4 Vedi di imparare, ma non troppo in fretta
A volte erano le due, a volte erano le tre, era capitato anche che fossero le tre e mezza di notte: quelli erano gli orari critici. Se per un qualche motivo a quell'ora ero ancora sveglia o, peggio ancora, mi svegliavo, era un casino.
Il cervello mi si attorcigliava intorno allo stomaco o viceversa. C'era una sola via d'uscita dallo stato d'ansia: muovermi.
Era abbastanza naturale che accadesse anche quella notte, la mia prima in assoluto alla base 17.
La giornata era trascorsa come tutte le prime giornate in qualche base ELA: addestramento, insubordinazione, spedizione dal capo, ramanzina, di nuovo addestramento.
Nel pomeriggio Xavier si era vagamente risentito quando avevo sgomitato un deficiente che aveva cercato di sorpassarmi durante la corsa di riscaldamento.
Poi si era innervosito quando avevo spintonato lo stesso tizio per riprendermi il mio posto in corsia.
Infine si era proprio incazzato quando allo stronzo che insisteva a starmi davanti avevo urlato in faccia la migliore definizione per lui: 'stronzo', appunto. Poi forse lo avevo fatto cadere calciandogli una caviglia durante la corsa. Ma magari era anche inciampato da solo, eh. Xavier non poteva avere l'assoluta certezza che il troglodita fosse rotolato nella polvere per colpa mia. Ma siccome aveva l'assoluta certezza che la caduta fosse avvenuta proprio mentre urlavo la parola 'stronzo' al cretino, si era sentito in dovere di mandarmi di filato da Wolf. Un'esagerazione, a parer mio.
E forse anche secondo il parere di Wolf, dato che mi aveva liquidata con due frasi di circostanza, un paio di raccomandazioni, una minaccia fiacca e l'invito a tornare ad allenarmi senza, cito testualmente, 'altre inutili e infantili rotture di coglioni'.
Avrei voluto rispondere che la rottura di coglioni era stata originata dal suo comandante in seconda, ma la ritenni una precisazione inutile: non c'erano dubbi sul chi mi avesse spedita nel suo ufficio per futili motivi.
A onor di cronaca, quel giorno, a fare la spola tra addestramento e lavata di capo da Wolf, fummo in tre.
Ero però abbastanza certa di essere la sola a camminare in circolo nella mia stanza alle due e tre quarti di notte.
Cody mi guardava attendendo solo un segnale.
Ma non avrei avuto altre prime notti, alla base 17. Forse inseguire la soddisfazione del mio bisogno non era la cosa giusta da fare. Non quella notte. Magari la seconda, o la terza. O la decima notte. Ma la prima? Non conoscevo le abitudini degli altri membri e non avevo confidenza con le distanze tra gli edifici. Poteva essere una cazzata.
Beh, era sicuramente una cazzata, ma il problema delle cazzate non sono le cazzate stesse. Il problema sono le cazzate che vengono scoperte.
Ma I minuti, imperterriti, si susseguivano mentre io mi mangiavo le unghie misurando il perimetro della stanza per la centesima volta. Senza riflettere sul significato di quello che stavo facendo, o forse sì, ma va beh, mi cambiai. Infilai un po' di cose in uno zainetto. Poi ricominciai a camminare avanti e indietro fustigando le unghie con I denti. Finché scoccarono le 3, l'orario di chiusura dei bar dei dormitori.
«Fanculo. Andiamo.»
Cody scattò come se gli avessi premuto il tasto d'accensione.
Con lo zainetto sulle spalle aprii la porta piano, perché non ricordavo se cigolava. Erano molte le cose che avrei dovuto imparare a conoscere, ricordare, dominare e aggirare in quel posto nuovo.
In cima alla rampa di scale valutai cosa fosse più stupido: se accendere la luce allertando qualche altro membro insonne, o non accenderla e spaccarmi l'osso del collo scendendo gradini con cui non avevo ancora stretto un'alleanza.
Ovviamente optai per la seconda, che era sia stupida che pericolosa perché mi piaceva elevare le stronzate all'ennesima potenza.
Scesi piano, uno scalino alla volta, con una mano stretta intorno al collare di Cody per accertarmi che a spaccarsi l'osso del collo non fosse lui.
