Bugie
Il cielo è sereno quella sera. Non c'è nemmeno una nuvola in cielo, ogni cosa appare nitida, cristallina, come il manto di stelle che li sovrasta, miriadi di costellazioni che paiono disegnate da qualche ente superiore, per dare loro qualche significato più grande, magico.
Simone non ci ha mai visto nulla di poetico nelle stelle: razionalmente parlando, scientificamente parlando, sa che quei disegni sono una casualità, che non sono qualche segno del destino, niente del genere.
Eppure un briciolo, specie nell'ultimo periodo, nelle stelle ci ha visto qualcosa che va al di là della pura visualizzare astronomica, oltre la razionalità.
Come se le stelle producessero in qualche modo della poesia.
O forse avere un appuntamento fisso con Manuel a guardarle a bordo piscina in fase di ristrutturazione ha cambiato un briciolo le proprie prospettive.
Assurdo, no?
Poco assurdo.
«Oh, ma ce pensi quanto só distanti 'ste robe che vediamo?».
Simone è distratto, per cui la voce dell'altro ragazzo gli arriva alle orecchie con leggero ritardo. Sbatte rapidamente le palpebre. È seduto sulla delimitazione di quella piscina vuota, ripulita dalle foglie autunnali che vi sono cadute dentro in precedenza, con le gambe a penzoloni. «Mh-m?» mugugna, perché la frase pronunciata non l'ha afferrata.
Manuel gli è seduto accanto, con una gamba allungata di fronte a sé e una piegata, su cui ha appoggiato su un braccio. Tra indice e medio della mano destra, regge una sigaretta - vabbè, dai, è una canna, senza girarci troppo attorno - che brucia e si consuma in maniera lenta. «Certo che te continui a vive nel mondo tuo, ah» è il primo commento che gli viene fuori. Sbuffa e guarda verso l'alto. «Stavo a parlà delle stelle» spiega.
«Parli sempre delle stelle».
«Eh - che non se può?».
Simone alza le mani, in cenno di finta resa, e gli sfugge una risata. «No, per carità» esclama. «Basta che non tiri fuori n'altra riflessione filosofica che poi me pari mio padre».
«Ma sta' zitto» borbotta Manuel, mentre porta il filtro alla bocca e aspira del fumo, lo stesso che rilascia e soffia fuori, verso l'alto. «Vuoi?» dice, in seguito, porgendo la canna ormai quasi finita all'altro ragazzo.
Simone scuote appena il capo. «No, sto a posto» replica.
Manuel gli riserva una fugace occhiata, con le palpebre appena socchiuse. «Boh, vedi che non ce crede più nessuno che non te piace».
«Continua a puzzare».
«Continui a puzzare te».
Simone accenna una risata, leggera e fiacca. Punta lo sguardo di fronte a sé, sul vuoto che ha davanti, frattanto che una lieve brezza gli lambisce le guance.
È sera inoltrata, del resto - dovrebbe essere quasi mezzanotte, circa.
«Ma só usciti?» chiede Manuel, d'un tratto, con quella canna in equilibrio tra le labbra, dalla quale aspira ancora e soffia ulteriore fumo.
«Chi?».
«No, dico—» insiste «Ce sta qualcuno in casa?».
Simone non capisce il senso di quella domanda, perlomeno non in un primo istante. Così aggrotta le sopracciglia e guarda verso la villetta dalle pareti gialle: non c'è movimento al suo interno, anche perché lo sa che Dante e Anita sono fuori quella sera e stanno pure facendo più tardi del solito.
«No» risponde «Perché me lo ch—» fa per dire, ma le proprie parole vengono bloccate, troncate sul nascere.
Quella frase non trova una vera realizzazione.
Lui trattiene il fiato.
Lo fa poiché Manuel si è sporto nella propria direzione e ora preme con forza a far collidere le loro labbra. È un bacio rude e, a tratti, violento.
Simone non sa manco come reagire o dove mettere le mani, tant'è che le tiene a mezz'aria, spalanca gli occhi e cerca di non perdere il controllo. Ma è più complicato del previsto poiché l'altro ragazzo gli posa un palmo sul collo, scivola con le dita fino alla nuca e in quel punto gli tira appena i capelli, mentre il mozzicone della canna ricade a terra.
È solo a tal punto che si costringe a fare qualcosa - poco, comunque, perché ha difficoltà a respirare e riesce soltanto a socchiudere le palpebre e appoggiare una mano sul petto dell'altro, stritolando un lembo della felpa tra le dita.
Manuel si distacca poco dopo. Mostra le labbra gonfie e arrossate a causa dell'impeto utilizzato, ha il fiatone.
I loro respiri si mescolano ancora per quanto sono vicini.
Simone vorrebbe dire qualcosa - qualsiasi cosa, di grazia - ma è completamente paralizzato dall'accaduto che non è in grado di farlo.
Manuel, invece, rimane serio - a tratti incredulo, come se l'ultimo suo gesto fosse stato comandato da un ente esterno, come se non fosse stato lui in controllo. Magari è così.
Magari è stato l'istinto.
Magari l'istinto, certe volte, c'ha pure ragione.
«Simó?» soffoca e si avvicina ancora di più, fa sfiorare le loro labbra - ma non troppo da far scaturire un ulteriore bacio. «Prometti che - de sta cosa poi non ne parliamo». Non suona come una domanda.
Non lo è.
In quel momento, Simone vorrebbe fare tutto, tranne che parlare. Perciò, si ritrova a scuotere la testa ripetutamente e manco fa in tempo ad emettere suono poiché i baci già ricominciano - desiderosi, smaniosi, impacciati pure, considerando che nessuno dei due sa dove mettere le mani, cosa fare, cosa è giusto fare.
Continua ad aggrapparsi alla sua felpa grigia, a tirare la stoffa per premersi l'altro più addosso - che ce ne fosse davvero bisogno, tra parentesi.
Manuel gli morde il labbro inferiore - forte, in realtà rischia persino di fargli male. Hanno ancora le bocche in contatto quando si alza e, come un magnete e la sua calamita, Simone gli va dietro. Quest'ultimo si lascia prendere per un braccio, si lascia letteralmente trascinare verso quella minuscola costruzione in legno nel grande giardino circondato da erba ingiallita.
C'è disordine dentro quel luogo, poiché anch'esso in fase di ristrutturazione - almeno così pare - ma a nessuno dei due importa molto cosa ci sia lì.
Che okay, potrebbero pure spostarsi in casa, sarebbero più comodi, in mezzo a sicuramente meno polvere e detriti, in un letto morbido e le lenzuola che profumano di lavanda, ma tant'è.
I detriti manco li vedono, per inciso.
