Capitolo XVI
I colloqui erano finiti da più di una settimana, ma del nuovo assistente del professor Omero non si aveva alcuna notizia. Per i corridoi girava voce che avesse scartato anche dei dottorandi più che qualificati per quel ruolo e che, forse, vista la sua età, la sua psiche stava iniziando a dare i primi segni di cedimento. Sebbene i pettegolezzi non mi fossero mai interessati, stavolta non potevo restarne indifferente: si trattava pur sempre del mio relatore, un uomo che stimavo profondamente e con cui avevo sempre sognato di collaborare. Sentir parlare di lui come di un vecchio decrepito mi faceva ribollire il sangue di rabbia.
Una mattina, il professor Omero mi convocò nel suo studio per discutere della tesi. Gli avevo inviato giusto qualche giorno prima la conclusione della seconda parte, che avevo scritto e riscritto almeno una decina di volte. Speravo di non doverci più mettere mano e andare avanti con la stesura. Non avevo nemmeno preso in considerazione l'ipotesi che mi volesse incontrare per un altro motivo.
Essendo lo studio di una persona cieca, lo stanzone squadrato riservato al professor Omero si distingueva da tutti gli altri per una semplice caratteristica: non c'erano libri. Gli scaffali erano occupati da vecchi documenti, alcuni vocabolari e nient'altro. Era un posto così spoglio da sembrare la stanza di un moribondo. Eppure, non appena vi mettevo piede, venivo sopraffatto dall'odore di cuoio e bergamotto e non potevo fare a meno di sentirmi perfettamente a mio agio.
"Professor Omero, buongiorno. Sono il signor Marone" mi presentai.
"Entri, entri!". I suoi modi affabili lo facevano assomigliare più ad un nonnino sprint che ad un grande accademico. "Gradisce una tazza di tè? Non faccia complimenti".
Non ne avevo mai fatti. "Sto bene così, la ringrazio". Mi accomodai alla solita poltroncina di pelle. "Immagino che abbia letto l'ultima bozza".
Per un attimo mi sembrò sorpreso. "Oh, sì". Non è convinto. "La metrica è perfetta, non ho segnato assolutamente nulla". Ma... "Anche a livello contenutistico è molto buona". Ma... "Però il riferimento letterario è un po' troppo tirato, a mio parere".
"In che senso?" gli domandai. Il terrore di doverci rimettere mano mi attanagliò di nuovo.
"Intendo dire che, per quanto un elogio della vita agreste sia perfettamente in tema, non sono riuscito a rintracciarvi un modello letterario ben preciso. E sa perfettamente come la penso a riguardo". Sì, lo so.
Quando avevo proposto la mia idea al professore, in un primo momento non ne era stato particolarmente entusiasta. "Un ottimo spunto, sicuramente", mi aveva detto con l'aria di chi non sa come indorare la pillola, "Ma non è pertinente al mio corso: io mi occupo del mondo greco, non del settore primario". Il che era stato un modo carino per ricordarmi che non stavamo all'agrario. Avevo insistito, ero sceso a compromessi e alla fine avevo vinto: la mia tesi sarebbe stata un'opera in quattro parti, ognuna riguardante un aspetto del mondo agreste, con continui riferimenti alla storia greco-romana e alla mitologia. Ma il patto era molto chiaro: se volevo avere Omero come relatore, e io lo volevo davvero, ogni parte si sarebbe dovuta ispirare ad un autore greco trattato durante il corso. Per la prima parte me l'ero cavata con Esiodo, ma già con la seconda era stata dura trovare un modello adatto.
"La mia intenzione era quella di rifarmi a Teocrito" gli risposi.
"Mh". Si portò una mano sul volto e assunse la sua solita posa da pensatore. "Ci potrebbe anche stare, ma è davvero molto tirato". Oddio, grazie! "Non è mia intenzione farla impantanare, soprattutto in questo periodo dell'anno: per ora prosegua con la stesura della terza parte, io rileggo la seconda per intero e poi in caso ne discutiamo".
Fu allora che la nostra conversazione iniziò a puzzarmi. Il professor Omero era sempre stato molto preciso, molto scrupoloso, molto attento ai dettagli: che rimandasse il discorso con una simile facilità era un comportamento talmente atipico per i suoi standard che per un attimo, lo ammetto e me ne vergogno, pensai che la vecchiaia avesse davvero cominciato a corroderlo. Poi, però, parlò.
"In realtà non l'ho convocata qui per questo, signor Marone". Fui colto come da un presentimento.
