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21. L'altro

IL VELENO DEL SERPENTE

. 21 .

L'altro

Eneas e la sua squadra avevano appena finito il turno di guardia all'armeria e stavano tornando in camera per riposarsi un attimo prima della cena.

«Non ci posso credere che abbiamo studiato otto anni per questo» si stava lamentando Rico.

Erano rimasti tutto il giorno sull'attenti fuori dal locale, a controllare che non entrasse nessuno che non fosse autorizzato, e adesso a Eneas facevano male i piedi e la schiena. Alzò le braccia verso il soffitto, stiracchiandosi.

«Non ho nessuna voglia di ascoltarti mentre ti lamenti come un bambino» affermò Eugenio, che camminava in testa al gruppo.

Rico sbuffò.

«Rico ha ragione» lo difese Eneas. Se pensava che Jorge era stato ucciso per questo si sentiva invadere dalla rabbia. Diede un calcio all'aria.

«A me va bene così» mormorò Horacio. «Preferisco passare la vita a guardare una porta piuttosto che andare in guerra e morire. O vedervi morire.»

Calò il silenzio e nessuno disse più niente finché non raggiunsero la loro stanza. Davanti alla porta una figura li stava aspettando.

«Perché c'è De Soledad?» L'ansia era ben percepibile nella voce di Horacio. «Abbiamo sbagliato qualcosa?»

«Non penso che sia possibile sbagliare in quello che ci fanno fare» disse Eugenio a denti stretti.

Raggiunsero il Capitano e si fermarono di fronte a lui, con la schiena ritta e i piedi uniti.

«Riposo, soldati» disse lui e i ragazzi rilassarono la postura. «Fate i bagagli, vi aspetto qui fuori.»

«I bagagli?» chiese Eugenio. «Perché?»

Eneas ripercorse freneticamente la settimana appena trascorsa, ma non gli venne in mente niente per cui potessero cacciarli.

«Vi accompagno nella vostra nuova stanza. Da domani farete parte della guardia personale della Divina Principessa Aida.»

Eneas guardò il Capitano con gli occhi spalancati: non li stava mandando via, li stava promuovendo. Non capiva.

«Perché?» chiese.

De Soledad puntò gli occhi su di lui. Erano sottili e di un inusuale color mogano e fecero sentire Eneas a disagio.

«Questo dovresti dirmelo tu, Eneas.»

«Io?»

«È stata la principessa in persona a chiedere di te.»

«La principessa ha chiesto di Eneas?» ripeté Rico, come se dirlo due volte potesse renderlo più credibile.

Il cuore di Eneas prese a battere più veloce. Non solo la principessa si ricordava di lui, ma dopo tutti quegli anni lo voleva al suo fianco. Eneas non riusciva a spiegarsi perché: era sicuro di non aver fatto una bella impressione, la notte dell'attacco di Kozan. Era già tanto se non l'aveva uccisa per sbaglio con la spada.

«Sì» confermò De Soledad. «E adesso muovetevi a fare i bagagli.»

I ragazzi entrarono nella stanza e rifecero in fretta le valigie appena svuotate.

«Tu sai qualcosa? Perché ti conosce? Me lo dici?» continuava a chiedergli Rico mentre ficcava con forza le divise di scorta nel borsone, senza piegarle.

«Lasciami stare» lo scacciò Eneas e Rico si allontanò offeso. Pazienza, lo avrebbe perdonato. Ora non aveva voglia di rispondere alle loro domande, anche perché non sapeva cosa dire.

Il Capitano li portò al primo piano, in un corridoio in fondo al quale si stagliava un grande portone dorato presidiato da tre soldati.

«Quelli sono gli appartamenti privati della famiglia reale» spiegò De Soledad. «La vostra stanza invece è questa.»

Aprì una porta e li condusse in un locale molto più spazioso e meglio arredato di quello che avevano appena lasciato. Era un salottino, su cui si affacciavano altre due porte.

«Lì ci sono le camere da letto, ognuna con un bagno.»

