Capitolo 7
Vado verso l'ingresso, dove Kayden ha lasciato il pacco che ha ritirato dal corriere. Con cautela lo apro e mi assicuro che nulla sia danneggiato. Ho già avuto a che fare con corrieri che trattano merce "alla buona" per non dire cattiverie. Il paraurti anteriore è in ottime condizioni, sposto il celofan per osservare meglio che non ci sia nessun graffio. I fari sono a posto e anche i tubi del radiatore sono perfetti e splendenti. Rimetto tutto nelle scatolone e lo trascino fino al garage.
Per distrarmi dai pensieri che mi attanagliano e che comprendono maggiormente Kayden e Jacob, inizio subito a lavorare sull'auto. Mi assicuro che sia tutto bloccato e aziono il ponte sollevatore, il giusto per permettermi di poter lavorare. Mio padre lo fece installare anni fa da un vecchio amico. Aveva la passione di comprare e restaurare auto nel tempo libero, inutile dire chi mi ha trasmesso questa passione, no?
Sollevo la Porsche e mi ci infilo sotto di modo da poter svitare viti e bulloni che tengono insieme il paraurti anteriore. Una volta fatto, con cautela lo strattono un po' facendolo uscire dai vari incastri e poi lo lascio andare a terra accanto all'auto. Riabbasso l'auto e mi piego sopra il vano motore con una torcia tra i denti, cercando di sganciare anche i fari già che ci sono, ma mentre sto lavorando i freni di un auto fischiano leggermente alle mie spalle.
Mi sollevo e mi volto, togliendo la torcia dalla bocca con la mano destra. Un uomo in abito scuro scende da una Cadillac. Riconosco subito di chi si tratta mentre si avvicina... è il presidente di un associazione di Grapich Designer, nonché amico d'infanzia di mio padre. Afferro uno straccio dal banco da lavoro e ci passo rapidamente le mani, per poi lanciarlo dove l'ho trovato mentre vado in contro all'uomo.
«Signorina Morris, buongiorno!»
«Signor Sparke, qual buon vento! Scusi se non le stringo la mano ma, sa com'è...» alzo entrambe le mani mostrandogli i palmi insozzati.
Dopo un attenta radiografia al mio abbigliamento, lancia uno sguardo alle mie spalle. «Ha buon gusto», ammette sorridendo.
«Oh, no io... era di mio padre in realtà...» abbasso gli occhi.
Gregory cambia immediatamente discorso, «Signorina Morris, lei sa perché sono qui vero?»
«Probabilmente non ha niente di meglio da fare», sbuffo.
Mi fulmina con lo sguardo, «Lei ha rifiutato la mia proposta di lavoro. Perché?»
Prendo un respiro profondo. Ecco dove voleva arrivare. Ma diavolo! Come può, con i miei precedenti balzargli in testa l'idea di assumermi per un azienda così importante?
«Beh, signor Sparke... mi dispiace declinare, ma data la mia situazione non so se le convenga avermi nella sua azienda. Le voci corrono in fretta».
«Signor... Lana... ti rendi conto delle potenzialità che hai?»
«Credo di sì! Ma, mi rendo anche conto di quello che comporterebbe a lei assumermi, dopo tutto ciò che la mia famiglia...» la voce mi si spezza.
Gregory sospira e mi si avvicina, posandomi una mano sulla spalla. «Ascolta, non sono bravo con le parole di conforto, ma tu non sei come loro. Conosco ogni sfaccettatura della tua famiglia e del cognome che porti. Purtroppo, sei stata coinvolta in una situazione per cui non hai colpe, Lana. Ricordo ancora quando hai mandato la domanda per un colloquio, e sono rimasto sbalordito dalle illustrazioni allegate. Secondo te, perché dopo quattro anni sono ancora qui a cercare di farti cambiare idea?»
Abbasso la testa, incapace di rispondere.