Il mio cane non era né agile né sveglio né in grado di vedere al buio come I gatti. Ma forse aveva sette vite. Solo che ne aveva già sprecata qualcuna.
Impiegammo un'eternità ad arrivare di sotto, e me ne bastò la metà per capire quanto stessero diventando faticosi per Cody, ormai anziano, gli scalini in discesa.
Archiviai in un angolo del cervello il vago senso di colpa che mi colpì realizzando che nel pomeriggio avevo messo il mio orgoglio davanti alle sue necessità.
Fuori la notte era un po' troppo umida, poco piacevole, nonostante fosse ormai primavera.
Giunti alla mia destinazione, Cody si appostò scodinzolante davanti all'entrata dell'edificio. Sapeva.
Io fiancheggiai il muro, finché giunsi sotto il vasistas semi aperto. Appoggiai la mano sulla superficie ruvida della parete. A occhio e croce, da terra al tetto erano circa sette metri e mezzo, forse otto. Non c'erano grondaie, nè alberi, nè cassonetti su cui potermi arrampicare. Ogni mezzo metro circa, però, potevo contare su minuscole fughe poco profonde che attraversavano in orizzontale l'intero edificio. In apparenza erano puramente estetiche. Infilai il polpastrello nella prima fuga.
Qualche millimetro di profondità. Era arrotondata e smussata da anni di pioggia e vento.
Mi strinsi meglio lo zainetto intorno alle spalle e mi preparai. Era una notte serena, non avrei dovuto lottare contro le intemperie, e dato che non avevo voglia di complicami ulteriormente la vita da sola potevo anche contare su magnetite per le mani e scarpe da arrampicata.
Infilai la punta del piede nella prima fessura della parete, e mi aggrappai con le dita a quella sopra la mia testa.
Nell'innalzarmi verso l'alto dovetti prendere atto del materiale friabile del muro. Dovevo solo tastare con maggior attenzione I solchi per trovare il punto più resistente piuttosto che quello più spazioso in cui infilare I polpastrelli. Era meno pericoloso perdere la presa con un piede che con le dita, ed era una bene, dato che mi era più semplice fare una valutazione con le mani nude che con la punta della scarpa.
Feci partire il cronometro al polso: nuove scalate, nuove pareti, nuove sfide e nuovi tempi da migliorare. La base 17 era la mia nuova arena.
Al vasistas arrivai in meno di quattro minuti: era un rettangolo di dimensioni decisamente ridotte: una base di una quarantina di centimetri e un'altezza che a stento arrivava a trenta. L'apertura del vetro era verso l' alto e verso l'interno dell'edificio: il più scomodo possibile, quindi. Ma dato che fino a quel momento era andato tutto bene, mi ero aspettata almeno quell'ostacolo. Senza contare che non avevo idea di quello che poi avrei trovato all'interno: qualche appoggio? O il nulla per gli oltre sette metri che mi separavano dal pavimento? Naturalmente avevo scelto di arrampicarmi lungo la parete priva di vetrate, altrimenti non sarebbe stata una sfida decente.
Potendo infilare la mano all'interno della feritoia mi potei aggrappare agevolmente al telaio fisso interno del vasistas ed estrarre dalla tasca una torcia con la mano libera.
A colpo d'occhio riconobbi I meccanismi, le cerniere e I bracci limitatori: non erano di ultima generazione, ma nemmeno particolarmente datati.
Con una sola mano a disposizione, avrei dovuto slacciare I bracci senza l'ausilio della luce della torcia, che tornò nella tasca, da cui presi invece un cacciavite a taglio.
Infilai il braccio all'interno, dalla parte più alta che era anche la più spaziosa, raggiungendo I bracci limitatori d'apertura a tentoni. Mi ci vollero parecchi tentativi e troppi minuti prima di sentire il meccanismo cedere. Dovetti ripetere l'operazione anche sull'altro lato, e finalmente il vasistas si spalancò rovesciandosi completamente verso il basso. Per fortuna le cerniere che lo tenevano agganciato al telaio fisso ressero, e non andò a schiantarsi a terra.
Sudata e con le dita doloranti mi issai all'interno facendomi di nuovo luce con la torcia.