Simone non li vede poiché i propri occhi catturano soltanto la figura di Manuel, che ora gli cinge i fianchi, infila un dito in un passante della cintura e lo strattona appena per averlo decisamente più attaccato. «M-Manuel?» riesce a biascicare, nei pochi secondi in cui può farlo, senza la sua bocca appiccicata addosso.
«Simò» replica Manuel, un briciolo stizzito. Si scosta di qualche centimetro, con una mano gli circonda il viso, lo blocca in una morsa da sotto il mento, poi scende, andandola a chiudere attorno al collo. «Non devi parlà».
Okay. Quella parte l'ha recepita forte e chiara, quindi tace. Annuisce di nuovo e tace.
Va bene così.
Manuel non gli concede il tempo di replicare, comunque: lo ammutolisce con un ulteriore bacio, con il quale lo spinge all'indietro fino a bloccarlo contro una delle pareti di legno; pare tutto instabile, dal momento che quelle mura sottili tremano e barcollano quando entrano in collisione con loro due.
Nemmeno questo importa, potrebbe crollare ogni cosa in quel momento.
Potrebbe crollare pure il cielo, potrebbero precipitare le stelle.
Di ciò, Simone ne è convinto, anche se la schiena un briciolo gli duole per il colpo; tuttavia, il dolore viene presto spazzato via dalle mani di Manuel che, in poco tempo, lo toccano ovunque, si intrufolano sotto la maglietta a solleticargli la pancia.
Pensa che potrebbe morirci per quel tocco.
Ed è peggio quando percepisce le sue labbra fiondarsi sul proprio collo, succhiare piano la porzione di pelle sull'incavo, mordicchiarla. Gli sfugge un sospiro, poi un gemito, un lieve grugnito quando l'altro preme un palmo aperto sull'ancora poco presente erezione che gli pulsa in mezzo alle gambe.
Lui ha paura persino a muoversi. Difatti, sono incerti i gesti che compie, come quello di sfiorare con le dita i suoi capelli ricci e castani, di scendere e accarezzare una guancia, dietro all'orecchio, socchiudere di più gli occhi e...
E poi non ha più materialmente tempo di fare nulla: Manuel si stacca con uno scatto, lo afferra per un braccio nell'esatto modo di poco prima, solo che stavolta gli fa compiere mezzo giro su sé stesso.
Simone quasi sbatte la faccia contro la parete di legno - questo riesce ad impedirlo mettendo le mani in avanti, le stesse che ora tiene appoggiare alla superficie ruvida, con le braccia piegate e i palmi all'altezza della testa.
Sente l'altro ragazzo trafficare con il bottone e la cerniera dei propri pantaloni, ragion per cui decide di aiutarlo - o meglio, agire al suo posto e slacciare ogni cosa. «Manuel?» sussurra e cerca di voltare il capo un briciolo, per poter scrutare il suo viso.
Non ha successo, dal momento che il compagno tiene la testa basta ed è sfuggente.
Si morde piano il labbro inferiore. «Non abbiamo...» fa per dire e tale affermazione potrebbe continuare in qualunque modo, se non fosse che Manuel la completa con: «Usiamo la saliva».
Ah.
Simone comprende come è stata intesa, un non abbiamo il lubrificante - che okay, può andare. E quindi «Cosa?» borbotta, anche se ha capito bene.
«La saliva» ribadisce Manuel. «Pure l'altra volta abbiamo fatto così, no?».
La risposta la sanno entrambi, per quanto potrebbero stare lì ad elencare le differenze tra adesso e l'altra volta.
«Seh» si limita a biascicare Simone. «Abbiamo fatto così».
Manuel non aggiunge qualcosa. In realtà, meno parlano, meglio è. Se alle orecchie gli arriva qualcos'altro, altre parole, frasi, se gli arriva la sua voce, potrebbe persino smettere d'essere razionale.
Perché adesso sei razionale?
Strizza le palpebre, mentre con uno scatto gli tira giù i jeans e il cotone dei boxer; con i polpastrelli sfiora con fare dapprima lieve, poi più rude il suo gluteo sinistro.
Simone sospira sommessamente.
La sola saliva non è ottimale, non sostituisce per nulla il lubrificante durante quella preparazione blanda e poco accurata, pertanto un po' gli provoca dolore - ma non è nulla in confronto all'altra volta. Piega in avanti il busto, mantenendo i palmi sulla parete e divarica appena le gambe per concedere alle dita dell'altro più spazio, nonostante l'attrito che incontrano e il bruciore che lui sente. Soffoca un gemito quando un solo dito gli viene spinto più a fondo e «Cazzo» mugugna.
Dura tutto poco più di una manciata di minuti, che paiono eccessivamente veloci tanto che Simone fatica a collocarli nel tempo, tanto che sobbalza al suono di un incarto che viene strappato.
Non percepisce più le sue dita dentro, per cui riesce a girarsi di solo qualche centimetro, giusto per vedere il compagno che regge tra indice e pollice un profilattico ancora arrotolato e pronto all'uso.
«E quello - dove ce l'avevi?» osa chiedere.
«N'er portafoglio».
«Chi tiene i preservativi nel portafoglio?».
«Tutti?». Manuel sbuffa e alza gli occhi al cielo. «N'avevamo detto che non se parlava?» sottolinea gli fa un cenno con la mano, agitandola leggermente per invitarlo a voltarsi di nuovo.
In silenzio, Simone gli obbedisce. Pianta gli incisivi nel labbro inferiore e in quel punto li mantiene, stringendo più forte, quando realizza che le dita dell'altro ragazzo gli stanno cingendo i fianchi, lo stanno guidando verso di lui, finché non si sente penetrare con leggera irruenza, troppo impeto.
Un urlo non riesce a trattenerlo, seguito da un lieve grugnito.
Manuel è ancora quasi del tutto vestito - lo sono entrambi, a dire il vero: hanno tirato giù i pantaloni e scostato i boxer quel che basta.
Si sospinge in avanti, fa aderire il petto ricoperto dalla felpa alla schiena del compagno. Continua a mantenere le mani sui suoi fianchi, in una stretta decisa e salda, frattanto che incalza con spinte col bacino che si fanno più intense, che gli fanno formicolare il basso ventre. Appoggia la bocca sulla spalla dell'altro ragazzo, ci fa morire un gemito sommesso sopra.
Simone si ritrova a grattare con le unghie sulla superficie di legno, cerca quasi di aggrapparsi ad essa e...
Simone apre gli occhi di scatto e quasi non vorrebbe.
Le stelle sono cadute.
Le immagini che gli sono delineate nella mente sono fin troppo vivide - perché non è un sogno, lo sa bene: è un ricordo e, forse, quella è la parte peggiore, la parte che fa più male.
Paiono frammenti che appartengono ad un'altra vita.
