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Allarme




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**

Manuel apre gli occhi, ritrovandosi nella penombra, con la fioca luce di una timida alba fuori dalla finestra – ne traspare poca, a causa delle tende spesse e azzurre tirate davanti ai vetri.

Quella stanza non è la propria. Non lo è dalle ultime sette notti.

Alla faccia dell'ultima volta, insomma.

È sdraiato in posizione supina sul materasso, con una gamba sotto la coperta e l'altra fuori. Gli è sufficiente girare di qualche centimetro il capo per scorgere Simone accanto a sé, sistemato su di un fianco: è ancora addormentato, la bocca schiusa. Osserva una sua mano appoggiata sulla propria pancia. Pensa sia lì da parecchio e che Simone cerca sempre un contatto quando sono nello stesso letto, che siano avvolti nel sonno oppure no.

E che la cosa, spesso, non gli dispiace neppure.

Ecco.

Un briciolo si irrigidisce alla realizzazione di un simile pensiero, ma dura poco. In seguito, prende un respiro profondo, fissando il soffitto.

Ma come ci è finito a quel punto?

Ci ragiona spesso: ogni volta, tutte le volte. Crede che non dovrebbe essere così, che quella cosa nata per caso un anno prima – o poco più – doveva finire, consumarsi nel giro di una notte, in quella casetta di legno adiacente una piscina in manutenzione.

Una sola notte.

Ma dopo c'è stata la seconda, la terza, la quarta e dopo ha perso il conto.

Quindi adesso ci è dentro fino al collo e non sa come uscirne. Non sa neppure se vuole uscirne.

Certo che sei un vero coglione, la propria coscienza lo rimprovera. Non può che darle ragione.

Sospira ancora e non comprende se sia a causa della tensione, della paura o quale altra contorta sensazione, qualcosa con cui non è ancora sceso a patti.

Raccatta il cellulare che, la sera prima, ha abbandonato sul comodino verde menta. Lo sblocca, toccando semplicemente lo schermo e inserendo il codice. La luce che il dispositivo emette gli provoca un leggero fastidio e deve strizzare le palpebre per abituarsi.

Sono le 5:15.

Non ha nuove notifiche rilevanti, a parte qualche like su Instagram - tipo quello di andrea_mainardi ad un vecchio post, che lo infastidisce perché - Dio santo - quel ragazzo pare essere ovunque.

Meglio non analizzare oltre. Blocca nuovamente lo smartphone tramite il tasto laterale.

Per alzarsi dal letto, deve spostare la mano di Simone – cerca di farlo piano, per non svegliarlo – perché sa che l'altro vorrebbe pure parlare, sicuramente vorrebbe parlare, e adesso non ne ha voglia.

Non che ne abbia mai voglia – parlare e confrontarsi lo fa agitare – ma tant'è.

Si rimette in piedi e il contatto tra i propri piedi nudi e le mattonelle gelate gli provoca un brivido lungo la schiena. Regge ancora il cellulare in mano, per farsi più luce, quando abbandona la stanza e chiude in maniera lenta la porta alle proprie spalle.

«Manuel!».

La voce di Anita rimbomba nel corridoio poco illuminato e lo fa sussultare. Manuel si porta, platealmente, un palmo sul petto e «Mà, e che cazzo» si lamenta «Me fai pijà un colpo».

La madre gli si avvicina, tenendo le braccia incrociate e stringendosi in una vestaglia arancione scuro. Aggrotta le sopracciglia. «Siete rimasti a giocare pure ieri sera?» borbotta, cercando di non alzare troppo il tono di voce.

Manuel è confuso – anche perché mezzo stordito dal sonno – e quindi «Che?» biascica. Realizza in seguito a cosa si riferisce la domanda. «Ah, sì» si affretta ad aggiungere, grattandosi dietro da un orecchio con due dita.

«Seh?».

«Eh, seh. Poi ce siamo addormentati».

«Quei giochi ve friggono il cervello, ce sta scola oggi».

Manuel alza gli occhi al cielo. «Vabbè, sò sveglio, me pare» fa notare. «Voi non andavate via stamattina?».

«No, abbiamo il treno oggi pomeriggio» Anita scrolla le spalle. «Oh, me raccomando, eh!» dice dopo, strabuzzando appena gli occhi. «Niente feste qua dentro mentre non ci siamo».

Il ragazzo sbuffa e gli sfugge una risata. «Ma perché dovemo fà 'na festa?» biascica.

«Perché casa libera vuol dire fà le feste pe' voi» puntualizza Anita «Vedi che me 'o ricordo il bordello dell'altra volta».

Manuel si morde piano l'interno della guancia. Non specifica il fatto che l'altra volta che hanno avuto casa libera, qualche mese prima, quel bordello con la farina non è stato causato da una festa, ma soltanto da lui e Simone che non hanno fatto in tempo a ripulire tutto.

Ma va bene, che abbia pensato ad una festa, va più che bene.

«Vabbè, okay» taglia corto «Me vado a fà altri cinque minuti di sonno, posso?».

«Vai, va'».

Fa per avviarsi, verso la propria camera, quella in fondo al corridoio, ma «Manuel?» viene fermato nuovamente dalla madre.

Così si blocca, si gira di qualche centimetro. «Che c'è ancora?» borbotta.

«Ma non facciamo prima se state in una stanza sola te e Simone? Almeno recuperiamo 'na camera, ce facciamo, che so, 'na palestra, qualcosa».

No, no, no.

«No, grazie» replica, secco - non è vero, dentro sta tentennando. Non esita ulteriormente a riprendere il cammino ed ignora l'ultima frase pronunciata dalla donna, che percepisce come un eco che recita: «Era per comodità, eh!».

Raggiunge la nuova stanza e vi si chiude dentro, girando la chiave nella toppa. Rimane immobile per qualche secondo, con la schiena contro il legno. Strizza le palpebre.