I quattro ragazzi rimasero sulla soglia, le valige in mano. Eneas non credeva ai suoi occhi: era il posto più lussuoso in cui avesse mai alloggiato in tutta la sua vita. Il cuore gli si fece pesante come una spugna inzuppata: se ci fosse stato Jorge, sarebbe stato un momento perfetto.

Il Capitano fece per andarsene, ma esitò un istante. «Eneas» disse poi. «Domani, dopo il turno vieni nel mio ufficio.» E chiuse la porta alle spalle dei ragazzi.

«Perché...» iniziò Rico, ma Eneas lo bloccò subito.

«Non lo so, basta con le domande.»

Rico incrociò le braccia sul suo ampio petto, ma non aggiunse nulla ed Eneas gliene fu grato. Si divisero nelle stanze – Rico ed Eneas in una, Eugenio e Horacio nell'altra – e, dopo aver preso possesso dei letti, che non erano a castello, si radunarono di nuovo nel salottino.

«Qualunque cosa tu abbia fatto, Eneas, avresti potuto farla prima» lo prese in giro Eugenio.

Eneas rise, mentre Rico si guardava intorno, aprendo ogni cassetto che gli riusciva di trovare.

«Incredibile» continuava a mormorare. «Incredibile.»

Eneas si lasciò cadere su un divano accanto a Horacio. Era tutto così assurdo che si dimenticarono persino di scendere a cenare e andarono a dormire nutriti soltanto della loro meraviglia.

Dopo un tempo indefinito, Eneas si svegliò di colpo con la sensazione di affogare. Dalla finestra filtrava una tenue luce lattiginosa che rischiarava appena la stanza: Brann doveva essere appena sorto.

Si sedette sul letto e premette forte una mano sul petto, prendendo respiri profondi. Gemette. Una rabbia sconosciuta gli attraversava il corpo a ondate ed Eneas la rimandò giù con la saliva, sperando di soffocarla nel fondo del suo stomaco.

Era una settimana che si svegliava così, con quella rabbia che gli premeva dentro, così forte che Eneas temeva che sarebbe esploso.

Io sono Eneas Lodo, si disse.

Un crampo alle braccia gli fece contrarre i muscoli ed Eneas sentì tutto il suo corpo irrigidirsi e pulsare. Per un istante le sue braccia rifletterono la pallida luce, espandendo bagliori dorati sulle pareti bianche in penombra.

Io sono Eneas Lodo.

Il battito del cuore nelle orecchie copriva qualunque altro suono. Un'altra ondata di rabbia gli risalì nell'esofago ed Eneas tossì, nel tentativo di sputarla, ma sul suo letto atterrò solo un grumo biancastro di saliva.

Io sono Eneas Lodo.

Questa volta lo urlò nella testa e lentamente i muscoli si rilassarono e il cuore decelerò il battito. Eneas riprese a respirare normalmente.

Quando si fu calmato si voltò verso Rico, ma l'amico non si era accorto di nulla e dormiva profondamente, emettendo dei sibili dal naso. Eneas rimase seduto sul letto, a guardare la luce lattiginosa farsi sempre più forte.

Ogni mattina sperava che fosse l'ultima volta: gli sembrava sempre di essere riuscito a riprendere il controllo di sé, eppure il giorno dopo si trovava di nuovo a soffocare in una rabbia non sua, con le viscere che cercavano di rompere gli argini del corpo. Si diceva che non sapeva cosa stava succedendo, ma non era vero. Era la stessa sensazione che aveva provato durante la prova finale, solo in versione più debole. Finora era riuscito a contenerla, ma se un giorno non ne fosse stato in grado... Non sapeva cosa sarebbe successo.

Strinse con forza la coperta nei pugni e vi affondò la faccia, soffocando un urlo. Cosa gli avevano fatto? Cosa era diventato?

Quando lasciò il lenzuolo si rese conto che, stringendolo, lo aveva strappato. Non era la prima volta durante quella settimana che gli capitavano cose simili. Gli oggetti gli si deformavano tra le mani, come se avessero cambiato consistenza, diventando più fragili. Il giorno precedente era rimasta la forma delle sue dita sulla maniglia del bagno.

Eneas aveva paura di se stesso, di cosa sarebbe potuto succedere se avesse perso il controllo e fosse diventato l'altro. Aveva cominciato a chiamare così la versione rabbiosa di sé.

