno subito». Si stacca e si alza dal letto poco dopo. Ha solo indosso un paio di boxer neri quando abbandona la camera.
Simone rimane immobile. Il cuore gli sta battendo forte nel petto, lo percepisce martellare contro lo sterno. Fissa il soffitto di quella stanza, non pensa di esserci mai stato lì, ma quell'appartamento ha parecchi vani, per cui è persino plausibile.
Non c'è niente al di sopra di lui, solo un bianco anonimo interrotto da una fila di faretti spenti.
È strano pensare a come tutto sia calmo fuori, mentre dentro di sé prevale il devasto, la mancanza d'ordine.
Se lo chiede, se sta facendo la cosa giusta.
Una risposta, comunque, non riesce a trovarla.
Non fa neppure in tempo, dal momento che Andrea torna. Lo vede con in mano oggetti che riconosce con facilità: un tubetto di plastica e un quadrato di carta rifrangente dai bordi seghettati. È sufficiente quella come visione per farlo girare su sé stesso, finendo in posizione prona. È un'azione che gli viene spontanea.
A quello ci è abituato.
Andrea torna sul letto, in ginocchio, posa il lubrificante e il preservativo intatto sul materasso, sopra le coperte. Si abbassa un briciolo per depositare un bacio lieve sulla sua spalla e «Non così» sussurra ad un suo orecchio.
«E come?».
«Girati».
Simone ci impiega qualche secondo ad obbedire. Lo fa a scatti, muovendosi con fare incerto. Perché manco a quello è abituato, così come non lo è all'altro ragazzo che gli fa sollevare il bacino per porre un cuscino al di sotto per farlo stare più comodo, al modo in cui, in seguito, lo prepara con quel lubrificante all'aloe, lo bacia sulle labbra e riserva lievi carezze al proprio membro già turgido durante tutto il tempo.
Anche dopo è diverso, quando Andrea si sposta, rimuove l'ultimo pezzo di stoffa che ha addosso e si sistema sopra di lui. Scarta il profilattico e sistema il rivestimento in lattice sopra la propria erezione piena. Gli entra dentro con un movimento lento - estremamente lento - ed indugia per un istante, come a dargli l'occasione di abituarsi alla nuova intrusione.
Simone fa calare le palpebre. Sceglie di smettere di vedere, almeno per un po', e di sentire e basta.
Quella è la prima volta che fa sesso con un ragazzo che non sia Manuel.
Da quando ha realizzato di essere gay, da quando ha capito sé stesso, non è andato con nessuno che non fosse Manuel.
Ed è strano, ed è diverso.
Sono differenti gli affondi che Andrea compie, irregolari all'inizio, più decisi in seguito, ma al contempo delicati.
Agli antipodi il tocco che riceve, i baci, il guardarsi in faccia quando riapre gli occhi, mentre tutto succede, mentre gemiti sommessi riempiono l'aria della stanza.
È tutto diverso quella notte, con la neve fuori che scende in maniera più fitta dal cielo e comincia ad imbiancare le strade di Roma.
È tutto diverso anche nella testa di Simone dove il caos ha deciso di quietarsi, almeno per un po'.
**
«E invece lì, tutto bene?».
Manuel è seduto sul divano, a gambe incrociate, con il telefono ad un orecchio. Il salotto che sarà la sua stanza, perlomeno per quella notte, dato che ha ceduto la camera a Virginia.
Parla a voce bassa. Dall'altra parte dell'apparecchio, trilla la voce di Martina: «Sì, mia madre è già andata a dormire, pensa te» ride e fa una breve pausa, per poi riprendere «Hai fatto quella cosa, sì?».
«Seh».
«E...?».
«E tanto non serve».
«Damme retta, serve».
«Vabbè».
Il ragazzo, immerso in quella conversazione che gli fa mantenere lo sguardo basso, sulle proprie dita che giocherellano con un filo sfuggito ad una cucitura di un cuscino, nemmeno si accorge dell'ingresso nel luogo di Anita. Se la ritrova davanti e sobbalza quando la vede di fronte a sé.
«Ma che ce fai qua?» mima, senza emettere suono.
La madre strabuzza gli occhi e indica un pacco dalla forma rettangolare e abbastanza spesso che regge in mano. Ovvio, è lì per consegnare un regalo. In seguito, sorride e «È Martina?» domanda.
Manuel rotea gli occhi - l'amica sta continuando a parlargli all'orecchio, intanto. Annuisce.
«Oh - oh, me la fai salutà?».
«No».
«E daje - Martina?» Anita esclama e alza la voce, così da farsi sentire oltre la cornetta. «Martina, sono la mamma di Manuel, oh! Ciao!».
A Manuel sfugge una risata. In realtà, dopo la cena di Natale alquanto disastrosa, dopo aver visto Simone scappare e non rispondere a nessuna chiamata - immagina fin troppo bene dove sia andato - ridere gli fa persino bene.