Ha così tante cose che gli frullano nella testa che crede sia sul punto di esplodere.

Come il fatto che dormire accanto a Simone per tutta la settimana non gli è dispiaciuto per niente, nemmeno che l'altro gli si sia buttato addosso la maggior parte delle volte e che non abbiano fatto sesso e basta.

Che hanno passato del tempo a stare semplicemente insieme, a discutere di una serie tv o di un film.

Che cazzo, non doveva rimanere.

Che. Cazzo.

Perché Simone è solo – che è Simone? Non è manco in grado di definire cos'è, cosa sono, cosa sta succedendo. È tutto confuso.

Fanculo.

In poche falcate, Manuel raggiunge il letto. Butta il telefono alla rinfusa sul materasso, che cade con lo schermo verso l'alto. Non se ne preoccupa. Affonda il viso nel cuscino, assumendo una posizione prona.

Chiude gli occhi e spera di addormentarsi presto. Per non pensare a niente.

Per non pensare a Simone.

Che deve smetterla di pensarci, a Simone.


**


Il distributore automatico di bevande nel corridoio della scuola gli ha già fregato due euro e Simone vorrebbe urlare: succede di continuo e ancora non si spiega perché non l'abbiano ancora cambiato quell'aggeggio infernale – che è vecchio, ingombrante, con le lampadine interne mezze fulminate.

Tira un colpo a pugno chiuso sul lato della macchinetta e sbuffa. «Che cazzo» si lamenta e alza gli occhi al cielo.

«Tutto bene?».

Simone è ancora concentrato sul distributore e lo sguardo gli ricade in maniera distratta su Andrea, che si è appoggiato ad esso con una spalla, tenendo le braccia incrociate al petto.

Si lascia andare ad un sospiro sommesso, pieno di frustrazione. «M'ha preso i soldi» borbotta «Per due volte. Già non dà mai il resto, mò manco la bottiglia d'acqua». Tira l'ennesimo colpo, a palmo aperto stavolta, sul vetro dell'ingombrante oggetto. «Che palle, oh».

Andrea si lascia sfuggire una risata e un sorriso gli permane sulla bocca pure quando essa si affievolisce. «Devi staccare la spina» suggerisce.

«Che?».

«La spina» spiega. «Delle volte si incanta e quello è l'unico modo».

Non perde tempo ad attendere che l'altro ragazzo compia effettivamente tal gesto; piuttosto è lui ad agire, piegandosi sulle ginocchia e allungando un braccio, per poter staccare e riattaccare la presa tedesca che fornisce corrente al distributore – lo stesso che produce un rumore metallico in fase di riavvio.

Andrea torna ad assumere una posizione eretta e «Adesso dovrebbe andare» dice, mentre infila una mano in tasca, recupera una moneta da un euro e la infila nell'apposita fessura della macchina. «Che vuoi?».

Simone rimane immobile tutto il tempo. Aggrotta la fronte. «Li avevo altri soldi, eh» fa presente.

Andrea gli rivolge uno sguardo fugace e «Quindi, che vuoi?» insiste.

«Acqua frizzante».

«Acqua frizzante». Preme i tasti per comporre il codice quarantadue e la bottiglietta cade con un leggero tonfo nell'apposito vano.

«Grazie» esclama Simone, recuperando la bevanda. «Poi ti restituisco tutto».

«Ma figurati». Andrea accenna un ulteriore sorriso. Torna ad incrociare le braccia e adesso si appoggia con la schiena contro il muro.

Inclina appena la testa su di un lato. «Quindi – questo qualcuno» esclama. «Lo conosco?».

Simone gira il tappo della bottiglia che sta reggendo e che apre con un lieve sbuffo. Beve un sorso d'acqua, gelida, per cui strizza le palpebre subito dopo – che è sia per tale temperatura fredda che per la frase pronunciata dall'altro ragazzo. «Chi?» domanda.

«Hai detto che stai con qualcuno» viene puntualizzato «Chi è? Viene a scuola qui? No, aspetta – è più grande?».

«Andre...».

«Voglio solo capire, eh» Andrea strabuzza gli occhi, come a sottolineare un'ovvietà. «Non ne parli mai».

A Simone sfugge una risata un briciolo isterica. Si guarda attorno: il corridoio è pieno di alunni del liceo, radunati in piccoli gruppi che non badano a loro due; Manuel non è manco nei paraggi. Scuote un briciolo la testa.

«Ho anche ipotizzato perché non lo fai» l'altro ragazzo procede, spedito «Allora – o è una cosa nata da poco, ma non penso, non avresti detto che effettivamente stai con qualcuno. O non ne sei abbastanza sicuro oppure – oh, è una relazione segreta?».

Simone rischia di strozzarsi con l'ultimo sorso di acqua frizzante che butta giù e lo sente a stento quel «C'ho preso, vero?» che Andrea dice, ridacchiando.

Pensa di essere diventato rosso in viso, il che è visibile in maniera evidente sulla propria pelle pallida.

Finge un colpo di tosse, giusto per riprendere un minimo di controllo. Non ha intenzione di rispondere – sì, pure se un po' c'ha preso. Scrolla le spalle, lancia ancora una volta un'occhiata a chi li circonda – di nuovo, niente Manuel e per fortuna. «Perché t'interessa?» soffoca.

Andrea rimane serio, per un breve istante. In seguito, un sorriso sghembo gli si delinea sulle labbra. «Beh, per sapere con chi devo competere».

Per un istante, Simone è interdetto: sì che sta imparando a conoscere la schiettezza di quel ragazzo, ma non che arrivi a così tanto. Così aggrotta la fronte, socchiude le labbra - poiché manco sa come rispondere, se esiste un modo consono per farlo.