L'altro, quello che non conosceva e non sapeva gestire. E che lo spaventava. Sapeva che aveva bisogno di aiuto, ma una parte di lui sapeva anche che non poteva dirlo a nessuno. Aveva paura che, se fosse trapelato, lo avrebbero catturato e imprigionato. Ma non era l'unico motivo: la realtà era che se ne vergognava. Perché agli altri non era accaduto niente di simile? Voleva dire che lui era debole, che come soldato aveva fallito. Ma lui non poteva fallire. Lo doveva a sua madre e, soprattutto, lo doveva a se stesso.

Ma forse oggi era riuscito davvero a sconfiggere l'altro. Forse domani sarebbe stato diverso. Sarebbe stato se stesso e basta.

Non riuscì più ad addormentarsi e aspettò, sdraiato a guardare il soffitto, che anche Rico si svegliasse.

Quando furono tutti pronti, scesero a fare colazione e, al loro ritorno, trovarono un soldato con la divisa blu della Guardia Interna ad aspettarli davanti alla porta. Faceva parte della scorta personale della principessa Aida e avrebbe spiegato loro cosa fare.

Li portò oltre il grande portone dorato e fece fare loro un rapido giro delle stanze, indicando chi alloggiava dove.

«Questi sono gli appartamenti della principessa Aida» disse, fermandosi davanti a un ingresso uguale a tutti gli altri, presidiato da quattro soldati che li salutarono. «Qualcuno della sua guardia deve sempre controllare che nessuno entri senza il permesso della principessa, sia quando lei c'è sia quando non c'è. La principessa può muoversi liberamente nella zona degli appartamenti privati, ma deve essere scortata se esce dal portone dorato per andare altrove nel castello. Tutto chiaro?»

I ragazzi annuirono.

«Bene. Se la principessa vi chiede qualcosa, la fate senza discutere e nel minor tempo possibile, a meno che contrasti con le semplici regole che vi ho detto prima.» Fece una pausa. «Oltre a voi, la sua guardia personale conta quattordici soldati, un numero più che sufficiente.»

Li squadrò per un istante e ad Eneas fu chiaro il sottotesto: non c'era alcun bisogno di voi. Poi riprese: «Dal momento che non possiamo lasciare la principessa sola con dei soldati appena arruolati, per queste prime settimane la vostra squadra verrà divisa e mischiata con gli altri soldati della guardia personale.»

Indicò Eneas e Eugenio. «Voi due restate qui per il primo turno, voi altri invece venite con me.»

Si allontanò con Rico e Horacio, seguiti da due delle guardie che erano davanti alla porta e che Eneas e Eugenio si apprestarono a sostituire.

«Quindi in pratica dobbiamo stare fermi a guardare chi passa e chi entra, giusto?» chiese conferma Eugenio, in tono neutro.

Gli altri due soldati annuirono.

Eneas si ritrovò a pensare che in fondo non era un grande miglioramento rispetto al compito che aveva svolto fino al giorno prima. Comunque si mise ritto accanto all'uscio, senza lamentarsi. Calò il silenzio ed Eneas cominciò con l'analisi che periodicamente faceva del suo corpo, per verificare di non stare per avere un'altra crisi, ma tutto sembrava tranquillo. Non si sentì rassicurato. Cos'avrebbe fatto se gli fosse capitato durante il giorno, sotto gli occhi di tutti?

Sperò che qualcuno parlasse, per distoglierlo dai suoi pensieri, ma nessuno aprì bocca, né i suoi compagni né gli altri soldati che presidiavano le porte lungo il corridoio.

Dopo un tempo indefinito, il battente alle sue spalle si aprì ed Eneas si voltò, preso alla sprovvista. Per un istante i suoi occhi incontrarono quelli castani della principessa, che si fermò a metà di un passo. Poi Eneas si ricordò di chinare il capo.

La principessa lo superò e lui sentì il suo profumo dolce, lo stesso che aveva quella notte di tanti anni prima e qualcosa, dentro di lui, ebbe un fremito. Aida si avviò verso il portone dorato e, senza dire niente, una delle due guardie la seguì, facendo poi un segno ad Eneas quando vide che né lui né Eugenio si erano mossi. Eneas si precipitò dietro di lui e lo affiancò, alle spalle della principessa.