Un po', in fondo, è davvero così.
Anche se è passato relativamente poco dal - devasto più totale, si può dire?
Si può dire.
Ed ecco che nel giro di poco più di un mese ha cambiato abitudini, conoscenze, modo di fare.
Ed ecco che quella mattina si sveglia in un letto che non è suo, in una casa che non è sua, ma conosce fin troppo bene.
La stanza è immersa nell'oscurità: l'unico filo di luce proviene da sotto l'anta della porta, ma è flebile e poco visibile.
Simone allunga una mano, a tastare il lato destro del materasso ad una piazza e mezza; lo trova vuoto e si lascia andare ad un lungo sospiro. In seguito, striscia dalla parte opposta del letto, soltanto per poter essere in grado di recuperare il cellulare posizionato con lo schermo sopra la superficie piana del comodino di legno laccato e nero. Preme col pollice il tasto laterale e strizza le palpebre a causa della luminosità che scaturisce dall'apparecchio.
Sono le 08:15 del mattino, non è troppo presto, ma nemmeno tardi.
Gli pare un ottimo orario per svegliarsi l'ultimo giorno di vacanza.
Ha delle notifiche che appaiono, tra Instagram, WhatsApp e persino Twitter, che ha riscoperto di recente. Non ne apre nemmeno una, comunque, e rimette il telefono là dove lo ha trovato.
È quest'ultimo gesto che coincide con la porta che viene aperta con un lieve cigolio e la luce del corridoio fa irruzione nella camera.
Simone solleva il busto, reggendosi sui gomiti e tenendo entrambe le braccia piegate; mantiene le gambe allungate in avanti e inclina di poco il capo su di un lato.
«Ti ho svegliato?» Andrea lo chiede in un sussurro frattanto che sale lentamente sul materasso, mettendosi seduto.
Simone scuote la testa in cenno di diniego e «Mh-m no» mormora «Ero già sveglio».
«Sì?».
«Sì».
Andrea accenna un sorriso. È spento, non brilla del suo solito entusiasmo o sfacciataggine, però si sta sforzando di non renderlo troppo palese. Si sporge nella direzione dell'altro ragazzo, per depositare un fugace bacio sulla sua bocca. Quando si stacca, rimane abbastanza vicino per poter sfiorare la punta del suo naso con la propria. «Grazie per essere rimasto in questi giorni» sussurra.
Un sorriso più sincero si delinea sulle labbra di Simone. «Serviva per sopportare meglio la presenza di tuo padre, no?» biascica, con la voce ancora impastata dal sonno. «È ancora qua?».
«È uscito presto stamattina».
«Poi me lo vuoi dire perché ti manda così in crisi che sia qui?».
Una risposta non arriva per davvero. C'è un leggero cenno di assenso col capo da parte del compagno, ma nulla di più - qualcosa che vuol dire tutto e niente, qualcosa tipo magari, un giorno.
Ma Simone, quello, lo comprende. Ci sono tante cose che, alla fine, neppure lui gli ha mai detto - particolari che cela persino a sé stesso, del resto, quindi sì, lo capisce. Così, si limita ad accennare un secondo sorriso e «Quando ti va» esclama «Tanto io sto qua».
«Lo so» Andrea lo dice con tono rauco. L'argomento della conversazione è difficile da affrontare, è forse fin troppo complicato. È riuscito a sviarlo e raggirarlo con sapienza in quell'ultima settimana e lo fa anche questa volta, annientando ogni possibile nuova frase in un bacio, più lungo e con più impeto rispetto a quello dato in precedenza. «Mica devi andare subito, mh?» biascica, con le loro bocche ancora in contatto e portando una mano su di un lato del suo viso.
«Dove dovrei andare?».
«Non lo so - magari da Leo e i suoi sei gatti».
A Simone sfugge una risata. Fa cenno di no con la testa e «Non devo andare da nessuna parte» afferma.
Quella risposta è sufficiente per Andrea, gli basta per poter riprendere a baciarlo, per sdraiarsi dapprima sul materasso, poi sopra al corpo dell'altro ragazzo, toccandosi e accarezzandosi in quei gesti mattutini che stanno pian piano divenendo abitudine.
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Il pugno chiuso che sta battendo su l'anta di quella porta blindata sta iniziando a fargli male - un po' è per la troppa forza utilizzata, un po' perché lo sta facendo almeno da un quarto d'ora.
«Marti? Lo so che ce stai, ho visto la tua macchina qua sotto» esclama Manuel. È almeno la decima volta che ripete la stessa cosa, tra parentesi. È bloccato su quel pianerottolo, con le mattonelle del pavimento marroni e scheggiate e le pareti verde petrolio che stonano incredibilmente con tutti gli altri dettagli del palazzo.
Ha la netta sensazione che qualcuno dei vicini presto possa uscire di casa e insultarlo: avrebbero ragione, considerando che sono le 08:15 del mattino.
Non gli importerebbe molto, comunque. Continua a battere il pugno sul legno massiccio, mentre con l'altra mano regge un sacchetto bianco di carta.
«T'ho portato pure i cornetti» aggiunge «Só co' la crema pe' te, io ho preso il pistacchio. Me apri?». Ancora niente. E allora «Martì, posso pure sfondà la porta, eh! Vedi che ce riesco e p—».
Non c'è bisogno di sfondare la porta. È la stessa che si apre lentamente.
Martina appare sulla soglia, con i capelli scuri scompigliati e fuori dalla solita piega perfetta che hanno sempre, con una vestaglia di simil seta color carta da zucchero che si stringe addosso. «La vuoi smette?» borbotta, stizzita. «Svegli tutto er palazzo».
«Almeno m'hai aperto, no?» è la replica tempestiva di Manuel. Solleva la busta bianca che regge in mano, per fargliela notare. «Me fai entrà?».
La ragazza sospira sommessamente e appoggia una spalla allo stipite. Incrocia le braccia al metto. «Só tornata stanotte alle tre e mezza» spiega «Só stanca e ho bisogno de dormì».
«Perché sei tornata alle tre e mezza?».
«Stavo da mi madre e non só affari tuoi».
«Ma tua madre abita a ottanta chilometri da qui».
«T'ho detto che non só affari tuoi, no?».
A quel comportamento da parte dell'amica, Manuel non ci è abituato. Da quando la conosce, è sempre stata buona, gentile, pronta ad aiutarlo in tutto.
È sempre sorprendente come le persone possano cambiare da un giorno all'altro senza un motivo apparente - magari per una stupida incomprensione, per mancata comunicazione, per voci di corridoio ritenute vere.
Sono sempre sorprendenti, le persone.
«Vabbè» conclude il ragazzo, mordendosi piano il labbro inferiore. «Almeno i cornetti li vuoi? Possiamo - boh, mangiarli insieme. Manco me devi dì niente, davvero. Li mangiamo in silenzio».