Bene, quella era la parete degli spalti, quindi avevo tre metri in meno di distanza da coprire. Io ero alta un metro e sessanta, quindi se mi fossi aggrappata e lasciata cadere sarei atterrata sulle sedute più alte degli spettatori dopo un volo di circa due metri e mezzo.
Fattibile.
Lanciarmi nel vuoto non mi piaceva: I rischi non erano tutti gestibili, e una caviglia slogata o dolorante poteva essere l'elemento che trasformava un potenziale trionfo in una lapide col mio nome.
D'altra parte se non fossi stata disposta a correre inutili rischi mai e poi mai sarei finita in ELA.
Dovetti rinunciare nuovamente alla luce per aggrapparmi con entrambe le mani al bordo della finestra e atterrare nel modo più composto possibile, per quanto lo fosse per una come me: dotata di un femore più corto dell'altro.
Scivolai con il corpo lungo la parete e quando mi sentii pronta mi lasciai andare.
L'atterraggio fu tutt'altro che aggraziato ed elegante, ma funzionale. Mi voltai verso il buio quasi totale dell'immenso spazio in cui mi trovavo, che si inghiottì anche il mio sorriso soddisfatto.
La prima infrazione alla base 17 era stata tutto sommato apprezzabile.
Il giorno dopo qualcuno si sarebbe accorto del vasistas scardinato, ma non ci sarebbero state chissà quali conseguenze: stavo invadendo la piscina, non il Pentagono.
La serratura della porta antipanico dell'edificio era quanto più semplice ci fosse in commercio, dato che non c'era nulla di valore o di segreto da custodire.
Quando riuscii ad aprirla trovai Cody nella stessa posizione in cui l'avevo lasciato.
Lo feci mettere comodo a bordo piscina, dove avevo appoggiato la torcia per illuminare un po' l'ambiente. Mi liberai dei vestiti e dello zainetto, e con il mio costume sportivo mi calai nell'acqua fredda.
E fui nel mio elemento, quello in cui mi muovevo al pari di tutti gli altri, senza stupidi centimetri di troppo in una gamba o in meno nell'altra, a seconda della prospettiva da cui si giudicava la mia condizione. Quel mio difetto, in acqua, perdeva d'importanza, e a contare era una buona respirazione, delle bracciate ben eseguite e un movimento corretto delle gambe.
Mi concessi qualche vasca di relax, provando tutti gli stili di nuoto che conoscevo. Quando la temperatura dell'acqua smise di sembrarmi glaciale, mi rivolsi al mio cane.
«Stasera abbatto il muro dei due minuti, scommetti?»
Brontolò la sua risposta canina, e feci partire il timer al polso.
Mi lanciai, svuotando la testa da ogni pensiero cosciente. Lo stile libero non era il mio preferito ma era quello in cui, nei 100 metri, performavo meglio.
Affrontai le vasche quasi al buio, trovandolo consolante, alleato ideale per quella sfida contro nessuno e contro tutti. Era come non esistere, era come restare immersi in un nulla scuro ma senza minacce, un vuoto in cui ci si poteva perdere per sempre senza mai dover aver paura. Un posto senza ricordi sgradevoli, e senza radici recise. Senza domande, così da non sentire la mancanza delle risposte.
Finii le mie vasche.
Con un po' di delusione, lessi il mio tempo sul display. «Due minuti e zero uno...»
«È un buon tempo.»
Le luci trafissero l'intero ambiente, un'ondata improvvisa e violenta che mi ferì gli occhi.
«Ma che cazzo!» imprecai, coprendomi con un braccio per proteggermi da quella stilettata non richiesta di luce.
Sentii Cody affannarsi per tirarsi in piedi il più in fretta possibile, scivolando come un pirla sul pavimento umido. La sua urgenza non era dettata dal panico, ma dall'entusiasmo. Mi liberai gli occhi e mi ci volle un po' per abituarmi ad uscire dal buio in cui mi ero rifugiata con piacere fino a quel momento.
Quel traditore del mio cane fremeva per correre da quella sciacquetta di Ziva. Sbatteva le zampe e scivolava disteso come un salame, implorandomi con gli occhi di andare da lei.
Mi issai sedendomi a bordo piscina. «Vai, traditore che non sei altro» gli concessi, sfilando un accappatoio dallo zaino senza alzare lo sguardo su Wolf, di cui percepivo la presenza e coglievo la sagoma con la coda dell'occhio, senza il coraggio di scoprire quanto era incazzato da 100 a 1000.