«Lana, tu hai l'opportunità di crearti un futuro brillante. Devi solo farti coraggio e lasciare fuori dal lavoro tutte le vicende vissute e le dicerie che mormora la gente. Te lo chiedo per favore... ripensaci. Ho bisogno di persone come te nella mia azienda».
Lascia andare la mano e si rimette composto. Pazienta per un attimo, ma quando capisce che non ho la minima idea di cosa rispondergli, decide di andarsene.
«Bene... direi che è tutto. Il mio numero ce l'hai... pensaci. Buona giornata!» allunga la mano ma notando le mie la ritrae sorridendo, per poi avviarsi verso la sua auto ed andarsene.
Appena sparisce dalla mia vista stringo la chiave inglese nel palmo della mano sinistra, mi giro di scatto e la scaglio con enorme rabbia contro la Porsche. Mi siedo per terra in mezzo al vialetto, prendendomi la testa tra le mani dondolandomi sul posto. E piango... piango disperatamente. Perché deve fare tutto così schifo? Perché mi devo sentire addosso il peso di altre persone? Ad oggi sarebbero potuti essere già quattro anni di lavoro nell'azienda di Sparke data la mia non voglia di andare a scuola, invece la mia famiglia e Chris hanno rovinato tutto.
Quattro cazzo di anni in cui piango quando mi ritrovo sola. Quattro anni che sono costretta ad usare i suoi sporchi soldi. Quattro anni che vivo da sola in questa villa megalomane, che oltretutto è sua. E due anni in cui Chris mi ha strappato il cuore e lo ha maciullato con la sua cattiveria. E come se non bastasse, è da quattro anni che ogni ventidue settembre sono china sulla tomba di mia madre a piangere. Tutto per colpa sua!
Vengo improvvisamente risvegliata da passi veloci e una voce maschile che grida il mio nome. Sollevo la testa e lo vedo... Jacob! Sto forse sognando?
Si affretta a raggiungermi e si inginocchia di fronte a me. Mi prende il volto tra le mani e con il pollice asciuga le lacrime che continuano a uscire senza il mio consenso. «Lana, che è successo?»
Scuoto la testa. Non voglio raccontagli nulla. «Che ci fai qui?» domando tra un singhiozzo e l'altro.
Noto che cambia espressione, «Dopo. Vieni, ti accompagno dentro». Mi prende le mani e mi aiuta a rialzarmi, conducendomi in casa.
Una volta entrati mi dirigo in cucina a versarmi un bicchiere d'acqua, porgendone uno anche a lui. Mi accomodo sulla sedia e piego la testa sul bancone di marmo. Dopo qualche attimo di silenzio, Jacob sbotta.
«Allora, mi vuoi dire che diavolo è successo?!»
«Nulla di cui tu debba preoccuparti...» ed è ciò che penso. Di queste cose vorrei solo parlarne con Kayden.
Jacob picchia una mano sul bancone facendomi sobbalzare. Che fine ha fatto il ragazzo tranquillo ed educato? «No! Io mi preoccupo invece! Perché vuoi tenermi all'oscuro?»
Afferro il piercing tra i denti e inspiro profondamente. «Jacob tu non mi conosci, non sai chi sono realmente, non sai quello che provo dentro... ed è meglio così credimi!»
«E il bacio di ieri sera?»
«Quello non significava... niente». Cerco di mascherare i miei sentimenti per cercare di allontanarlo, ma lui ovviamente non ci casca.
«Non mi sembrava così... e persino ora i tuoi occhi ti tradiscono».
Il mio cuore salta un battito. Sono così trasparente per lui? «Perché insisti?» domando scocciata.
Jacob se ne accorge e fa un passo in avanti. «Senti, non so nemmeno io il perché sono qui, ma è da quando ti ho incontrata che voglio sapere tutto di te», fissa i suoi occhi nei miei.