«Non ho fame» taglia corto Martina e già compie mezzo passo indietro. «Vai a casa, Manu. Ci sentiamo».
A tal punto, Manuel vorrebbe fermarla - fare o dire qualcosa, ma ciò non gli è concesso; gli viene impedito da quella porta blindata che torna a chiudersi davanti a sé e lui si ritrova ancora una volta solo, su quel pianerottolo dove d'improvviso è calato il silenzio.
**
Le bugie, le menzogne, quelle che tanti si ostinano a dire di non farne uso, esistono per un motivo. Non sempre sono la causa di cose cattive, di eventi catastrofici, anzi, molto spesso sono utili ad evitarli. Dicendo sempre e incondizionatamente la verità, si rischia solamente di avvicinarsi sempre di più ad una fine tragica.
È la nostra vita, la nostra esistenza da umani che si basa, per forza, su una fitta rete di bugie, quelle così dette a fin di bene.
Immaginate un mondo composto da persone che dicono solamente la verità: non ci sarebbe più pace. Perché la verità molto spesso ferisce, lascia una cicatrice indelebile sulla pelle e sul cuore, che solo un'ulteriore bugia può risanare.
Ed è di un migliaio di bugie che Manuel si sta ricoprendo, tutte riservate a sé stesso, mentre si ripete che sta bene, che certe cose non gli danno assolutamente fastidio, che vedere Simone insieme a qualcun altro non gli faccia venir voglia di urlare fino a perder fiato per l'esasperazione.
Dato che ormai lo ha ammesso che è geloso, che ribolle di gelosia ogni volta, di rabbia e furia.
Eppure continua a mentire e dire che non è niente.
È un meccanismo di difesa.
Se dicesse la verità, verrebbe fuori che vorrebbe prendere a pugni Andrea, gridargli di farsi da parte o che altro.
Sarebbe tragico, fuori luogo, forse.
Forse la gelosia ti rende insano sotto ogni punto di vista.
Manuel si leva il casco con un gesto fluido, mentre scende da quel motorino dalla carrozzeria bianca che, ultimamente, sta utilizzando soltanto lui - perché Simone ha altri mezzi.
Solleva la sella, per poter riporre l'oggetto nell'apposito scomparto.
C'è già troppo movimento davanti l'ingresso del liceo Da Vinci, in quel primo giorno di rientro dalle vacanze di Natale - che lui avrebbe evitato molto volentieri, considerati i risvolti. Sospira sommessamente. Non sa se è pronto a tornare in classe: la sua tolleranza è molto elevata, le voci sono diminuite, così come le risate in sottofondo quando cammina per i corridoi.
Ciò nonostante, qualcosa di differente è giunto a rendergli la vita impossibile.
Lo vede in quel momento, quando solleva lo sguardo e un ciuffo di capelli gli ricade sulla fronte.
Che poi sarebbe stato meglio entrare a scuola, sedersi al primo banco e ignorare tutto il resto.
Invece eccolo lì, fermo, in piedi di fianco alla moto, frattanto che una Mini gialla viene parcheggiata poco distante, sulla stradina alla destra del portone dell'edificio.
Che visione.
Manuel rotea preventivamente gli occhi e fa bene, considerando che dal veicolo ne esce dapprima Andrea, che porta gli occhiali da sole, una montatura nera e spessa con le lenti ambrate - e lui pensa che di sole ce n'è poco e poteva pure evitare; subito dopo, la portiera dal lato passeggero viene aperta e Simone sbuca con un sorriso troppo evidente stampato in faccia, i ricci in disordine e la giacca nera lasciata con la cerniera aperta, mostrando un maglione blu al di sotto e il colletto della camicia bianca.
La parte che più lo ferisce, comunque, rimane il suo sorriso.
Manuel abbassa lo sguardo.
Pensa se non vedo, non esiste.
Ed è l'ennesima bugia che si getta addosso. Perché tanto lo sa cosa succede pur non vedendolo: la scena della sera di capodanno ce l'ha ancora ben impressa in mente, con inchiostro indelebile.
Per cui strizza le palpebre, si fissa le dita che ha preso a torturare con fare nervoso, conta i secondi che passano.
Uno, due...
Fino a trenta.
Trentuno.
Trentadue.
«Manuel?».
La voce di Simone gli trilla nelle orecchie ed è decisamente vicina. Difatti, gli basta sollevare la testa per ritrovarselo davanti, con le braccia rilassate lungo i fianchi.
Per fortuna, da solo.
Manuel cerca di evitare il suo sguardo, è scostante. Tenta di essere incurante e disinteressato. «Che voi, Simó?» borbotta e finge di aggiustare le bretelle dello zaino o comunque di tenere le mani impegnate in qualche modo - pur di non fissare il suo volto.
Simone tentenna. Lancia un'occhiata intorno: Andrea è già entrato a scuola, gli ha suggerito lui di farlo, che si sarebbero rivisti direttamente in classe. «Niente» esclama. «Stai bene?».
A Manuel sfugge una risata, sull'orlo dell'isterismo. «Me prendi in giro?» replica, secco. Gli scivola via il concetto di dire che sta bene e mentire, per un breve istante. Si convince persino a sollevare gli occhi e, inevitabilmente, incrociare i suoi.
Simone scrolla le spalle e «Era solo una domanda» sussurra.
«E che domanda del cazzo» Manuel sbotta e allarga le braccia con fare plateale. «Senti, non devi tornà dal ragazzetto tuo?» insiste «Sia mai che annate in crisi d'astinenza».
Quell'affermazione colpisce Simone come una palla di cannone in pieno stomaco. Perché pensava che avessero chiarito qualche sera fa, durante quei trenta secondi - che trenta non sono stati.
Evidentemente si è sbagliato.
Evidentemente sbaglia molte cose, in generale.
«Vabbè» taglia corto, non ha voglia di discutere. Compie mezzo passo indietro, poi si volta e si allontana di fretta.
Manuel segue la sua figura fino a quando non oltrepassa il portone dell'edificio scolastico.
Un briciolo si pente pure di ciò che gli è uscito di bocca.
Un briciolo no.
Si morde piano l'interno della guancia. Tira fuori il telefono dalla tasca posteriore dei jeans strappati che ha addosso. Tocca lo schermo con il pollice.
Nessuna nuova notifica.
**
«Comunque secondo me non stanno bene insieme».
Matteo pronuncia quella frase con la bocca piena di un biscotto con le gocce di cioccolato che ha ingurgitato intero. Ha ancora un livido attorno al naso, ma i bordi sono sfumati e il colore tende al giallognolo, segno che sta guarendo.