Ridere insieme alle donne della sua vita, per di più.
Gli fanno pensare meno al proprio cuore che si è crepato.
«Okay, okay, t'oh!» si arrende, alla fine, e passa lo smartphone alla madre. La donna saltella sul posto, afferrando l'oggetto. In cambio, appoggia il pacchetto avvolto da una carta opaca e bordeaux sul cuscino del divano, sussurrando un «Poi aprilo».
Manuel non fa in tempo a controbattere, che Anita ha già abbandonato il salotto, portandosi dietro il cellulare. «Ma', il telefono!» si lamenta subito. «Ma'!».
Niente, non riesce a fermarla. Deduce che non rivedrà presto né la madre, né l'apparecchio, considerando che la loro conversazione durerà a lungo.
Ne è praticamente certo.
Rimane fermo per un breve istante. Fissa il regalo abbandonato a pochi centimetri di distanza. C'è pure un biglietto sopra. È la prima cosa che raccatta, rigirandolo tra le dita.
Si tratta di un cartoncino bianco, dentro ad una busta del medesimo colore. Lo estrae piano, per paura di romperlo - dato che la delicatezza non gli appartiene.
Vi è una scritta sopra, è la stessa che recita:
Per tutte le volte in cui avrai bisogno di parlare solo con te stesso.
Buon Natale, ti amo!!!
-la tua mamma
Un lieve sorriso gli compare sulle labbra e gli occhi gli si fanno lucidi. Stavolta, però, è per l'emozione. Tira su col naso e inizia a scartare il pacco, con un po' meno attenzione, per scoprire un album dalla copertina rigida e nera. Non vi sono altri graffiti sopra, ragion per cui lo apre, sfoglia quelle pagine ruvide al tatto; su di esse, sono state incollate foto di lui da piccolo, negli anni dell'asilo o delle elementari, da solo o insieme ad Anita.
Sono tutti scatti spontanei, gioiosi. Alcuni momenti li ricorda, altri no, ma non ha molta importanza.
Importa ben altro.
Importa che in ogni immagine si riconosce ed è bello pensare che è qualcosa che ha imparato a fare.
Di nuovo.
**
Ha un peso al petto che non riesce a scacciare, né a spiegare. Vorrebbe almeno fosse possibile una delle due cose, invece che mantenerle entrambe.
Simone è sgattaiolato via da casa di Andrea mentre quest'ultimo era avvolto nel sonno.
Non lo ha svegliato.
Si è limitato a rivestirsi e andare via in silenzio.
Una parte di lui lo ha convinto a rimanere, almeno un po'. Del resto, hanno già dormito insieme in precedenza, non gli sarebbe cambiato nulla - a parte il fatto che, stavolta, sarebbero stati nudi.
Ecco, forse è proprio quello il punto.
Quello lo ha fatto andare via.
Perché andarci a letto è stato bello.
Farci sesso è stato bello, ricevere tutte quelle attenzioni è stato bello.
Il motivo per cui lo ha fatto, tuttavia, rappresenta l'esatto contrario e adesso si sente a pezzi e devastato.
Quindi è stato meglio andare via, vagare per le strade di Roma che si sono imbiancate per un po' - un'ora in totale - e poi rientrare a casa.
Sono le 5:20 della mattina di Natale quando Simone varca la soglia della silenziosa villetta Balestra. Le luci del luogo sono spente. Non preme nessun interruttore, piuttosto striscia su per le scale, nell'oscurità più totale - e per questo non si accorge della presenza di Manuel addormentato sul divano.
Raggiunge la propria camera, vi entra e si chiude la porta alle spalle.
Può tirare un sospiro di sollievo soltanto ora, quando la luce la accende.
Immagina già le dirette conseguenze delle ultime azioni che ha compiuto, come i rimproveri che, di sicuro, riceverà da Dante, da Anita, persino dalla nonna per essere fuggito la sera della vigilia di Natale, senza fornire troppe spiegazioni.
Cerca di regolarizzare il proprio respiro per quanto risulti impossibile. Gli pare di esserci finito di nuovo in apnea.
Il fiato gli si smorza nuovamente pochi secondi dopo quando, nel proprio campo visivo rientra qualcosa di particolare, qualcosa che, di norma, non appartiene a quella stanza.
Difatti, nota un oggetto posto sul letto.
Deve compiere qualche passo, lento e incerto, per avvicinarsi e mettere di più a fuoco.
Ed è allora che, forse, di respirare smette proprio: sulle coperte grigie, spicca una chiavetta usb nera, racchiusa in un nastro verde; al di sotto, c'è anche un cartoncino dello stesso colore, che riporta una scritta in stampatello:
CRA CRA...
-M.
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