Chào các bạn! Vì nhiều lý do từ nay Truyen2U chính thức đổi tên là Truyen247.Pro. Mong các bạn tiếp tục ủng hộ truy cập tên miền mới này nhé! Mãi yêu... ♥

Capitolo XXI

Quell'anno mia madre venne a stare da mio padre per le vacanze di Pasqua. Di solito si appoggiava da nonno Catone e nonna Marzia, ma negli ultimi tempi era capitato che i miei decidessero di stare sotto lo stesso tetto quando rientravo per le feste. "Già non possiamo vederti spesso", mi avevano spiegato, "Se dovessi anche dividerti tra due case, finiresti per non passare del tempo né con l'uno né con l'altra". Il ragionamento non faceva una piega, per quanto non convincesse nessuno dei miei amici.

Per me, invece, era così sensato che mi disturbava che gli altri non capissero. I miei non si erano separati perché avevano smesso di amarsi. L'età aveva irrigidito i rispettivi caratteri e li aveva resi meno propensi a scendere a compromessi, il che è fondamentale in coppie come la loro, in cui si hanno temperamenti e interessi completamenti diversi. Avevano provato di tutto pur di restare insieme, ma la morte di mio fratello aveva reso abissale quella distanza già difficile da colmare. Però i miei genitori si volevano ancora bene e si rispettavano moltissimo l'un l'altra. "Un amore che è durato più di vent'anni e ha dato alla luce due figli non si estingue mai del tutto" aveva commentato una volta mia madre. Nel loro caso era vero.

Era ancora strano riaverli insieme nella stessa casa. Papà aveva ceduto il lettone a mamma e dormiva sul divano letto. Dormire nel letto di Flacco era fuori discussione. La mattina mi svegliavo e li trovavo già in postazione, lui sbragato sul divano circondato da fogli, lei seduta davanti al pc sul tavolo della cucina. I turni del bagno erano rimasti gli stessi, più per abitudine che per altro. La sera cenavamo tutti insieme e poi ci guardavamo un film. In quella routine rassicurante riuscivo a dimenticare lo stress per il semestre, per la stesura della tesi e, soprattutto, per la mancanza di Dante.

Mi mancava. Mi mancava terribilmente. Riuscivamo a malapena a messaggiarci: col fatto che non tornava a Firenze da Capodanno, era stato completamente risucchiato dalla sua famiglia e delle incombenze da fuorisede. Eravamo passati dall'annullare ogni distanza esistente tra di noi ad avere chilometri e chilometri a dividerci per una settimana. Se non fossi stato a mia volta travolto dalle cure e dall'affatto dei miei genitori, probabilmente avrei trovato quella situazione a dir poco insopportabile.

La sera del Venerdì Santo, mi decisi a preparare io la cena, seguendo alcune delle ricette del libro che mio padre mi aveva comprato. Mia madre si era offerta di aiutarmi ai fornelli, ma riuscii a convincerla a lasciarmi fare. "Tu pensa a terminare l'arringa, che altrimenti ti toccherà lavorare pure a Pasqua!" la rassicurai. Avevo appena iniziato a tagliare le verdure che Mecenate mi videochiamò.

"Ehi, raggio di sole! Come si sta nel selvaggio nord?" mi salutò pieno di entusiasmo. Qualcosa nella sua voce mi rivelò che c'era qualcosa che non andava.

"Non c'è male: mangio, dormo e riassumo libri assolutamente inutili. Tu come stai?".

Sollevò un plico di fogli tutti stropicciati. "Mi esaurisco a correggere le bozze del giornalino".

"Orazio tu l'hai sentito?", gli domandai, "Non risponde ai messaggi da ieri sera".

"Io non lo sento da due giorni, pensa te"!". Voleva essere divertente, ma non lo fu.

"Problemi in Paradiso?". L'idea che quei due potessero litigare e lasciarsi mi terrorizzava.

"Lo sai com'è fatto, Orazio: se la prende per delle stronzate, poi gli passa e torna come prima. Non ti ho chiamato per questo", cambiò abilmente discorso, "Temo di non avere buone notizie".