I suoi capelli rossi erano raccolti in una crocchia elegante sulla nuca e lasciavano scoperte le spalle sottili, coperte appena da una stoffa azzurra dall'aspetto fragile. Non aveva mai potuto osservarla così a lungo e da così vicino e ora non riusciva a toglierle gli occhi di dosso.

La seguirono fino a che non entrò in una stanza, poi lei si sedette al grande tavolo rettangolare posto nel centro, mentre Eneas e l'altra guardia si disposero lungo i muri. A parte il tavolo e gli arazzi dorati alle pareti, la stanza era vuota. Subito dopo la principessa, fecero il loro ingresso anche un giovane con i baffi e i capelli biondi tirati indietro che prese posto accanto ad Aida, un uomo più vecchio che gli assomigliava molto, il Maggiore Ombrillado e una decina di persone che si confusero davanti agli occhi di Eneas. Per ultimi, entrarono la principessa Marisol e il Principe, seguiti da una moltitudine di guardie personali che tappezzarono le pareti.

Eneas ebbe un sussulto. Mai aveva potuto vedere il Principe così da vicino. Si era aspettato che avrebbe sentito qualcosa, se gli fosse capitato, anche se non sapeva nemmeno lui cosa: una scossa, una scarica di energia, un'onda della sua divinità che gli avrebbe lambito il corpo. E invece non provò niente di tutto questo, solo un forte senso di disagio che lo portò subito ad abbassare il capo e guardarsi i piedi.

Solo quando furono tutti seduti osò sollevare gli occhi, con circospezione, e puntarli sulla sua figura divina. Era un uomo alto e magro, con i capelli bianco-grigi ben pettinati sulla testa. Sarebbe potuto passare per una persona qualunque se non fosse stato per gli abiti preziosi e la postura: teneva le spalle ben dritte e aperte, la testa alta e fissava tutti con uno sguardo così sicuro di sé che Eneas non avrebbe mai osato contraddirlo.

«Grazie per essere venuti tutti con così poco preavviso» esordì il Principe. «Vi ho convocati per parlare delle nuove strategie commerciali che metteremo in atto nei confronti del Regno di Svetia.»

Il giovane con i baffi che si era seduto accanto ad Aida prese la parola e incominciò un discorso che Eneas non riuscì a seguire del tutto, qualcosa che aveva a che fare con la vendita di metalli e in cambio l'acquisto di armature. Eneas si concentrò invece sulla principessa: ascoltava con attenzione, fissando con espressione seria l'oratore, e sembrava pronta a intervenire in caso di necessità, anche se non ce ne fu bisogno.

Nel momento in cui il giovane con i baffi finì il suo discorso e cominciò a parlare un altro uomo voltato di schiena, Aida si girò verso Eneas e ne incrociò lo sguardo. Lui si affrettò ad abbassarlo, con il cuore che gli batteva forte nel petto per essere stato scoperto. Quando osò guardarla di nuovo, di sottecchi, lei lo stavo ancora osservando.

In quel momento, senza nessun contesto, Eneas realizzò che, se Jorge era morto, era anche colpa della principessa. Era sempre stato scontato, ma nel cervello di Eneas c'era qualcosa che si rifiutava di collegare quella tremenda colpa alla ragazza che aveva davanti. Fin da quella notte, Eneas si era sentito legato a lei in uno strano modo che non sarebbe mai riuscito a spiegare: non si conoscevano, avevano scambiato solo qualche parola diffidente e priva di amicizia, eppure la sentiva vicina in un modo irrazionale. Tutte quelle ore passate uno accanto all'altro – le braccia che si toccavano – all'interno del drago di ferro, in silenzio e pieni di paura, con il cielo che vegliava sopra di loro, avevano creato un legame che andava oltre la logica. O almeno così pensava Eneas. Non aveva mai considerato possibile che anche la principessa potesse provare qualcosa nei suoi confronti, ma ora cominciava a ricredersi.