È l'intervallo, dopo due ore di lezione di fisica che sono parse eterne.
Il ragazzo è seduto su uno dei banchi della classe, appoggiando i piedi sul bordo di una sedia di legno. Chicca gli è accanto, mantiene lei la scatola dei biscotti, dall'incarto blu metalizzato. «Ma chi?» domanda, abbozzando una flebile risata.
«Come chi?» replica Matteo, buttando giù il boccone. Sbatte la mani sulle proprie cosce, per ripulirsi dalle briciole. «La coppietta der secolo là fuori».
Manuel è rimasto seduto al primo banco. Osserva i due amici, reggendosi la testa con una mano e il braccio piegato sulla superficie piana. Aggrotta le sopracciglia all'ultima frase del compagno di classe e quasi lo ringrazia mentalmente per non aver pronunciato i loro nomi - perché non c'è bisogno di specificare a chi si riferisca.
«Cioè, te sto a dì - 'Na coppia, no?» cerca di spiegare Matteo e prende a gesticolare «Pe' esse definita 'na bella coppia deve esse visivamente bella secondo me, correggimi se sbajo, eh» e indica l'altro ragazzo. «Loro due só male assortiti, non me dicono niente».
«Da quanno te perdi in 'ste analisi te?» lo rimbecca Chicca e abbozza una risata.
«Da sempre» attesta Matteo. «Cioè, converrai pure te che visivamente só più belli loro, Simone co' Manuel».
Manuel lo comprende che quello è un modo contorto dell'amico per tirarlo su di morale. Lo capisce, poiché le sere che sono usciti insieme ha fatto più o meno la stessa cosa e, da un lato, lo apprezza pure. Quantomeno lo fa ridere e lo distrae.
Ed è assurdo pensare che la cosa nasca da Matteo, come lo stesso stia passando dal compagno di classe antipatico e ignorante, ad essere quasi un amico e confidente.
Quasi.
«Ma non eri tu che m'hai detto che non riuscivi manco a immaginarlo?» puntualizza.
«Seh, vabbè» replica Matteo «Se possono dì le stronzate, no?».
«Te ne dici parecchie, Matté» scherza Chicca. Ride, ma è un gesto che affievolisce presto, quando lo sguardo gli ricade su Manuel e la sua aria affranta.
Muove qualche passo, tanto la distanza che li separa è poca. «Vuoi?» dice, piano, porgendogli il pacchetto di biscotti.
Manuel scuote appena la testa, in cenno di diniego. «No, grazie» sussurra e tiene gli occhi bassi, a fissare la superficie graffiata del banco verde.
Chicca non accetta quel velato rifiuto, per cui un biscotto lo tira fuori lo stesso, reggendolo tra pollice e indice: non è intero, è leggermente sbriciolato e rotto sui bordi. Abbozza un sorriso, mentre glielo porge e attende che l'amico lo afferri.
Manuel corruccia le labbra in una smorfia. Capisce la sua insistenza soltanto dall'occhiata implorante che gli sta rivolgendo, quindi quel biscotto lo prende. Non lo mette in bocca, lo mantiene soltanto tra le dita.
«Prima o poi, passa» sussurra la ragazza, con voce flebile.
«Cosa?».
«Il dolore» soffia. «E il vuoto al petto che senti. Passa sempre».
All'udire quella frase, una parte di Manuel vorrebbe ridere - con isterismo, molto probabilmente. Tuttavia, rimane in silenzio. Riesce solo a curvare la labbra in una piega malinconica. «Non ho nessun vuoto al petto».
Bugia.
«Okay» Chicca un po' lo accorda. «Ricordati solo di questo. Che poi passa».
«A te é passato?» la domanda sfugge a Manuel senza controllo. La pronuncia piano, come se non volesse farla sentire in giro, ma è pressoché impossibile considerando il chiacchiericcio che riempie l'aula in cui si trovano e quello proveniente dal corridoio.
Chicca richiude con gesti delicati e attenti la confezione di biscotti, come meglio può per non farci passare l'aria. «Sta passando» attesta, alla fine, e il suono della campanella sopraggiunge dopo quell'ultima parola. Rivolge un ultimo sorriso all'amico, che vuole essere quanto più rassicurante possibile. In seguito, la scatola chiusa la posa sul suo banco, frattanto che torna a sedersi al proprio, seguita da Matteo.
Manuel osserva la carta blu del pacchetto che gli è rimasto davanti, insieme al biscotto mezzo rotto che regge ancora tra le dita.
Un po' ci si sente come quel biscotto, coi bordi frastagliati, imperfetto, a pezzi, pronto a sgretolarsi.
Sicuramente si sgretola quando, in maniera distratta, nota Simone rientrare in classe per la lezione successiva - ovviamente con Andrea accanto, ovviamente con qualche contatto fisico tra di loro che sembra non mancare mai, come una mano sulla spalla o sul fianco.
Pensa a quanto abbia evitato quella cosa in passato, di come ne abbiano persino discusso e come sia strano è paradossale il fatto che adesso lo desideri, forse fin troppo.
Del resto, ci si accorge di aver avuto qualcosa di importante soltanto dopo averla persa.
In modo inconscio, o meno, il proprio sguardo diviene truce - una sorta di maschera, di altro meccanismo di difesa che adotta in quel momento; è la stessa occhiata fulminante che rivolge dapprima ad Andrea, poi a Simone. Quest'ultimo gli passa accanto, nota quel gesto e scuote appena il capo, incredulo, per poi raggiungere i banchi in fondo all'aula.
**
Quella prima giornata di scuola è paragonabile all'inferno - letteralmente.
Sapeva sarebbe stata dura, ma non così tanto.
Di tornare a casa, Manuel ha il terrore, per cui tergiversa per quasi tutto il pomeriggio, in giro con la moto senza una meta, ogni tanto controllando il telefono dove appaiono nulle notifiche, eccetto qualche messaggio di Anita, la quale si preoccupa di rassicurare che sta bene ed è tutto intero.
Una parte è una bugia, l'altra no.
La botta presa nell'incidente gli fa meno male, ogni tanto gli causa una fitta di dolore, ma è decisamente più sopportabile. Il livido sotto l'occhio è ancora presente, però meno gonfio ed evidente rispetto ai giorni scorsi.
Che poi, di quella collisione ricorda poco.
Rimembra che era ubriaco, triste, poi arrabbiato, di aver cominciato ad alzare la voce per nessun motivo apparente.
Ricorda pure di aver toccato il volante con noncuranza, di aver creato lui lo sbandamento che li ha fatti finire fuori strada.
Certo, non l'ha fatto di proposito: non avrebbe mai messo in pericolo la vita di Martina, nemmeno da non lucido.