Non deve ragionarci troppo, comunque, dal momento che Andrea smorza l'ennesima risata e «Sto scherzando, Simone» lo rassicura - più o meno. Distacca la schiena dal muro e rilascia le braccia lungo i fianchi. «Oppure no» quell'ultima parte la sussurra in modo a stento percettibile, prima di allontanarsi nel corridoio e sparire dietro ad un angolo.

Simone resta immobile, rischiando d'essere d'intralcio alle persone che camminano o che vogliono usufruire del distributore di bevande. Deve scostarsi, chiedendo scusa, mentre ancora metabolizza quanto appena accaduto.


**


«Ma perchè no?».

Matteo gli pone tal quesito per la decima volta in cinque minuti e Manuel trattiene l'istinto di alzarsi dalla sedia di legno dove è accomodato, al primo banco che odia tanto, e prenderlo a pugni. Lo fissa,  seduto sopra la cattedra, con un sorriso stampato in faccia - lo stesso che gli vorrebbe tirar via con un cazzotto.

Okay, mica lo detesta poi a Matteo, a tratti lo trova persino simpatico, principalmente quando sta zitto. Il punto è che quel giorno il proprio limite di sopportazione per il genere umano in generale è ai minimi storici.

«Perché non me va» attesta allora, scrollando le spalle.

Sono presenti altri compagni di classe: Chicca, seduta su un banco con le gambe accavallate, Laura che le sta accanto, in piedi, e Giulio subito dopo che ha incrociato le braccia al petto.

«Ma che scusa der cazzo, Manu» si lamenta la prima, alzando gli occhi al cielo «Eddaje, fallo pe' noi».

«Daje, pe' noi, Manuè!» Giulio insiste - pure lui, e che cazzo.

Manuel prende un respiro profondo: quelle suppliche continue non gli piacciono, lo rendono nervoso più di quanto non lo sia già di suo. Sta per replicare, l'ennesimo non me rompete i cojoni, con alta probabilità, ma le parole gli si bloccano in gola quando scorge Simone entrare in aula, mantenendo una bottiglia da mezzo litro d'acqua frizzante di plastica blu in mano.

«Oh, Simò!» è Matteo ad accoglierlo «Aiutaci co' l'amico tuo».

Simone contorce le labbra in una smorfia. Si ferma vicino alla cattedra e si appoggia col fondoschiena ad essa, accanto al ragazzo che gli ha appena parlato. Lancia un'occhiata distratta a Manuel, i loro sguardi si incrociano per una frazione di secondo. «Per cosa?» domanda, rigirando tra le dita la bottiglia di plastica mezza vuota.

«Pe' fà la festa der compleanno suo» Chicca spiega «Er signorino non vuole fà niente».

Manuel sbuffa, esasperato. «Ho detto che ce penso» puntualizza «E poi mancano du' settimane al compleanno mio».

«Embè, bisogna organizzarse, scusa» fa presente Matteo e allarga le braccia con fare plateale. «Oh, vedi che se ce dai il via libera, facciamo tutto noi, non te devi preoccupà de niente».

«E non ve potete fà 'na festa voi senza rompe le palle a me?».

«Non è la stessa cosa, scusa».

Simone rimane in silenzio durante quella discussione. Fissa Manuel, lo vede piuttosto infastidito e non capisce il motivo, dato che lui è il tipo da festa, che la farebbe sempre e comunque, anche nella peggiore delle situazioni.

«Vabbé, Simò, cerca de convincerlo te, per favore» Chicca esclama «Magari te dà retta». Scende dal banco e quel gesto coincide col suono della campanella che pone fine alla ricreazione.

Simone osserva i compagni tornare lentamente al loro posto per l'inizio della lezione successiva. Lui indugia, per un momento. I propri occhi si scontrano ancora una volta, in maniera fugace, con quelli di Manuel e un leggero sorriso gli compare sulle labbra. Quest'ultimo distoglie quasi subito lo sguardo: si fissa le mani, si sta torturando le dita e sfregando le nocche con un palmo.

Quando solleva il capo è l'attimo in cui può notare Andrea rientrare in classe e gli viene spontaneo roteare gli occhi per quel fastidio profondo che lo attanaglia ogni qualvolta che scorge la sua figura.

Lo odia e ormai è risaputo. Ha provato a dare una spiegazione logica a ciò - il banco, la pallonata e via discorrendo - ed è giunto ad un'unica conclusione che gli fa paura dire ad alta voce. Quindi lascia perdere.

Anche se è difficile farlo quando nota una mano di Andrea appoggiarsi sulla spalla di Simone, che è ancora fermo alla cattedra - ed è una scena che dura pochissimo, un breve e insignificante istante, ma sufficiente a provocargli un brivido lungo la schiena.

Dopo, segue ogni loro movimento, frattanto che tornano ai loro rispettivi banchi, in fondo all'aula.

Manuel si chiede di nuovo perché gli succede e la soluzione, per quanto cerchi di raggirarla, è sempre la stessa.

Sei geloso, coglione.

Ma sarebbe assurdo essere gelosi di Simone.

Che è un ragazzo.

Con cui va a letto da un anno, ma pur sempre un ragazzo.

Non può esser geloso di Simone.

Scuote il capo, si passa una mano sul volto. Strizza le palpebre e, ancora una volta, cerca di smettere di pensarci.


**


«Vabbè, ma quindi perché non vuoi farla?».

Manuel sente la voce di Simone provenire da dentro la cabina di legno del bagno della scuola, mentre lui è davanti al lavandino. Lo ha trascinato in quel posto due ore dopo, esasperato e furioso e okay, g– No.