Per questo non riusciva ad associarla all'uccisione del suo amico. Jorge e Aida, vittima e carnefice, lei come il resto della sua famiglia. Era così, eppure Eneas non riusciva a capacitarsene.

Quando l'aveva vista stare male alla Festa della Dinastia aveva provato il desiderio di proteggerla, come se fosse una fragile creatura in procinto di spezzarsi, ma era tutta apparenza. Lei era la Principessa di Portonovo, l'erede al trono. Era la creatura più potente di tutto il Principato, seconda solo a suo padre: bastava una sua parola per radere al suolo una città, un suo gesto per mandare a morire al fronte centinaia di soldati.

Un suo battito di ciglia per avvelenare delle reclute.

Per uccidere Jorge.

Come aveva anche solo potuto pensare che una creatura così potesse avere bisogno del suo aiuto? In confronto Eneas si sentì una nullità. Aveva sempre saputo di non essersi arruolato per nobili motivi –difendere il Principe non gli era mai interessato, lui voleva solo poter mangiare tutti i giorni – eppure durante tutti quegli anni di allenamento si era convinto che fosse una cosa giusta, che combattere per il Principato fosse un onore. E poi, anche se non lo avrebbe mai detto a nessuno, sperava un giorno di rivedere Aida. Ma ora che aveva superato tutte le prove e ce l'aveva davanti, in carne, ossa ed essenza divina, si sentiva come se avesse perso. Si sentiva tradito.

Non sapeva cosa si aspettava dal loro incontro, ma di sicuro non immaginava che l'avrebbe incolpata per la morte di qualcuno a cui teneva, qualcuno che era diventato la sua famiglia. Eppure era così e in quell'istante, guardandola, Eneas non sentì più il desiderio di proteggerla, anzi: se in quel momento qualcuno fosse entrato nella stanza e avesse cercato di uccidere lei o la sua famiglia, Eneas non avrebbe mosso un muscolo. Che li ammazzassero pure.

Eneas sentì le braci della rabbia che aveva spento quella mattina accendersi di nuovo nel suo petto.

No, non poteva permettere che accadesse di nuovo, non in quel momento.

Io sono Eneas Lodo.

Cercò di concentrarsi su tutte le cose positive che diventare un soldato aveva portato con sé, e a voler ben guardare ce n'erano molte: vitto e alloggio, degli amici sinceri e fedeli, un futuro, mentre le persone nelle Paludi morivano di fame e di stenti. Ma ogni cosa perdeva di brillantezza di fronte alla perdita di Jorge e il futuro gli appariva opaco. Ora che aveva superato la prova non aveva più niente a cui puntare, avrebbe solo dovuto difendere la principessa fino alla fine della sua vita ed Eneas di colpo si sentì stanco e vecchio.

La rabbia nel suo petto si estinse.

Intanto le persone intorno al tavolo erano giunte al termine della discussione, di cui Eneas non aveva seguito una parola.

«Allora faremo così» disse il Principe. «Signor Tiburòn, fate sapere al più presto a Svetia le nuove condizioni.»

«Me ne occuperò io al posto di mio padre» intervenne il giovane con i baffi. «Una nave partirà domattina con un messaggero fidato.»

«Preferirei che ci andaste voi di persona, Salvador.»

Il giovane – ora che lo guardava con più attenzione Eneas si accorse che era lo stesso che aveva visto litigare con la principessa Marisol, alla festa – si voltò fugacemente verso Aida e il suo viso si contrasse in un'impercettibile smorfia. Poi annuì. «Come desiderate, Vostra Altezza. Conto di essere di ritorno nel giro di una settimana, se uso una delle ultime navi acquisite dalla flotta dei Tiburòn.»

«Molto bene, se nessuno ha altro da aggiungere la riunione è finita.»

Tutti si alzarono e lasciarono la stanza, a eccezione del Principe e delle sue figlie. Eneas rimase al suo posto, con le altre guardie delle scorte personali.

«Da quando tu e Salvador andate così d'accordo da mettervi a fare piani insieme?» sbottò Marisol, quando la porta si fu chiusa.

«È capitato, Sol, non l'avevo preventivato.»