«È un orario strano per farsi una nuotata, Mivato.»
Mi alzai lentamente, sperando di non apparire ridicola come quella povera creatura di Cody.
Ziva era seduta e impettita: ignorava con eleganza le evidenti avances di quel disperato del mio cane, privato persino dell'ombra della propria dignità, se mai era esistita.
«Pensi di restare bagnata e in silenzio fino all'alba?»
«No, pensavo di restare solo in silenzio, ma di asciugarmi, prima o poi.»
Alla fine I miei occhi incontrarono I suoi, senza trovarci la massiccia dose di rimprovero che mi ero aspettata.
«Lasciami dire che nuotare da sola di notte non è una scelta intelligente. Dubito che il tuo cane possa salvarti, in caso di malore.»
Drizzai le spalle. «In acqua Cody non ha difficoltà. Potrebbe soccorrermi.»
Fece due passi avanti, e all'improvviso mi sentii sparire dentro l'accappatoio.
«Soccorrerti, dici.»
«Esatto. Soccorrermi.» In un qualche modo, la mia voce era pregna di un'arroganza che sembrava appartenere a qualcun altro, in quel momento.
«Quindi secondo te sarebbe in grado di tirarti fuori dalla piscina. Magari saltare sul bordo e sollevarti afferrando il costume con I denti. O trascinarti su per la scaletta...»
«Beh... »
«E anche ammettendo che gli venisse bene questo mezzo miracolo, saprebbe poi correre a chiamare aiuto... »
«Questo sì! » Urlai. «Certo che potrebbe correre a chiamare I soccorsi!»
Sospirò. «Ci ha messo cinque minuti solo per alzarsi in piedi.»
«Perché il pavimento è scivoloso.»
«E pensi che sarebbe meno scivoloso dopo averti salvata? Pensi sarebbe più semplice, per lui, correre su questo cazzo di pavimento bagnato fradicio, con il cuore che pompa come il motore di una Ferrari mentre tu muori con I polmoni pieni d'acqua?»
Mi strinsi addosso l'accappatoio, neanche fosse uno scudo contro l'amara verità che mi aveva lanciato addosso. «Ok, ok, ho capito. Mica tutti hanno il commissario Rex come cane, sai?»
Chinò la testa per osservare Cody, che ancora scodinzolava girando come una trottola intorno a un'indifferente Ziva, che naturalmente aveva gli occhi pieni di adorazione solo per il suo padrone.
«Non è questo il punto, Mivato. Quando metti in pericolo te stessa, metti in pericolo anche il tuo cane.»
La frase mi colpì come uno schiaffo. D'istinto feci un passo indietro, in cerca di una distanza che potesse lenire il dolore e il senso di colpa nati da quell'accusa decisamente fondata. Fu un attimo. Io non inciampavo mai. Non scivolavo mai. Il mio cervello era costantemente connesso con le mie gambe, I miei piedi, le mie dita e le mie braccia. Non mi permettevo, né mi concedevo, l'eventualità di perdere una presa, di valutare in modo approssimativo un appiglio o di scontrarmi con un ostacolo che mi buttasse a terra.
Ma quella volta...quella volta sentii il tallone scivolarmi in avanti, il baricentro del mio corpo spostarsi improvvisamente indietro, sentii l'aria fendermi I capelli fradici e le braccia vorticare alla frenetica ricerca di un equilibrio ormai perso, irrecuperabile. La caduta divenne inevitabile.
Ma Wolf la evitò.
Mi afferrò in fretta, lui cavaliere senza macchia e io marionetta senza fili.
Cody rilasciò un latrato terrorizzato e s'infilò tra il mio corpo e quello di Wolf, rischiando di farci cadere entrambi.
Non era successo niente, eppure era successo di tutto.
«Non mi succede mai. Mai!» mi affrettai a dire, le sue braccia ancora a circondarmi la schiena.
Mollai la sua maglietta, cui mi ero istintivamente aggrappata. Cercai di nascondere il rossore che sentivo salirmi al collo e alle guance accucciandomi per rassicurare Cody.