Distrattamente, fissa il proprio riflesso, con le mani sotto l'acqua: nota i capelli scompigliati, le labbra un po' gonfie e cazzo, un segno tondeggiante appena rosso sull'incavo del collo, lasciato scoperto dalla felpa che è ricaduta su una spalla. Ignora del tutto la domanda dell'altro ragazzo, è preoccupato per quel cavolo di segno che spera non diventi più visibile col passare del tempo.

Sciacqua rapido le mani dal sapone e le asciuga con un pezzo di carta - che, in realtà, sono tovaglioli piuttosto inutili che non assorbono nulla ed è lo stesso che getta nel cestino di plastica rigida posto sotto al lavandino.

«Cazzo, Simò» esclama e tenta di tenere un tono di voce basso, per quanto sia possibile, non mostrando quanto sia effettivamente agitato. Che tanto, è probabile che nessuno li senta col caos nei corridoi del liceo durante il secondo intervallo della giornata.

«Che c'è?» Simone lo raggiunge, frattanto che si sistema il maglione a maniche lunghe blu che indossa, tirandolo dalla cucitura inferiore - senza la camicia sotto. Si ferma al suo fianco, lo scruta dapprima tramite il riflesso nello specchio, poi sposta lo sguardo sul suo volto.

Manuel sbuffa, rotea gli occhi. «Come che c'è?» dice, indicando il lato del proprio collo. «Ma non ce potevi fa' attenzione, no, eh?».

A Simone sfugge una risata, d'istinto, poiché l'espressione che l'altro ha assunto è al limite dell'esilarante.

Manuel, invece, scuote il capo. «Che ti ridi?» si lamenta e torna ad osservare la propria immagine nella superficie riflettente. Con i polpastrelli, sfiora i bordi del segno più scuro che gli si è formato sulla pelle. Aggrotta le sopracciglia. Tira su la felpa, dal colletto, e va bene, se sta attento a non fare movimenti troppo bruschi e a non far scivolare via il tessuto, per qualche ora può tenerlo nascosto senza eccessivi problemi. Forse.

Simone incrocia le braccia al petto. Lancia un'occhiata fugace verso la porta chiusa del luogo. «Non m'hai risposto» fa notare.

Manuel è ancora impegnato a camuffare al meglio il succhiotto - quello è, inutile che ci fa troppi giri di parole - mettendoci davanti il bordo dell'indumento che ha indosso e meno male che quella mattina ha scelto qualcosa di largo e con il cappuccio. Si osserva un'ultima volta nello specchio, poi mette le mani sui fianchi e rivolge l'attenzione al ragazzo lì accanto. «A che?» domanda, per quanto sia ovvio.

«La cosa della festa per il tuo compleanno».

Esita per un breve istante, sospirando. «Eh, che vuoi?».

«Perché non vuoi farla».

«Perché me scoccia» borbotta «Poi se imbuca 'n sacco d'altra gente, non me va».

«Ma tu non eri quello che una festa è sempre una festa».

«Che te devo dì, se cambia».

Simone abbassa lo sguardo. «Tu non cambi idea sulle feste».

Manuel scuote il capo. No, non cambia idea su quello ed è vero che una festa è sempre una festa e lui adora quei momenti, specialmente se c'è la musica così alta da stordirlo - certo, delle volte non gli piace il genere, ma si accontenta - e alcol a fiumi. Per cui, il motivo è diverso. Sospira, mordendosi piano l'interno della guancia. «Non me va de stà al centro dell'attenzione» confessa, in maniera un briciolo biascicata.

Ciò nonostante, la frase viene compresa da Simone, che si acciglia e «Tu?» esclama.

«Eh, io» Manuel borbotta «C'ho ancora gli incubi dal mio diciottesimo». Ecco, il diciottesimo compleanno è davvero una di quelle feste che vorrebbe chiudere nell'oblio senza farne più accenno per quanto si è sentito a disagio durante quei momenti.

Quella parte, Simone la conosce - gliel'ha raccontata - per cui lo comprende pure, anche se dubita qualcosa del genere possa ripetersi. «Beh, possiamo sempre fare una festa il giorno del tuo compleanno, fingendo che non sia il tuo compleanno» propone.

«'Sta cosa non c'ha senso».

«Sì, invece, ti fidi?».

«Pe' niente».

«E fidate, invece». Simone si lascia scappare un'ulteriore risata, che è la medesima che si trasforma in modo repentino in un sorriso lieve sulle proprie labbra. Allunga una mano, soltanto per sfiorare un suo zigomo e dopo portargli un riccio dietro ad un orecchio.

L'istinto primordiale di Manuel gli suggerisce di scostarsi nell'immediato, emette una sorta di stato d'emergenza, un allarme, segnali di allontanarsi il prima possibile. Sono tutti quelli che ignora - volutamente o meno - poiché rimane immobile durante tale minimo contatto, in un gesto tanto banale quanto complice.

Ha breve durata, comunque, dal momento che la propria coscienza lo sgrida con oh, te svegli e allora sbatte le palpebre, sposta in malo modo la mano dell'altro ragazzo e «Oh, e piantala» sbotta.

Simone nemmeno ci rimane troppo male: un po' se lo aspettava pure, considerando che sono nei bagni della scuola - non dentro una delle cabine - e che chiunque potrebbe entrare, nonostante la porta chiusa.

Manuel sbuffa, scocciato - no, non è scocciato, è in tilt perché non lo ha fermato prima e ha ignorato ogni genere di allarme a cui prima rispondeva con molta più facilità.

Non attende il suono della campanella: piuttosto abbandona quel luogo, senza assicurarsi che Simone lo segua dopo i due minuti prestabiliti, come succede sempre.


**


Manuel scende le scale della villetta Balestra verso l'ora di cena. I gradini di legno scricchiolano sotto al proprio peso. Tiene il telefono in mano: ci sono dei messaggi da parte della madre, che gli ricordano di non organizzare assolutamente feste in casa durante la loro assenza.