Marisol puntò uno sguardo infuocato sulla sorella, come se l'avesse appena tradita.

«Mi sembra che tutto sia andato per il meglio» disse il Principe, ignorando il battibecco tra le ragazze. «Se Svetia accetta le nostre condizioni, anche le sorti della guerra dovrebbe volgere a nostro favore.»

Poi si voltò verso Aida. «Hai fatto un ottimo lavoro, sarai una sovrana perfetta per Portonovo.»

Un silenzio profondo calò nella stanza.

«Vado da Bel» disse poi Aida, senza rispondere al complimento del padre. Si avviò verso la porta ed Eneas si affrettò a seguirla.

La principessa tornò nella zona degli appartamenti privati per non uscirne più e per tutto il resto del giorno Eneas non ebbe altro da fare che sorvegliare porte chiuse. Quando finalmente finì il suo turno, avrebbe solo voluto andare a riposare, ma era già davanti alla sua stanza quando si ricordò che De Soledad gli aveva detto di raggiungerlo nel suo ufficio.

Si fece accompagnare fino alla porta e bussò, entrando non appena una voce dall'altra parte gli diede il permesso. Esitò sulla soglia.

«Vieni» gli disse il Capitano, mentre si alzava dalla scrivania. Si era tolto la giacca verde della divisa – in effetti Eneas non sapeva perché passasse così tanto tempo a palazzo, visto che apparteneva alla Guardia Esterna – e indossava solo una camicia con le maniche tirate su ai gomiti.

Eneas si fece avanti e raggiunse il centro della stanza. Guardandosi intorno, si rese conto che tutti i mobili erano stati spostati e addossati alle pareti, in modo da lasciare un ampio spazio vuoto nel mezzo. Il ragazzo corrucciò le sopracciglia e fissò De Soledad.

«Come ti senti, Eneas?» chiese il Capitano, fermandosi a un paio di passi da lui.

Il ragazzo trovò molto strana quella domanda.

«Bene.»

De Soledad scosse la testa, come se non approvasse la risposta.

«Ti sei sentito strano in questi giorni?»

Eneas si irrigidì. Il Capitano non poteva saperlo. O forse sì? Magari lo stava mettendo alla prova, per vedere se potevano fidarsi di lui, nonostante quello che era successo durante la prova. Nonostante tutti i suoi dubbi, non poteva farsi cacciare da palazzo perché non avrebbe avuto nessun altro posto dove andare.

Stava per rispondere qualcosa e colmare il silenzio, ma De Soledad lo precedette.

«Spero che tu non sia ancora sconvolto per la morte del tuo compagno di squadra.»

«Cosa?» Eneas non si aspettava una simile uscita.

«Immagino tu abbia capito che è giusto così» continuò il Capitano, guardandolo fisso con i suoi affilati occhi color mogano. «Era debole e i deboli sono inutili.»

«Jorge non era un debole» affermò Eneas a denti stretti. Non avrebbe dovuto contraddire un suo superiore, ma non era riuscito a trattenersi.

«Lo era e la prova lo ha individuato, eliminando le erbacce inutili dal grande e forte albero che è l'esercito di Portonovo. Lui e tutti gli altri che sono morti.»

Eneas sentì di nuovo quel fuoco ardergli dentro. Strinse forte i pugni, cercando di sedarlo, ma il respiro si fece più corto e difficoltoso.

«È un bene che Jorge sia morto» ripeté il Capitano. «Dovresti esserne felice anche tu, sarebbe stato solo un parassita per la tua squadra.»

Io sono Eneas Lodo, si disse, ma le parole di De Soledad erano più forti. La rabbia dentro di lui ardeva e si faceva strada verso l'involucro esterno del suo corpo.

«Jorge era un perdente.»

Senza che Eneas potesse evitarlo, si slanciò verso il Capitano, il pugno destro diretto verso il suo volto, ma con un movimento rapido De Soledad alzò un avambraccio e lo bloccò. Eneas cercò quindi di colpirlo alle gambe con un calcio laterale, per farlo cadere, ma ancora una volta il Capitano fu più veloce e lo schivò.

«Anche tu sei un perdente, Eneas» gli mormorò a un palmo dal viso. «Non avresti mai dovuto lasciare la palude da cui sei uscito.»