E che cazzo! "I drammi ti attanagliano anche durante la Settimana Santa". Quando partiva così, di solito non era nulla di grave. "Dimmi, che ti è successo?".

"Non riguarda me. Riguarda l'ultima Bucolica". 

Smisi di affettare una melanzana e rimasi col coltello in aria, fissando il mio migliore amico sullo schermo. Momento di panico. "Che c'è che non va?". 

Non ero assolutamente convinto di quel pezzo, temevo di aver osato troppo. Non ero mai stato bravo a inserire i miti nei miei testi, ma avrei dovuto farlo per la tesi e avevo pensato che fare una prima prova in una Bucolica fosse un'ottima idea: non solo mi sarei potuto esercitare, ma avrei anche avuto il parere di un pubblico abbastanza vasto. Ma non ero sicuro di essere riuscito nel mio intento e le parole del mio migliore amico risvegliarono in me i dubbi che avevo tenuto sopiti begli ultimi giorni.

"Prima di tutto, voglio che tu sappia che a me personalmente è piaciuta", incominciò a indorare la pillola, "Considerando che è il tuo primo vero e proprio approccio all'epica, è un pezzo riuscito".

"Però..." lo pungolai. Non mi piaceva quando mi teneva così sulle spine: apprezzavo i suoi tentativi di salvaguardare la mia autostima e i miei sentimenti, ma non ne avevo bisogno.

"Però ad Augusto non è piaciuta. Non è piaciuta per niente". Aveva scandito le ultime parole, imitando alla perfezione la voce di quel pallone gonfiato. "Dice che ci sono troppi miti, il che in effetti è vero: a meno che uno non sia appassionato di mitologia, dopo venti versi la lettura diventa così pesante da essere insostenibile". Mettere meno miti: annotato. "Il linguaggio va bene, anche se il finale ha una costruzione sintattica un po' caotica".

Tutti i canti, composti da Febo, l'Eurota ascoltò beato
e volle che li apprendessero i lauri;
egli li canta, le valli percosse li riecheggiano fino alle stelle,
finché Vespero impose di ricondurre le greggi alle stalle
e di contarle, e avanzò nell'Olimpo che lo accolse a malincuore.*

Effettivamente non era poi così scorrevole. Non mettere mai più la necessità metrica davanti alla fruibilità dei versi. "Altro?". Speravo di no.

"I primi versi". Mecenate sospirò. "Il nome Varo non va bene. Non potresti usarlo a prescindere, ma soprattutto non in questo contesto".

Ora io, poiché avrai quelli che desidereranno
cantare le tue lodi e celebrare le tristi battaglie,
o Varo, studierò sulla tenue canna una canzone agreste.
Non senza invito canto. Tuttavia, se qualcuno leggerà preso dall'amore
anche questo canto, le tamerici e tutto il bosco
canteranno te, o Varo; nessuna pagina è più grata
a Febo, di quella intitolata al nome di Varo.**

"Ma qual è il problema, scusa?" gli domandai. Ero confuso. Non capivo.

"Augusto e Varo hanno litigato. Ma di brutto tipo". Mecenate si sistemò sulla sedia per stare più comodo mentre raccontava il gossip. "Praticamente Augusto gli ha prestato dei soldi per giocare non so che schedina. Tanto è una puntata sicura: triplichiamo e dividiamo il bottino, ma ha perso e ancora non paga il suo debito. Augusto, giustamente, si è incazzato, ma pure lui è un coglione: cazzo presti soldi a Varo? A Varo, ci rendiamo conto! E per cosa poi? Per giocare una schedina!".

"Io non so chi sia questo Varo" ammisi quasi vergognandomene.

Mi fulminò con lo sguardo. "Come non sai chi cazzo è Varo?" commentò quasi urlando. Sospirò. "Ma che cosa devo fare con te?".

"Niente: l'introversione è congenita e incurabile" ci scherzai su.

Fece un cenno con la mano, non so se per far cadere il discorso o per mandarmi a fanculo. "Comunque, Augusto non farà pubblicare il tuo pezzo: volevo che lo sapessi da me".