Per questo, comunque, ha chiesto scusa mille volte, pure al pronto soccorso dove si sono recati per sicurezza - dove hanno perso principalmente tempo poiché li hanno liquidati con una lastra frettolosa e degli antidolorifici, ma tant'è.
Eppure, da quel momento in poi ogni cosa pare rotta.
Come il biscotto, come lui.
Sistema la moto al solito posto, nel minuscolo garage di villetta Balestra. Mantiene le chiavi in mano, facendole oscillare dall'anello di metallo incastrato sul dito indice. Tiene lo sguardo basso, mentre si avvia verso l'ingresso di casa. È sotto al portico che si ferma, quando nota qualcuno lì ad aspettarlo.
Martina siede sulla panca di legno che si trova a ridosso della parete giallognola. Tiene in mano un sacchetto di carta bianco, che agita appena quando scatta in piedi all'arrivo dell'amico. Indossa un cappotto nero è bombato. «Oh, ce l'hai fatta a tornà» esclama. «È un'ora che t'aspetto».
Manuel vorrebbe sorridere alla visione dell'amica - soprattutto al sentire la sua voce che non ripete le solite risposte a monosillabi. Tuttavia, la propria espressione non cambia, rimane seria e «Che ce fai qua?» domanda. È fermo, in piedi, a pochi metri da lei.
Martina sospira sommessamente. «T'ho portato questo» replica. «Cornetto al pistacchio?».
Al ragazzo sfugge una mezza risata. «É più ora pe' l'aperitivo questa» fa presente.
«Mh - forse è meglio che tu non lo tocchi pe' un po' l'alcol».
«Sul serio, Martì - che ce fai qua?».
Martina scrolla le spalle e posa il sacchetto pieno sulla panca di legno dietro di lei. «Me mancava il mio migliore amico» spiega, sintetica.
«Ma se è più d'una settimana che me eviti» è il commento che ottiene.
È la verità, questo lo sa, ne è perfettamente consapevole, ragion per cui per mezzo secondo abbassa lo sguardo. In seguito, compie mezzo passo nella sua direzione. Il tacco dei suoi stivali batte sul legno del pavimento del portico e riecheggia nell'aria. «Lo so» ammette. «Strano, ma vero - c'ho pure io i momenti no».
«L'ho notato». Manuel infila le chiavi nella tasca della giacca - la solita, quella troppo leggera per l'inverno. Allarga di poco le braccia. «Me vuoi dì che è successo?».
Martina esita. Schiocca la lingua sul palato. La sua espressione risulta strana, cupa - non tipica, non da lei.
Lei, che è sempre la ragazza solare che sdrammatizza ogni cosa, che fa ironia in ogni circostanza.
Quando una persona solare si spegne d'improvviso fa sempre uno strano effetto.
«È complicato» sussurra.
«Ma c'hai presente con chi stai parlando?».
Touché.
Ha molto presente. «È solo che- non me va de parlà tanto di 'sta storia. Me mette tristezza e odio esse triste». Tira su col naso e accenna un sorriso, che cozza con i suoi occhi che si son fatti appena lucidi.
Manuel resta in silenzio - per tutte le volte in cui, in fondo, è stata lei a farlo, ad ascoltarlo sfogarsi e basta su drammi che paiono persino ridicoli adesso.
Martina coglie quel silenzio come una occasione. Si morde piano il labbro inferiore. «Ti ho detto che mio padre è morto quando ero piccola, ma mai come» racconta.
Il ragazzo annuisce. Si ricorda di quella confessione, fatta pochi mesi dopo essersi incontrati: una conversazione uscita per caso, dove lui ha raccontato di non averlo mai conosciuto il proprio padre e che nemmeno ci tiene a farlo e lei ha tagliato corto, affermando che il suo non c'era più da qualche anno. Ma poi il discorso non è mai più stato toccato.
«Ha avuto un incidente con la macchina» riprende Martina «Storia tragica, diversi traumi infantili, ma - il punto non è questo. Il punto non só io. La sera di capodanno, quando siamo finiti fuori strada, io...» fa una breve pausa, respirando a fondo, come se ciò le servisse a mantenere il controllo.
Un po' è così. «Non c'ho mica avuto paura de morì» riprende «Ma de una cosa sì: che se me fosse successo qualcosa, mia madre avrebbe dovuto affrontare tutto da capo e non se lo merita, capì? Non se merita de rivive tutto quel dolore». Fa una breve pausa e scuote il capo. «È una cosa mia questa» va avanti «Quella di - non volere che gli altri stiano male pe' colpa mia perché so che se prova ed è terribile. Ed è per questo che a volte te prenderei a cazzotti perché ti voglio un bene dell'anima, ma tu non ce pensi che se te succede qualcosa, io ci starei di merda. E quella sera só andata in crisi perché pensavo a mi madre, a te e alla tua costola incrinata, che t'eri fatto male e te poteva annà peggio. Ed è stato semplicemente - troppo».
Dall'altra parte, Manuel il respiro l'ha persino trattenuto. Ora, se è possibile, si sente addirittura peggio e in colpa per ciò che ha involontariamente provocato. Tutto ciò che gli esce di bocca é uno stentato «Me dispiace» che gli gratta la gola.
Martina si passa una mano sul viso. L'eyeliner che gli incornicia gli occhi si è un briciolo sbavato, insieme al mascara. «E de che» borbotta. «Mica lo sapevi, non - non tutto quanto». Gli sfugge una risata, un briciolo isterica. «Te prenderei a capocciate lo stesso pe' le stronzate che fai».
Adesso, il sorriso fa capolino sul volto di Manuel, in modo del tutto sincero, tanto che arriva fino ai suoi occhi. Si sente sollevato, seppur di poco, per quanto sa bene che il senso di colpa per quella sera faticherà ad andar via. Inclina di mezzo centimetro il capo su di un lato e «Te posso abbraccià?» sussurra.
«Sò io quella che deve chiede, de solito».
«E vabbè, stavolta chiedo io». Allarga le braccia, rimanendo fermo, in una muta richiesta per un gesto che molto spesso non gli appartiene.
Che quasi mai gli appartiene, dato che glielo devono chiedere gli altri prima di farlo.
Martina ride e gli si avvicina nell'immediato: lo stringe a sé, posando i palmi sulla sua schiena e il mento sulla sua spalla. Lascia che il ragazzo faccia lo stesso, che ci sia quell'abbraccio pieno d'affetto tra loro, forse uno dei più puri che si siano mai scambiati.
Forse perché quando ci si parla e ci si chiarisce, ci si sente addosso più amore, più libertà.
Ci si sente più capiti.
E si capisce un po' meglio sé stessi.
«Marti?» biascica Manuel, con il viso affondato tra i suoi capelli scuri.
«Mh-m?».
«Te vojo bene».