Eneas sentiva la rabbia bruciargli la pelle e con, una forza e una rapidità che non sapeva di possedere, tentò ripetutamente di colpire De Soledad, con affondi sempre più incalzanti. Anche il Capitano si fece ancora più veloce, riparandosi con gli avambracci ma senza cercare di colpirlo a sua volta. Poi all'improvviso scattò di lato ed Eneas si sentì afferrare da dietro. De Soledad lo strinse in un abbraccio d'acciaio che gli teneva le braccia ferme lungo i fianchi, rendendo impossibile qualunque movimento.

«Va tutto bene, Eneas» gli disse, con un tono conciliante molto diverso da quello che aveva usato fino a quel momento.

Eneas si divincolava, nel tentativo di fuggire da quell'abbraccio che lo teneva prigioniero. Cercò di mordere le braccia del Capitano o di colpirlo alla cieca con le gambe, ma senza successo.

«Eneas, ascoltami. Ricordati chi sei.»

«Io sono Eneas Lodo» mormorò.

«Esatto, sei Eneas Lodo. Non dimenticarlo.»

Eneas sentì la rabbia affievolirsi e si accasciò nella stretta del Capitano. Guardò le braccia che lo stringevano e solo in quel momento si accorse che erano ricoperte da traslucide scaglie dorate che riflettevano la luce delle lampade a gas.

Subito Eneas guardò le proprie mani e le vide ricoperte da una corazza squamosa, che lentamente venne riassorbita dalla pelle.

De Soledad lo lasciò andare e lo guidò fino a una sedia. Eneas ci si lasciò cadere sopra e l'altro si sedette davanti a lui.

«Come ti senti, Eneas?»

Ma lui non rispose, non sapeva cosa dire.

«Mi dispiace per le cose che ho detto» si scusò. «Non ne penso nemmeno una, ma dovevo farti arrabbiare.»

«Perché?» Eneas aveva la bocca secca e le parole uscivano a fatica.

«Perché non mi avresti mai detto sinceramente come stavi e dovevo verificarlo con i miei occhi.»

Eneas non rispose. Cercò di sostenere lo sguardo del Capitano, ma i suoi occhi pungenti lo facevano sentire a disagio e abbassò i propri. Mai come in quel momento si era sentito un perdente, nemmeno quando era solo un bambino della Palude che viveva negli escrementi altrui.

«Adesso ascoltami attentamente, ho bisogno che tu ti fidi di me. Voglio aiutarti.»

«Perché?»

«Quello che ti è successo durante la prova è stato un effetto collaterale dell'Essenza.»

«Cos'è l'Essenza?»

De Soledad esitò. «Non dovrei rispondere a questa domanda, ma lo farò. Tu però devi promettere che non lo dirai a nessuno. È un segreto che sanno pochissime persone oltre alla famiglia reale. Il segreto alla base dell'esercito di Portonovo e della corona della famiglia Delmar.»

«E perché me lo state dicendo allora?»

«Perché avrei voluto che qualcuno lo avesse detto a me, quando mi sono trovato nella tua situazione.»

Eneas si raddrizzò sulla sedia. Anche a Rafael De Soledad, eroe di Portonovo, era successo? Non riusciva a crederci.

«Me lo giuri?» lo esortò il Capitano.

«Lo giuro.»

L'uomo fece una pausa, per valutare la sincerità di Eneas. Tutto il suo corpo era sottile e affilato, e trasmetteva un'idea di forza, ma non la forza della pietra che prima o poi si sbriciola e si spezza; piuttosto la forza degli alberi, che si flettono durante le tempeste senza mai piegarsi.

«Conosci le leggende sui takul alhajar?»

«I draghi del deserto?» chiese Eneas, ricordando le parole del mercante che aveva accompagnato a Sahamal.

«Esatto. In bocca possiedono una ghiandola che contiene un potente veleno, che una volta distillato e diluito prende il nome di Essenza.»

«E cosa c'entra con la prova finale?» chiese Eneas, anche se stava cominciando a capire.

«Nel bicchiere che avete bevuto c'erano tre gocce di Essenza.»