Mi passo una mano sul viso indecisa sul da farsi, ma sono sicura che se continuerò a mantenere saldo il mio non volergli raccontare nulla, lui non mollerebbe la presa. Ma anche se parlassi, vorrà sempre sapere di più. Merda! Che faccio?
Mentre mi scervello per capire come uscire da questa situazione Jacob allunga una mano verso di me, e con delicatezza afferra il mio braccio destro e lo studia per un po'. «Questi tatuaggi... significano qualcosa?»
Annuisco. Cazzo è incredibile, da una parte muoio dalla voglia di confidarmi con lui, ma dall'altra non vedo l'ora che se ne vada così riuscirò ad evitarlo per un po'.
«Lana? Puoi fidarti di me», annuncia costringendomi a guardarlo negli occhi.
Prendo un respiro profondo e chiudo gli occhi per trattenere le lacrime. Non so quanto riuscirò a resistere... fa sempre male parlarne. «Questo», indico il tatuaggio della siringa con scritto sopra mamma, «L'ho fatto in ricordo di mia madre. Per colpa di mio padre si è avvicinata al mondo della droga, e una dose di troppo le è stata fatale. In un certo senso, questo tatuaggio rappresenta la persona e la causa della morte, ricordandomi di non fare la sua stessa fine». Deglutisco rumorosamente ma non riesco a guadare Jacob negli occhi. Provo già abbastanza vergogna, e ancora non ho finito la tiritera. Ora il mio dito si sposta sulla pila di banconote con sopra una pistola, «Questo rappresenta mio padre. Era a capo di una Gang della città, e il tatuaggio serviva a ricordarmi di stare alla larga da cose come quelle. Ma purtroppo, la situazione non me l'ha permesso», aggiungo pensando a Derek e i suoi compiti che mi tocca saldare per colpa mia padre. Incrocio le dita e inizio a torturarmi le mani... ora arriva una delle parti più difficili. Sollevo la manica della maglietta scoprendo le rose rosso sangue con il filo spinato e l'orologio da taschino nel centro di esse che segna le 22.09. «Questo è un ricordo legato ad entrambi. Nel giorno ventidue settembre mio padre fu arrestato, e tutt'ora è in carcere... e alle 22.09 dello stesso giorno, mia madre morì per overdose...» mi si spezza la voce sull'ultima parola.
Restiamo immobili per qualche minuto. Jacob ha lo sguardo fisso nel vuoto con le mani affondate nelle tasche dei jeans, quanto a me non riesco a sollevare la testa. Ho timore di incontrare i suoi occhi in questo momento. Ma ho bisogno di sapere cosa gli sta passando per la testa. Ho bisogno di sapere se l'ho spaventato.
Si avvicina, ma molto lentamente, come se avesse paura di invadere la mia aura protettiva. Quando è abbastanza vicino mi stringe tra le sue braccia. «Mi dispiace», ammette con voce tremante.
Stringo la presa sul suo corpo e affondo il viso nell'incavo del suo collo, iniziando a singhiozzare involontariamente.
«Non avrei dovuto insistere... non credevo ci fosse tutto ciò dietro...» continua accarezzandomi dolcemente la schiena con la mano sinistra. «Ho un ultima domanda», annuncia tirando indietro la testa per potermi guardare negli occhi. «Perché porti sempre i polsini?»
Rabbrividisco a quelle parole. Beh, non che la cosa mi sorprenda. Siamo nel ventunesimo secolo, e chi al giorno d'oggi usa ancora i polsini ad ogni ora del giorno? È già bello se non ci dormo con quei cosi. Ma no... non abbatterà questo muro stavolta!
Scuoto la testa chiudendo gli occhi.
«Ok scusa... una cosa alla volta. Ora devo correre a prendere quell'aereo, ma tornerò. Non sono partito perché avevo bisogno di sapere prima di andarmene. Ci vediamo tra una settimana», mi lascia un dolce bacio sulla guancia ed esce di casa lasciandomi lì, a riflettere sul perché ho raccontato metà della mia vita proprio a lui...
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