Alza gli occhi al cielo, più volte, esasperato, a leggere una simile frase e risponde con un vocale di pochi secondi: «A' mà, vai tranquilla, buon viaggio». Rilascia il dito premuto sullo schermo, per procedere all'invio del messaggio, in seguito ripone l'apparecchio nella tasca anteriore dei jeans che ancora ha addosso.

Dunque, è solo con Simone.

Ha cercato di dormire, durante il pomeriggio, con scarsi e nulli risultati, per cui è rimasto chiuso in camera per la maggior parte del tempo, fingendo di farlo - così che manco si è accorto che effettivamente Dante e Anita hanno abbandonato l'abitazione, poi.

Il fulcro è che ha pensato fin troppo a quella scena in classe la mattina e sono tornati tutti gli altri istanti e ha semplicemente avuto bisogno di staccare per quanto possibile, per non lasciarsi sopraffare dopo.

Ottimo, ignorare il problema finché non va via da solo.

Che scelta di merda.

La luce della cucina è accesa, lo nota subito, ed è lì che si dirige - anche perché ha lo stomaco che brontola.

Si ferma poco prima di entrare nella nuova stanza: Simone è fermo davanti al tavolo, in piedi; lo osserva di spalle, con indosso un pantalone grigio di una tuta e sopra una felpa col cappuccio del medesimo colore, forse qualche tono più scura, mentre sposta il peso del corpo da un piede all'altro a ritmo della canzone che proviene dallo smartphone abbandonato sulla superficie piana.

Manuel lo riconosce, quel brano fa parte di una playlist su Spotify che gli ha passato.


Appoggiamo sulle macchine
Due birre e quattro chiacchiere
Io sorrido se sorridi te
Mille baci alla française


Pensa, per una frazione di secondo, con le braccia incrociate al petto, che sia una bella visione, quella.

Addirittura, cazzo.

Scuote il capo e strizza le palpebre. Muove qualche passo lento per raggiungere l'altro ragazzo e affiancarlo. Quando gli è abbastanza vicino, lo vede ciò che sta facendo, il che lo porta a corrucciare le labbra in una smorfia e commentare: «Madonna, Simò, e che schifo».

Simone spalanca gli occhi, quasi a fingersi offeso da una simile esclamazione. Regge un grissino spezzato a metà in mano, lo stesso che, in precedenza, ha intinto nel barattolo di miele aperto che ha davanti. Sta ancora masticando e si affretta a buttar giù quel miscuglio di dolce e salato che ha in bocca. «Ma che vuoi, oh?» si lamenta, ma un po' sta pure ridendo. «Avevo fame».

«Eh, te fai un panino se c'hai fame, che è 'sta schifezza».

Simone manco lo sta ad ascoltare: con la mano libera, infila due dita nel barattolo di vetro, le sporca con quel liquido denso; sono le stesse che, poco dopo, appoggia sulle labbra dell'altro ragazzo. Compie quei gesti in maniera naturale, veloce e spontanea, così come il bacio che gli riserva in seguito, sulla bocca, fugace e un briciolo appiccicoso.

Manuel rimane immobile, glielo lascia fare - di nuovo - ed è assurdo perché, pensando a soltanto qualche settimana prima, si sarebbe tirato indietro di fronte a ciò, ad un bacio che non precede il sesso.

«Matteo continua a scrivermi» Simone prende un ulteriore morso dal grissino, senza il miele, e mette in pausa la riproduzione della musica, tamburellando i polpastrelli sullo schermo del telefono.

«Perché?» replica Manuel, distratto, grattandosi dietro ad un orecchio. In realtà, a che si riferisce tale quesito è piuttosto ovvio, infatti «Sempre per la festa» specifica l'altro.

«Ah, ce tiene proprio, eh».

«Abbastanza».

Manuel schiocca la lingua sul palato. Recupera un grissino dal pacchetto aperto, anch'esso abbandonato sul tavolo; come ovvio, non lo bagna nel miele, si limita a spezzarlo coi denti e basta. «Digli di non rompe le palle» borbotta, con la bocca mezza piena.

«Non s'arrende mica così».

«Cazzi suoi». Con un lieve balzo, facendo leva su un palmo aperto, sale sul tavolo e ci si siede sopra. Prende un secondo morso dal grissino che ancora regge tra le dita. «Poi se la può pure organizzare senza mette in mezzo er compleanno mio» puntualizza. Scrolla le spalle. Una simile insistenza da parte dell'amico non la comprende - e manco vuole comprenderla. Ringrazia solo il fatto che non stia scrivendo a lui, ma a Simone e non ha ancora deciso quanto questo sia positivo o meno.

Ad ogni modo, senza ragionarci troppo, porta indice e medio a bagnarsi dentro al barattolo di miele; sono i medesimi che poi si avvicina alla bocca per assaggiare un po' di quel composto dolce - è davvero molto dolce. Fa una smorfia e «Zucchero fuso 'sta roba» commenta.

Simone ride. «Di solito il miele è così» fa presente.

«Ma quando mai, c'hai messo qualcosa dentro».

«Non c'ho messo niente». Mentre parla, si è già spostato per essere in mezzo alle gambe appena divaricate dell'altro ragazzo. Non aggiunge ulteriori frasi o spiegazioni, non occorre poiché afferra una sua mano, tenendola delicatamente dal dorso; è ciò che gli serve per portarla vicino alla propria bocca.

Schiude le labbra e con esse lambisce dapprima il suo indice, poi il medio, dopo entrambe le dita. Succhia piano il miele che vi è sopra, mordicchiando appena i polpastrelli.

Manuel si limita ad osservarlo e basta, in un primo attimo. Eppure sente un formicolio strano in pancia, lo stesso che si sposta al basso ventre.

Anche quella sensazione è strana, è decisamente più forte rispetto a tutte le volte precedenti.