Li avevano avvelenati per davvero.

«Volevano ucciderci?» Eneas scattò in piedi.

«In dosi così piccole non è letale.» De Soledad fece una pausa e poi aggiunse: «Nella maggior parte dei casi.»

«E allora perché?»

«L'Essenza dona forza e velocità a chi ne fa uso. Te ne sarai accorto.»

Eneas pensò alla maniglia deformata e annuì.

«I tuoi riflessi diventeranno eccellenti e tutte le tue abilità fisiche saranno potenziate, raggiungendo livelli che altrimenti ti sarebbero stati per sempre preclusi. È a questo che serve l'Essenza, a rendere invincibile l'esercito di Portonovo.»

Eneas non riusciva a credere a quello che stava sentendo. Era tutto così sbagliato, come se gli stesse dicendo che il Principe aveva deciso di trasferirsi nella Palude Sud.

«Una volta hanno provato a somministrare l'Essenza alle reclute del primo anno, così da sfruttarne fin da subito i vantaggi, ma erano morti quasi tutti. Per questo la si usa nella prova finale, dopo che il corpo è stato temprato da anni di esercizio.»

«Sono i mercanti che portano l'Essenza da Sahamal?»

«Sì, in mezzo alle altre mercanzie.»

Eneas strinse i pugni al pensiero che magari era stato lo stesso Jorge a consegnare nelle mani della principessa la sostanza che lo aveva ucciso.

«Per la maggior parte della gente la prova finale non è altro che una brutta esperienza che però termina lì. Ci sono persone invece su cui ha un effetto molto più intenso, tipicamente chi ha sangue sahamaliano. Hai parenti che vengono da lì?»

«No, non credo» disse Eneas, ma in realtà non lo sapeva. Nelle Paludi l'albero genealogico ha ben poca importanza.

«Mia madre è di Sahamal» spiegò De Soledad ed Eneas si trovò ad osservare la sua pelle ambrata, di poco più scura della propria.

«Queste persone durante la prova rischiano di trasformarsi in un takul alhajar.»

Eneas ripensò alla sensazione del proprio corpo che si espande, alla mancanza di controllo e alla rabbia e rabbrividì.

«Quelli che non riescono a invertire il processo muoiono. Chi invece riesce a tornare padrone di sé, sopravvive, ma per tutta la vita dovrà convivere con il serpente che gli si è annidato dentro e che vuole uscire e prendere possesso del corpo che lo ospita.»

Dentro di me vive un serpente, pensò Eneas.

«Se qualcuno lo venisse a scoprire, ti ucciderebbero. Sei diventato qualcosa fuori dal loro controllo e per questo sei pericoloso. Ma se imparassi a tenere a bada il mostro, avresti davanti a te un grande futuro.»

«Perché fate questo? Perché volete aiutarmi?»

«Quando hai perso il controllo durante la prova, ho pensato che saresti morto. E invece hai sentito le mie parole e sei tornato in te. Posso immaginare come ti senti ora, perché ci sono passato anch'io. All'epoca ero giovane e spaventato e non c'era nessuno che potesse darmi una mano. Per questo voglio aiutarti, perché non debba passare anche tu attraverso le difficoltà che ho dovuto attraversare io, da solo.»

Lo guardò fisso negli occhi ed Eneas sentì che con quello sguardo stavano sigillando un patto.

«Per quanto ne so, attualmente in tutto l'esercito ci siamo solo io e te. Se qualcun altro è nella nostra situazione, lo tiene ben nascosto e così dobbiamo fare anche noi.»

«Quindi mi state aiutando solo per... altruismo

«Sì. E anche per evitare che tu distrugga tutto. Lo trovi così incredibile?»

«Sinceramente sì.»

De Soledad fece un sorriso triste. «Ci sono già abbastanza nemici là fuori, non serve che ci complichiamo la vita tra di noi.» Il Capitano strinse la mano sinistra sulle ginocchia ed Eneas vide il vuoto lasciato dalla falange del mignolo che gli era valso una promozione.

«Ogni giorno, dopo il tuo turno, vieni qui: ti aiuterò a gestire il mostro finché smetterai di temerlo.»

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