«Qua si scivola, Mivato. Ho predisposto la sostituzione della pavimentazione, ma non sarà risolutivo.»
«Non è la prima volta che passeggio per una piscina...»
«Ma è la prima volta che passeggi in questa, di piscina.»
Si piegò sulle ginocchia, il viso alla stessa altezza del mio. M'impose di alzare lo sguardo su di lui con un tocco della mano sotto al mento.
«Se non riesci a dormire puoi uscire dal dormitorio, ma evita la piscina. Ti ordinerei anche di evitare di arrampicarti sui muri, ma non mi sembri ancora pronta a eseguire più di un ordine per volta.»
«Mi piace nuotare» fu la mia inutile risposta. Avrei voluto esprimere molto di più, tutto il significato che c'era dietro. Ma forse non ce ne fu bisogno.
«Vieni dopo l'addestramento. Non c'è mai nessuno, perché Xavier vi fa sputare sangue. Sarai sola, ma al sicuro.»
«Sarò anche esausta.»
«Sì. Ma questa è l'unica soluzione che sono disposto a offrirti.»
Non sarei mai riuscita ad abbattere il muro dei due minuti in quelle condizioni. Mi arresi all'idea che per un po' I muri li avrei solo scalati.
«Va bene. Grazie.»
Mi alzai, e lui fece lo stesso. Afferrai lo zainetto, ci ficcai dentro I vestiti che non avevo più voglia di infilare.
Mi guardò come se avesse di fronte una pila di capricci e problemi.
«Ma dove pensi di andare adesso?»
«In camera.»
Mi prese lo zainetto dalle mani, e ne tirò fuori il mucchietto di abiti sgualciti.
«Doccia calda. Torna asciutta. Poche storie.»
Mi lanciò I vestiti. Esitai, perché avevo più di una domanda sulla punta della lingua, e non ero certa che lo avrei ritrovato lì, al mio ritorno.
«Che c'è?»
«Perché eri qui?» gli chiesi
«Perché c'eri tu.»
Onesto. «Mi hai seguita?»
«No, ti ho raggiunta.»
Sbuffai. Rispondeva senza spiegare. «E come cavolo lo sapevi che mi trovavo qui?»
«Sei un buon ratto, Mivato. Ti sei arrampicata bene e hai aggirato l'ostacolo del vasistas senza troppe difficoltà. Ma non sei ancora un ratto eccellente.»
Lo sapevo. Mi ferì lo stesso. «Posso arrampicarmi più in fretta, col tempo.»
«Non è questo che ti manca.»
«Cosa mi manca?»
«Sei silenziosa, ma non invisibile.»
«È un talento che non ha nessuno, quello.»
«Da quanto tempo non vedi Carmen?»
«Cosa?»
«Hai capito. Da quanto tempo non la vedi?»
Feci mente locale, mentre un terribile quanto umiliante sospetto si faceva largo nella coscienza. «Da quando mi ha portato via la mappa.»
«Mi ha detto lei dove trovarti. È soddisfatta della tua arrampicata.»
Fu un duro colpo da incassare. In quegli anni mi ero impegnata a passare inosservata soltanto durante le missioni. Non mi era mai passato per la testa di imparare a diventare invisibile in qualunque frangente.
«Dov'è adesso, quella stronza?»
Sorrise, con l'ombra della rassegnazione sulle labbra. «Non lo so, Mivato. Sono due le cose che ti mancano per diventare un ratto eccellente: l'invisibilità, e la capacità di individuare quelli come te. Ma ti sarà concesso il tempo necessario a migliorarti.»
Intravidi l'ombra di un orribile fallimento nel mio futuro. Quella tipina svitata aveva un dono. Era silenziosa, oltre che invisibile. Io ero agile, certo. Ma un livello del genere era fuori dalla mia portata.
Forse Wolf colse I miei pensieri dall'espressione della mia faccia. «Non c'è fretta, comunque. Sono talenti pericolosi, sai? Non ho intenzione di permetterti di coltivarli finché non ti sarai guadagnata qualcosa di ben più difficile da ottenere. »
«Ovvero?»