Perché se prima si trattava davvero di solo sesso, di qualcosa di divertente – come lo ha definito - di una nuova esperienza.

Si è fermamente convito di ciò, pur di non guardare in faccia la realtà – adesso percepire il respiro caldo di Simone sulla pelle lo manda in subbuglio. Si tratta di eccitazione, mista a desiderio, a voglia e qualcos'altro.

Questo è il pensiero che lo porta a spingere più a fondo le dita nella sua bocca, quasi volesse esplorarla, quasi urlasse, muto, di volerne di più.

Simone accorda il suo silenzioso desiderio, incava le guance. Lo fissa in volto, sbattendo piano le palpebre. Rilascia indice e medio con un lieve schicco solamente quando rischia di soffocare e un rivolo di saliva gli scivola sul mento.

Manuel non gli concede il tempo di riprendere fiato. Piuttosto, con una mano gli afferra il collo, stringe in maniera non troppo delicata la presa attorno ad esso e lo attira a sé, premendo le labbra sulle sue.

È un bacio avido e passionale. È un ti voglio, ma ho pure paura, per quanto possa essere razionale come cosa.

Simone fatica a respirare, per un istante; tuttavia, è qualcosa di piacevole quella mancanza di fiato controllata.

Manuel rilascia a poco a poco la presa, spostando la mano sulla sua nuca e tirando con forza i capelli in tal punto – gli strappa un flebile grugnito. Gli morde il labbro inferiore, rischia quasi di farlo sanguinare.

Si sente esplodere, sebbene non abbiano ancora realizzato nulla. Ma è quello l'effetto devastante che Simone ha su di sé.

Cazzo.

Percepisce la propria erezione pulsare nella trappola di cotone dei boxer e desidera urlare. La situazione peggiora nell'istante in cui l'altro ragazzo ci impone una mano sopra e azzarda premerci su col palmo aperto, attraverso il tessuto di jeans che crea un fastidioso attrito.

Manuel cinge i suoi fianchi con entrambe le gambe, incrociandole al livello del suo coccige e tirandolo di più verso di sé, spingendo con i talloni. Rischia di finirci sdraiato sul tavolo a causa del busto che sbilancia all'indietro. Ricerca un nuovo bacio sulla bocca, un gesto vitale in quel preciso momento. Infila le dita tra i suoi ricci, rischia di incastrarcisi in mezzo.

«Annamo de sopra» sospira, ad un tratto, quando piega il capo su di un lato – non è una domanda - e Simone si è già avventato sull'incavo del proprio collo con le labbra. «Qua non va bene?» soffia quest'ultimo.

A Manuel sfugge una risata. «Qua non me va de pulì dopo» taglia corto – e qua non abbiamo quel che ci serve, aggiunge mentalmente, perché hanno già fatto senza e non è stato per nulla ottimale.

Simone ci impiega qualche secondo a metabolizzare una simile richiesta. Indugia, fermo con il viso premuto ora sulla sua spalla scoperta dalla felpa che è scivolata un po' giù. Si risolleva poco dopo, rilasciando un morso leggero sul suo zigomo. In seguito, afferra il compagno per i fianchi, con tutte e due le mani, e lo solleva dal tavolo.

Manuel non ci è abituato a quello ed è un briciolo spiazzato da tal gesto. Si regge alle sue spalle, per mantenere l'equilibrio e non cadere – perché, letteralmente, Simone lo sta tenendo in braccio come se nulla fosse e senza manco avergli chiesto permesso.

«Oh – oh! Mettime giù subito» bofonchia. Il proprio viso è più in alto rispetto a quello dell'altro ragazzo – capita raramente, considerata la loro differenza d'altezza di qualche centimetro; gli chiede di metterlo giù, ma in realtà mantiene le gambe allacciate attorno ai suoi fianchi.

Un po' un controsenso, come tutto quel che fa nell'ultimo periodo, del resto.

Simone ride. Gli deposita un rapido bacio sulla linea della mandibola. «Perché?» sussurra.

«Perché so camminà da solo, daje».

Deve arrendersi ad una simile richiesta, quindi gli fa toccare nuovamente terra con i piedi, camuffando una leggera delusione. Svanisce subito, comunque, non appena Manuel lo bacia sulle labbra, in maniera rapida, poi lo afferra per un braccio e lo trascina fuori dalla cucina, su per le scale, rischiando di inciampare sui gradini di legno.

Raggiungono la camera di Simone, nella quale entrano. Non si preoccupano di chiudere la porta stavolta, tanto la casa è vuota, ci sono soltanto loro.

Lasciano la luce spenta: è sufficiente quella che proviene dal corridoio, fredda, che tinge ogni cosa intorno di un pallido blu.

Simone sale sul materasso per primo e si inginocchia su di esso, al di sopra della coperta. Manuel lo segue come un'ombra, ma si ferma in piedi davanti al letto. Solleva appena le braccia, per permettere all'altro di rimuovere la felpa che ha addosso, dopo la canotta da basket bianca con i bordi gialli e le scritte stampate in nero. Entrambi gli indumenti ricadono a terra, alla rinfusa.

Socchiude gli occhi e butta il capo all'indietro. Mantiene le braccia rilassate lungo i fianchi quando Simone posa le labbra sul proprio addome, ce le preme sopra e inizia a baciarlo piano, a mordicchiare la pelle e a succhiarla delicatamente; si sposta in modo dolorosamente lento sul petto, insiste prima su un capezzolo, poi sull'altro.

Manuel appoggia una mano sulla sua spalla. Prova l'istinto di fermarlo e dirgli di nuovo di smetterla, ma non lo fa.