«Abbiamo dovuto rischià de ammazzarce pe' fartelo dì pe' la prima volta, te rendi conto?».
«C'ho i miei tempi».
Martina rotea gli occhi, ma non è infastidita, piuttosto, è intenerita, è fiera, è orgogliosa di quel ragazzo e di tutti quei piccoli passi che sta compiendo nella vita.
Che le sembra di aver conosciuto una persona differente poco più di un anno prima.
E glielo direbbe, sta per farlo, se non fosse che il proprio sguardo viene rivolto altrove e ciò basta per notare che non sono più soli in quel luogo. Si affretta, dunque, a distaccarsi e cercare di lanciare qualsivoglia segnale all'amico, per attirare la sua attenzione.
Tuttavia, Manuel ci impiega una manciata di secondi a comprendere. Aggrotta le sopracciglia, perplesso, mentre ancora mantiene una mano sul fianco della ragazza. Successivamente, si volta.
Ed è in quel momento che desidera di non averlo fatto.
Perché davanti, a pochi metri di distanza, oltre il basso gradino del portico, c'è Simone - che ancora una volta non è solo.
Che stavolta è addirittura peggio, dal momento che Andrea lo tiene per mano, le loro dita sono intrecciate ed è l'ennesima cosa che deve fingere gli stia bene.
L'ennesima volta in cui deve fingere di stare bene.
Le sensazioni che lo pervadono, come quel vuoto al petto che ha, Martina le coglie al volo. Lancia un'occhiata nella sua direzione, dopo ai due nuovi arrivati e «Ehi!» esclama, con tono di voce squillante. «Simone, giusto? Manuel mi ha parlato di te».
Simone ha una strana espressione dipinta in faccia. Osserva Manuel per un breve istante e pare quasi deluso, a tratti stanco. Serra la mandibola. «Seh» borbotta. «Sono io».
La ragazza cerca di non far caso alla pesante tensione che ha cominciato ad aleggiare sul posto e quindi «Io sono Martina» si presenta e si distacca in via definitiva dall'amico. Compie mezzo passo nella direzione dei due altri ragazzi e porge loro la mano. «Piacere».
Simone non reagisce, non subito. Sembra essere addirittura in una differente dimensione.
Lo è anche Manuel, del resto, mentre i loro occhi si incrociano e si legano.
Come una calamita e il suo magnete.
Però si vedono, ma non si guardano.
Andrea, invece, un sorriso lo abbozza. «Uhm - Andrea, piacere mio» replica e stringe la presa con gentilezza. Simone ci impiega di più a fare lo stesso - ma risulta più obbligato per non sembrare scorbutico, dal momento che la freddezza permane, sul suo viso e nella sua voce. Sbatte rapido le palpebre. Di certo non vuole che quella situazione imbarazzante e a tratti dolorosa si propaghi troppo nel tempo.
Difatti, sono sufficienti pochi secondi affinché rivolga lo sguardo ad Andrea e piano gli suggerisca: «Andiamo di sopra?».
Manuel abbassa il capo a sentir pronunciare tale frase. Trattiene uno sbuffo, un risolino isterico. Non si premura neppure di seguire le loro figure quando si muovono e lo sorpassano. Ignora lo stizzito «Buon proseguimento» che proviene come una sentenza dalla bocca di Simone e il «Piacere di avervi conosciuto» che sopraggiunge da quella di Martina.
Realizza che sono ormai lontani quando sente la porta d'ingresso della casa sbattere.
«Tutto okay?» l'amica gli domanda, nell'attimo in cui tornano ad essere soli.
«Alla grande» replica Manuel e ora la risata gli scappa e si spezza subito, frattanto che sbatte rapidamente le palpebre poiché gli occhi gli pizzicano. «Non trovi?».
«Te l'ho detto che sei più caruccio te de quello».
«Seh, grazie tante».
Di nuovo, Martina cerca di sdrammatizzare. Torna ad essere lei per quel breve istante. Posa una mano sulla sua spalla. «Vedi che lo riprendiamo» dice. «A Simone, intendo».
Il ragazzo solleva la testa e corruccia le labbra in una smorfia. «È 'n lavoro de squadra mò?» ribatte e un po' gli pare pure assurda una cosa del genere, come se la propria vita si fosse trasformata in una commedia dai risvolti tragici.
Del resto, prima le complicazioni - almeno a livello relazionale - sono state minori, se non nulle.
Sono arrivate tutte con Simone.
Simone che la vita gliel'ha ribaltata, scombussolata, rivoluzionata.
Simone che ha creato un enigma del quale non ha ancora trovato la soluzione.
«Sempre» attesta Martina, fiduciosa.«Te fidi?».
«Mica tanto». Quella risposta gli costa un colpetto assestato sul braccio, ma va bene, non gli fa neppure male.
Per ora, va bene così: ha di nuovo al proprio fianco Martina e adesso è più convinto di essere in grado di affrontare qualunque cosa.
**
Manuel passa il resto del pomeriggio chiuso in stanza, dopo aver implorato Martina di restare, ma senza successo - che le pareti di quella casa sono sottili, lo sa bene, quindi le loro risate le ha sentite tutte, anche se ad un certo punto ha infilato le cuffie nelle orecchie per smettere di farlo.
È quasi ora di cena quando ogni suono risulta sparito e può tirare un sospiro di sollievo.
Sgattaiola fuori dalla propria stanza, nel corridoio poco illuminato. Le voci di Anita e Dante riecheggiano dal piano inferiore.
Si muove a passo lento. Inevitabilmente, il suo cammino lo fa passare davanti alla stanza di Simone.
Inevitabilmente, di fronte a quella porta aperta si ferma.
Indugia.
La luce è accesa all'interno della stanza: Simone è dentro, seduto alla scrivania con il computer portatile davanti e un quaderno aperto; regge una penna nera tra le dita, la stessa che tamburella sui fogli.
Manuel incrocia le braccia al petto e si ferma sulla soglia. Appoggia una spalla allo stipite. «Ao, n'è rimasto pe' cena?» esclama. «Je preparavamo che so, un sei portate, tanto pe' gradire».
Alla pronuncia di tale frase, Simone non si volta, non nell'immediato: rimane con lo sguardo fisso sui fogli scarabocchiati che ha davanti, sull'app di Spotify aperta sullo schermo del pc. Mette giù la penna soltanto dopo qualche secondo. Scuote il capo e trattiene una mezza risata. Soltanto allora, si gira nella direzione dell'altro. «La finisci?».
«De fa che?».
«Sai benissimo cosa».
Sì, Manuel lo sa.
Purtroppo, lo sa. Si morde piano il labbro inferiore, scioglie l'intreccio delle braccia e osa compiere qualche passo distratto all'interno della stanza. Si ferma quando meno di un metro di distanza rimane a separarli. «Non lo so» mente. «Che ho fatto?».