Grattò la testa a Ziva, mentre mi rispondeva. La diva pidocchiosa guaì di piacere. Quel pirla del mio cane si era innamorato di una sgualdrina. «La fiducia, Mivato. Non so mai dove si trova Carmen, con la sola eccezione delle missioni che le vengono affidate. Non so mai se mi sta ascoltando, se mette le mani nei miei cassetti, se ha scoperto le password dei nostri file criptati. Potenzialmente, Carmen ha I mezzi e le informazioni necessarie a distruggere l'intera organizzazione. E tu sei una recluta indisciplinata, immatura, egoista e impreparata. Affidare a te il talento di Carmen sarebbe come far giocare una bambina con una pistola carica. Quindi vedi di imparare, ma non troppo in fretta. E adesso vai a fare una doccia calda, sono quasi le quattro di notte.»
Risentita, feci dietro front, rischiando ancora una volta di finire con il culo per terra. Due volte in così pochi minuti. Ingoiai bile e umiliazione, procedendo verso le docce.
Quando ne uscii, lavata e asciugata, trovai ancora Wolf e la sua amichetta pelosa e snob ad aspettarmi.
Cody, che naturalmente era completamente rincoglionito dal suo amore senza speranza, saltellò tutto contento verso la sua principessa altezzosa.
«Conosco la strada per tornare al dormitorio.»
«Avevo il dubbio che avresti disobbedito e te ne saresti uscita ancora fradicia guadagnando una bronchite.»
«Capita che io sappia riconoscere un buon consiglio, sai?»
Sorrise, e parve uno di quelli sinceri. «Bene. Allora prendi queste» mi allungò una chiave insignificante, priva di portachiavi. La presi, un po' stranita. «Così non ci devi scassinare di nuovo la serratura, la prossima volta che decidi di venire di notte.»
«Hai detto che è pericoloso...»
«Lo è. Se vieni da sola. Magari prima o poi troverai qualcuno con cui condividere questo piacere. Non tutto nella vita è una competizione, Mivato.»
«Grazie» risposi, impacciata come se mi avesse appena infilato un anello al dito.
«Andiamo. Tra poco più di due ore suona la sveglia.»
Ma quando fummo fuori, con la notte che già schiariva e la porta della piscina che si richiudeva alle nostre spalle, dovetti fare I conti un'altra delle scelte sbagliate ed egoiste che avevano gonfiato il mio ego, e messo in pericolo il mio cane.
«Wolf...»
Si fermò subito, sebbene il mio fosse stato poco più di un bisbiglio. Non mi fece domande, attese soltanto. Alla fine, sputai il mio rospo.
«Che ne hai fatto della stanza al piano terra?»
Aggrottò la fronte, sinceramente stupito. «È libera.»
«Potrei...riaverla? Domani, senza fretta. Oppure dopo domani, o... »
«Sarà pronta nel pomeriggio.»
Ringraziai di nuovo, incamminandomi verso il mio dormitorio, lasciandomi Wolf alle spalle. Ma lui pronunciò il mio nome dopo pochi passi.
«Alice...»
Mi voltai, in quel momento della giornata sospeso tra giorno e notte, nel quale la luce ancora convive con le ombre. Sembrava il momento perfetto per uno come Wolf.
«È la scelta migliore...»
Incassai quella dimostrazione di solidarietà non richiesta, non voluta e non apprezzata. Mi strinsi nelle spalle, perché non sarebbe stato giusto offrire in risposta una frase tagliente, voltandomi per andarmene. Per una volta, decisi di accettare quella pietà di cui non avevo bisogno, sebbene le motivazioni della mia richiesta fossero ben altre. Poco male, non avevo certo intenzione di essere capita. Ma Wolf aggiunse quattro parole. Quattro parole che cambiarono il significato di tutto.
«...per il tuo cane. »
Mi fermai solo un attimo, il tempo di realizzare quanto appena accaduto.
Abbassai lo lo sguardo su Cody, quel povero tontolone che aveva perso la testa per una lupa.
Sì, era la scelta giusta per il mio cane. E non c'era nulla di male, in fondo, se lo era anche per me.
SPAZIO AUTRICE
Ok topoline, siamo solo agli inizi di questa storia.
Wolf e Alice hanno un lungo percorso davanti, e non saranno mai soli.
Sono tante le cose che ancora non sappiamo di loro, e che ignorano l'una dell'altro. Di certo Wolf sa di Alice qualcosa che a noi ancora manca.
A presto!
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