Momento di vuoto. Nessun pensiero in testa. Parlai solo perché Mecenate sembrava un'anima in pena. "Grazie per avermelo detto".

"Prego". Cambiò posizione sulla sedia, di nuovo. "Ci sei rimasto male?".

"Beh, un po' sì". D'altronde non mi era mai capitato di essere respinto così. Non avevo osato pubblicare prima proprio per questo motivo. "Cioè, sapevo che questo pezzo non era dei miei migliori, ma addirittura da essere scartato...".

"Augusto l'ha scartato, non l'intera redazione", ci tenne a precisare, "Io e Agrippa pensiamo che meriti comunque di essere pubblicato, anche se non regge il confronto con gli altri. Però, sai com'è, siamo sotto la dittatura di Ottaviano Augusto e lui ha il diritto di veto su queste cose". Ero contento che ad Agrippa fosse piaciuto.

"Potrò pubblicare ancora?" domandai.

"Ma certo!", esclamò, "Sai quanti pezzi di Tito Livio abbiamo accantonato in cinque anni! Eppure lui è sempre lì, ad ammorbarci sulla storia dell'Antica Roma!". Mi sentii rassicurato. "Però posso dartelo, un consiglio?".

"Certo". Il mio cervello stava ancora elaborando la nostra conversazione.

"Scrivi più di pancia e meno di testa. Sì, lo so che tu sei una persona schiva e tremendamente razionale, quindi ti riesce difficile esprimere le tue emozioni. Ma loro sono lì, ci sono e, quando vengono fuori, i tuoi versi... Non lo so, è come se si impregnassero della tua essenza e dipingessero il tuo cuore esattamente così com'è. Ed è meraviglioso, assolutamente meraviglioso, perché il tuo è un cuore così puro che, anche quando di cose tristi o macabre, il risultato finale è straordinariamente bello! Però non mi arrossire così!".

"Non sono arrossito!". Mi portai istintivamente le mani al volto e dovetti constatare che le mie guance, in effetti, erano piuttosto calde.

"Questo è esattamente quello che intendevo: nonostante tutto quello che ti è successo, nonostante tu sia grande e grosso, hai ancora il cuore innocente di un bambino!".

"Ma la pianti! Okay, ho capito!". Volevo disperatamente che quel discorso finisse. "Meno testa e più pancia".

"Come con il pezzo su Alessi" aggiunse.

"Non ci allarghiamo, eh". Non ero sicuro di riuscire a fare di nuovo qualcosa del genere, per quanto amassi Dante.

"Okay, okay, non mi allargo". Aveva un sorriso molto soddisfatto. Non lo sopportavo in questi momenti. "Cambiamo argomento: come sta tua madre?".

"Qualcuno mi ha evocato?" domandò la diretta interessata, apparendo dietro di me. Quasi mi presi un colpo. "Mece, tesoro, come stai? Stai mangiando?".

Non sapevo come fosse possibile, visto che si erano visti sì e no tre volte, ma tra mia madre e il mio migliore amico si era instaurato questo strano rapporto quasi confidenziale, fondato sulla cura dei capelli e sul percularmi amorevolmente per la mia introversione.

"Senti", le feci, "Prenditi il cellulare e parla con l'amore tuo, così non mi stai tra i piedi mentre cucino". Le passai il telefono. "Sparlate di me, fate le cose vostre e ricordatevi che io posso sentirvi, quindi non siate troppo cattivi".

"Sempre con affetto però" sottolineò mia madre prima di stamparmi un bacio sulla testa.

Naturalmente. Sospirai rassegnato. Se non fossi stato assolutamente certo dell'amore che provavano per me, avrei potuto credere che mi odiassero: me ne dicevano davvero di tutti i colori. Ma, ricordiamocelo, sempre con affetto però.

---

* Virgilio, Bucoliche, Ecloga VI (vv. 82-86), traduzione non mia

** Virgilio, Bucoliche, Ecloga VI (vv. 6-12), traduzione non mia

Bạn đang đọc truyện trên: Truyen247.Pro