Che, adesso che ci pensa, è da poco che i loro preliminari sono presenti e, soprattutto, durano così tanto. In generale, nei mesi passati, non si sono dilungati troppo – risolti nel giro di una manciata di secondi, esclusa l'eventuale preparazione all'atto in sé - sebbene Simone ci abbia provato ogni volta, a farli durare di più, a rendere ogni cosa più dolce.

Per Manuel, invece, è sempre stato meglio passare subito al sodo, senza perdere troppo tempo – senza avere troppo tempo per pensare, per ragionare meglio su ciò che accadeva tra di loro.

Che schifo pensare, lo ha già detto, no?

Forse quella è una delle ragioni per cui ora gli pare di andare a fuoco, devastato, folgorato da una miriade di sensazioni nuove, ma vecchie, le stesse che inizia, semplicemente, a vivere in maniera diversa.

È in balia dei baci caldi di Simone, che sono un po' ovunque, delle sue mani che gli sfiorano i fianchi, che gli sbottonano i jeans e glieli lasciano scivolare lungo le gambe tese.

Non lo frena, non ci pensa neppure. Lo lascia fare quando gli abbassa anche i boxer e le sue dita accarezzano lieve il proprio membro già turgido, già da prima che è persino appena doloroso.

Allarme.

«Simò...» soffoca, mandando giù a fatica della saliva. Ma Simone non lo sta a sentire: piuttosto fa scontrare ulteriormente le loro bocche, frattanto che massaggia con la punta delle dita la sua erezione e gli strappa un gemito sommesso.

Manuel rischia di conficcare le unghie nella sua pelle, a livello della spalla. Strattona la sua, di felpa, perché ha voglia di spogliarlo, di vederlo nudo.

Cazzo.

Allarme.

Si costringe a spingerlo leggermente, così da interrompere, per un brevissimo istante, ogni contatto tra di loro. Solleva un piede, dopo l'altro, giusto per liberarsi dell'intralcio di pantaloni e boxer in un'unica soluzione - che tanto delle scarpe ne è già privo - e calciarli via.

Sale sul materasso, in ginocchio pure lui - e finiscono faccia a faccia. Afferra con decisione il bordo inferiore della felpa grigia dell'altro ragazzo, la tira per sfilargliela e gettarla sulle mattonelle fredde, scoprendo il suo torace niveo, che è quello che accarezza con un palmo aperto; percepisce i muscoli tesi e la sua pelle d'oca sotto ai polpastrelli, come se fosse quel tocco a provocargliela.

E Manuel ne è lieto.

È lieto di essere l'artefice della sua pelle d'oca.

Ah, sì?

«Manuel...» sussurra Simone, ad un tratto, notando come l'altro tenga costantemente lo sguardo basso, a fissare i gesti che sta compiendo e «Mh-m?» ottiene, in una replica un po' strozzata.

«Stai tremando» gli fa notare. «Stai bene?».

No, non sta bene, non del tutto. Manuel glielo vorrebbe urlare che è in tilt, allo sbaraglio, che tutto pare troppo in quel preciso istante. Eppure rimane zitto, annuisce e basta. «Fa solo un cazzo di freddo, non è niente» risponde - mente.

Ottimo, bravo.

Non gli dà il tempo di aggiungere qualcosa, che frena ogni sua nuova parola con l'ennesimo bacio che, stavolta, pare addirittura disperato.

Funziona così, del resto, quando inizia a prendere forma una realizzazione, una consapevolezza che è tanto bella, quanto spaventosa.

Notando i suoi gesti un briciolo sconclusionati, Simone rimuove gli ultimi vestiti che ha addosso da solo, abbandonandoli sopra al letto, distrattamente.

In seguito, fa sdraiare il compagno in posizione supina, con la testa sopra al cuscino. Gli porta le braccia verso l'alto, facendo intrecciare, per mezzo secondo, le loro dita al di sopra della federa, e piazzandosi sopra di lui, tra le gambe appena divaricate.

Manuel si lascia maneggiare, un po' arrendevole a quella situazione – non che voglia, succede e basta. Chiude gli occhi, in balia di ulteriori sensazioni, come i baci che Simone gli deposita su tutto il viso - guance, mento, punta del naso – o il modo in cui si muove su di sé, facendo oscillare le anche.

Non realizza molto, gli pare di essere finito all'interno di una bolla dove ogni cosa è amplificata, eppure i suoni risultano ovattati. Immagina che l'espressione stordita e assuefatta che ha assunto ne sia la perfetta rappresentazione.

Quindi manco si rende conto di ciò che effettivamente gli accade attorno, del modo in cui Simone sta compiendo tutti quei gesti che, di solito, condividono: recuperare il tubetto arancione di lubrificante alla pesca, insieme all'incarto viola e quadrato del preservativo, ad esempio. Non si accorge dell'altro ragazzo che continua a baciarlo – sulla bocca e sul collo – e nel frattempo si prepara da solo (o cerca di farlo), utilizzando due dita e mugolando sulle proprie labbra, soffocando i gemiti nella propria bocca.

Manuel solleva le palpebre nel momento in cui Simone si distacca da sé e solleva di un briciolo il busto. Lo vede con le ginocchia puntate ai lati dei propri fianchi, mentre apre la confezione del profilattico, aiutandosi con gli incisivi; rimane perfettamente immobile quando l'altro ragazzo srotola quel pezzo di lattice sulla propria erezione piena, premendo appena con le dita sulla base e massaggiandola lieve – e un brivido gli corre lungo la schiena a quel contatto.

Simone si sposta sul corpo di Manuel, di qualche centimetro, quel che è sufficiente per abbassarsi col bacino e lasciarsi penetrare in maniera docile. Rilascia uno sbuffo e trattiene un ulteriore gemito sommesso. Poi comincia a muoversi, a gestire lui quegli affondi regolari.

A Manuel, di nuovo, pare di impazzire. Le gambe e le braccia gli formicolano e peggiora tutto con Simone che torna di più su di sé, facendo sfiorare i loro petti e la punta dei loro nasi.