Simone non si muove, rimane inchiodato alla sedia girevole davanti alla scrivania. «Ah, boh - tipo tutte le occhiate di oggi in classe, fuori all'uscita, prima all'ingresso» tenta di spiegare.
Manuel aggrotta le sopracciglia - non si sbagliava. Gli sfugge una mezza risata. «Gli occhi sò fatti pe' guardà, no?» borbotta. «E poi che dovrei fà? Farvi le congratulazioni e dirve che siete 'na bella coppia?».
«Potresti non fare niente».
«Non me lo stai a chiede sul serio».
C'è un momento di stallo tra loro in quel preciso istante: un silenzio assordante che riempie la stanza, dove ci sono soltanto i loro occhi che si incrociano, si scontrano, si trovano e si allontanano.
Sono dei secondi che passano lenti, come se il concetto del tempo fosse andato in tilt, si fosse dilatato nello spazio e le lancette si fossero, in qualche modo, fermate.
Non è nemmeno la prima volta succede, del resto.
È Simone il primo a spezzare quella sorta di strano incantesimo, abbassando dapprima il capo e poi rimettendosi in piedi con uno scatto. Ha l'intenzione di uscire da quella camera, andare magari giù in salotto, in cucina con Dante e Anita, in un posto più neutrale dove non ci sono solamente loro due.
Tuttavia, ciò gli viene impedito da Manuel che, quando non ha compiuto ancora mezzo passo, lo blocca, tenendolo per un polso. «Non me lo puoi chiede sul serio» ribadisce.
«Io...».
«No - tu che?» lo frena e rilascia la presa, che altrimenti renderebbe troppo forte a causa del nervoso. «Tu che?» riprende. «La sera dopo capodanno sei venuto da me, hai dormito con me e - e il giorno dopo hai iniziato a fà er fidanzatino co' quell'altro e mò me stai chiede de non fà niente?».
Simone serra la mandibola. Si ricorda bene di quella sera, di quei trenta secondi che tali dovevano rimanere e invece si sono propagati in una notte intera, perlomeno fino alle cinque del mattino, quando ha abbandonato la stanza dell'altro ragazzo nella piena oscurità, lasciandolo immerso nel sonno.
Si ricorda tutto, anche le loro parole, quelle che lui stesso ha pronunciato, quelle appena sussurrate dal compagno, in un miscuglio di scuse e frasi senza senso dovute agli antidolorifici.
«Sono venuto da te perché stavi male» sbotta. «E perché io non sono uno stronzo». Fatica a sostenere il suo sguardo. Risulta sempre difficile.
È arduo fissare negli occhi qualcuno di cui è innamorato perso, ma che gli ha fatto troppo male per passarci semplicemente sopra.
Stringe i pugni lungo i fianchi. «Ma ti ho anche detto - che quelli erano gli ultimi trenta secondi» prosegue, con la voce che un briciolo gli si spezza in gola. «E sai il motivo e tu non hai detto nient'altro».
«Che ce stava da dì se avevi già deciso tutto te?». Manuel gracchia e poi tace. Non dice nulla di più neppure in quell'istante - poiché di parole, forse, ne avrebbe fin troppe da tirar fuori e molte non sarebbero carine. Resta zitto e basta.
Per un breve attimo, Simone fa lo stesso. In seguito, si sposta quel che è sufficiente ad andare ad aprire il secondo dei quattro cassetti sotto alla scrivania. Ne estrae la chiavetta nera usb con ancora il nastro verde attorno. La regge tra le dita, per farla notare all'altro.
«L'ho aperta» confessa.
Manuel trattiene un singulto, probabilmente perché ha atteso per più di due settimane quell'evento, che il contenuto venisse scoperto, ascoltato, capito. Quindi, manda giù a fatica della saliva e «L'hai aperta» ripete, come se ciò servisse a rendere più reale e tangibile la cosa. «E...?».
«E - sei bravo a suonare. Ma l'ho sempre pensato, altrimenti non t'avrei preso quel piano».
Non è la risposta che si aspettava, non dopo aver penato per giorni a realizzare ciò che la chiavetta racchiude, dopo averci messo letteralmente il cuore dentro, la propria anima, aperta come un libro, senza alcun filtro. Immagina che l'altro ragazzo o non abbia capito nulla oppure si sia fermato prima.
Non vuole insistere, però. Per la condizione emotiva che ha in quel momento, farebbe solo danno. Piuttosto, afferra l'oggetto che Simone ancora gli sta porgendo. Vorrebbe dirgli di tenersela, che è un regalo e i regali non si restituiscono. Eppure, non spiccica parola. Prende la chiavetta e la racchiude in un pugno. «Vabbè» taglia corto e indietreggia di qualche passo. «Sai che?» allarga platealmente le braccia. «Come vuoi te» attesta. «Vivete la favoletta tua co' quell'altro, mano nella mano, tra zucchero filato e lecca-lecca, sai che me importa».
Bugiardo.
Ti importa, stai morendo dentro.
Bugiardo tu.
Bugiardo lui.
Ha quasi raggiunto di nuovo la soglia della porta, si volta, sta per uscire.
«Quell'altro - si chiama Andrea. E ha detto che vuole starci con me».
La voce di Simone lo blocca poco fuori l'uscio. Manuel, tuttavia, non si volta, continua a dargli le spalle. È meglio così, non mostrare la maschera di indifferenza che si è incrinata in seguito all'ultima menzogna esternata.
«Buon per te» sentenzia e stringe la chiavetta che ha in mano talmente forte da rischiare di disintegrarla, se mai possibile.
Non pensa di poter sostenere ancora quella conversazione, per cui si allontana, rapidamente, scendendo le scale con una accennata corsa.
Simone rimane in apnea per una manciata di secondi. In seguito, sbatte rapidamente le palpebre. È con un gesto impetuoso e a tratti disperato che si precipita sulla porta e la chiude con uno scatto, girando per due volte la chiave nella toppa.
Fermo davanti all'anta, ci poggia i palmi sopra.
Mente a sé stesso in quel preciso istante, sul fatto che sta bene.
Non sta bene, è completamente lacerato dal dolore, dalle circostanze, dal tempismo del cazzo che pare essere protagonista della propria vita.
Però si dice da solo che sta davvero bene, che sta davvero andando avanti.
Ma come potrebbe davvero non essere dilaniato dalla sofferenza con la consapevolezza che sta scegliendo di lasciare andare quello che considera l'amore della sua vita?
Lo sta facendo perché farebbe più male il contrario.
Pensa che sia probabile che tutta quella sofferenza, un giorno, magari verrà ripagata.
O magari no.
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