Ed è così che si ritrovano occhi negli occhi, uno dentro l'altro.

Allarme, allarme, allarme.

Che – allarmequesto non è più solo sesso.

Simone continua a sollevarsi e abbassarsi con le anche, a muoversi in maniera sinuosa su di Manuel, il quale è sul punto di esplodere – poiché lo sente il cuore martellargli contro lo sterno, le orecchie gli fischiano e la vista, un po', gli si appanna.

Cazzo, Simò.

Lo pensa, ma non è in grado di proferire parola. Ha il fiato corto e sta sudando – per più motivi.

Per il viso di Simone così vicino, per il suo odore che gli inebria le narici – sa di menta e borotalco, per il deodorante che usa - per il sapore di miele che percepisce in bocca, per lui che gli afferra le mani e gliele fa posare sui suoi fianchi per seguire i movimenti sinuosi che vanno avanti, per i suoi occhi scuri che lo scrutano e paiono sorridere.

Cazzo, allarme, cazzo.

«Simò» soffoca, strizzando le palpebre «Girati».

Simone è confuso, aggrotta le sopracciglia. Non smette di muoversi in modo lento, ma deciso e «P-perché?» balbetta.

Manuel guarda ovunque, qualsiasi cosa non sia il suo volto. Manda giù a fatica della saliva. «Fallo e basta» attesta e la voce gli trema, gli gratta la gola.

«Ma...».

«Simò, te devi girà, per favore». Dovrebbe essere un urlo, un grido, però suona più come una supplica.

Persiste un briciolo d'esitazione nell'altro ragazzo che, tuttavia, finisce per obbedirgli; gli si leva di dosso, tentennando, facendo attenzione a non far sfilare il preservativo. Si accascia al suo fianco, in posizione prona.

Per un breve attimo – che pare durare un'eternità, in realtà – Manuel rimane paralizzato a fissare il soffitto, col fiato corto e la testa che gli scoppia.

Deve sforzarsi, dopo, per muoversi. Lo fa con uno scatto con il quale si posiziona sopra al compagno, gli entra dentro senza alcun avvertimento, facendolo sussultare.

Si sente pieno e vuoto al contempo, confuso e deciso e allo sbaraglio – perché ha addosso soltanto contraddizione. Strizza nuovamente le palpebre. Gli affondi che compie col bacino risultano privi di un vero ritmo. Ciò nonostante, il piacere comincia già ad avvolgerlo.

Preme una mano in mezzo alle scapole del compagno, lo spinge di più contro il materasso; poi lo stesso palmo lo porta dietro alla sua nuca, fa la medesima cosa con la testa, a ridosso del cuscino.

Tiene il busto sollevato, muove soltanto i fianchi e ignora i mugolii che provengono dall'altro, i suoi gemiti e il modo in cui pigola «Manu...». Forse gli sta pure facendo un po' male, di questo ne è persino consapevole – purtroppo.

Viene travolto da uno degli orgasmi più forti e dolorosi che abbia mai provato. Stavolta un urlo strozzato non lo trattiene.

E ora si sente soltanto vuoto.

Indugia ancora per un attimo, ancora dentro di lui. Fatica a distaccarsi.

Lo fa lentamente – qualcosa in contrasto con gli ultimi gesti compiuti. Si lascia ricadere sdraiato su di un fianco, sfila il profilattico e lo getta distrattamente sul pavimento – se lo deve ricordare, poi, di buttarlo.

Simone è stremato. Gira il capo a fatica, per osservare il profilo dell'altro ragazzo, che ha nuovamente preso a fissare il soffitto, cercando di regolarizzare il respiro.

Percepisce la propria erezione pulsare – perché non è stata soddisfatta: Manuel non lo ha mai toccato, per tutto il tempo.

Per quel momento, comunque, decide che non è importante, può farlo dopo da solo. Vorrebbe allungare una mano, a sfiorare il suo volto, ad accarezzargli una guancia, ma qualcosa lo trattiene. «Manuel...» tenta di richiamarlo, con voce bassa.

Ma Manuel lo zittisce subito: «Non parlà, Simò. Per favore».

Non ha un tono di rimprovero, anzi: è flebile, docile. È soltanto che non vuole sentire nulla di esterno, adesso.

Gli sono sufficienti le voci che gli rimbombano nella mente.

















Non parlano per davvero.

Non lo fanno per le successive due ore.

Un silenzio assordante riempie l'intera stanza.

Simone scruta il volto di Manuel per la maggior parte del tempo, cercando di carpire la minima variazione d'espressione – un cenno, un sospiro, qualcosa. Quest'ultimo, però, a parte rimanere fermo e immobile, non fa nulla.

Non mangiano neppure.

Alla fine, è Simone il primo a cedere e addormentarsi.

Manuel se ne rende conto dopo qualche minuto. Si mette seduto sul materasso. Nota l'altro ancora a pancia in più, con un braccio piegato sotto al cuscino. Recupera la coperta di pile tenuta piegata ai piedi del letto ed è la stessa che apre e deposita sopra al suo corpo, per celare parte delle gambe e fino a metà busto.

Tentenna per mezzo secondo. Poi si alza, compie qualche passo per raggiungere i propri vestiti sparsi sul pavimento. Gli interessano solo i boxer di cotone, per ora, che sono quelli che indossa rapidamente.

Raccatta anche il telefono, lasciato nella tasca anteriore dei jeans. Lo sblocca, picchiettando con un dito sullo schermo.

Deglutisce rumorosamente e lancia un'occhiata a Simone, a letto a meno di un metro di distanza.

Allarme.

Manuel apre una delle conversazioni di WhatsApp, una abitudinaria.

Digita rapido un messaggio e preme invio.

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