"Mi dica" lo esortai a continuare. Dentro di me pregavo che mi stessi sbagliando.
"Quali sono i suoi piani per il futuro? E non intendo soltanto quelli post-laurea, ma anche quelli a lungo termine". Okay, a questo so rispondere.
"Mi sto informando per un dottorato di ricerca in poesia alessandrina. Vorrei approfondire Teocrito, in particolare. Ma da grande voglio fare lo scrittore". E che sei, un ragazzino di cinque anni?
"Ha mai considerato la carriera accademica?". Bingo.
"Non credo di esservi particolarmente portato".
"E perché mai, se posso?".
Perché la maggior parte delle volte non sopporto le altre persone. Perché dovrei parlare davanti ad una platea quasi ogni singolo giorno della mia vita. "Perché non credo di avere il carattere adatto".
"Perché è schivo o perché non è un grande oratore?". Strabuzzai gli occhi per la sorpresa. "Sarò cieco, signor Marone, ma non sciocco: non mi serve vederla per sapere che l'ho colta alla sprovvista". Fece una risatina per alleggerire la tensione. "La carriera accademica non è solo conferenze e insegnamento: è anche studio, ricerca, scrittura. Scrittura, soprattutto, e per quella non serve essere particolarmente loquaci".
Avevo capito dove voleva andare a parare. "Con tutto il rispetto, non ho intenzione di diventare il suo assistente". Rapido, diretto e cortese.
Divenne improvvisamente serio. "Signor Marone, la prego di ascoltare con attenzione tutta la mia proposta prima di rifiutarla".
"Mi scusi". Non volevo passare per arrogante.
La sua espressione si distese un po'. "Bene. La questione è molto semplice, signor Marone: non mi resta molto altro tempo da vivere. Non riuscirò a scampare alla pensione ancora per molto. Le mie orecchie iniziano a non essere più quelle di una volta e un cieco che inizia a dimenticare non può andare molto lontano". Il senso di quel discorso mi era completamente oscuro, per quanto non avesse tutti i torti. "Sa che il professor Esiodo è stato il mio assistente, al suo tempo?".
"Sì, l'ho sentito dire". Il professor Esiodo se ne vantava continuamente durante le sue lezioni.
"Avete molto in comune, voi due". Che cazzo sta succedendo? "Anche Esiodo era, come lei, un giovane di grande talento: i suoi versi erano sulla bocca di tutti. Era uno studioso diligente, una mente davvero brillante. E, soprattutto, aveva talento. Lei, signor Marone, ha talento. Ha talento da vendere".
"La ringrazio infinitamente". Non potevo credere che stesse accadendo proprio a me.
"Lei ha ragione: voglio che lei diventi il mio nuovo assistente. Ha tutti i requisiti per esserlo, ha la mia considerazione e la mia piena fiducia". Una parte della mia anima stava piangendo. "Ma non le sto proponendo di diventare solo il mio assistente: le sto proponendo di diventare il mio successore. Le sto dicendo che voglio patrocinare la sua istruzione per i prossimi anni, aiutarla a raffinare le sue doti e farla entrare nel mondo accademico come mio discepolo. Le sto dicendo che voglio che lei porti avanti quello che io ho cominciato almeno sessant'anni fa".
Non sapevo cosa dire. Ero letteralmente senza parole. Ma, alla fine, dovetti aprire bocca. "Perché io?".
"Perché lei, mi perdoni il linguaggio colorito, ha le palle per diventarlo. So che è lei l'autore delle Bucoliche: l'anonimato può coprire il nome, ma mai lo stile e l'anima di una persona. E so anche che i suoi pezzi non sono revisionati: c'è troppa coerenza tra le Bucoliche e la sua tesi, le Georgiche. Certo, il lessico varia in base al contesto, ma si vede che solo lei mette mano ad entrambe. Non so quale espediente abbia usato per convincere Ottaviano Augusto, ma ammiro ugualmente la sua intelligenza". Sospirò. "Lei ha talento, signor Marone. Un talento che nasce forse una volta ogni mille anni: non ho alcun dubbio che, se coltivato a dovere, la porterà molto in alto".
"Lei così mi onora" farfugliai per il disagio. Non mi sono mai piaciuti i complimenti.
"Non la sto onorando: la sto mettendo in guardia. Non ci vuole molto affinché un giovane promettente come lei diventi uno smargiasso afono come Esiodo". Finalmente capivo il motivo di tutto quell'astio: potenziale sprecato, speranze deluse. Nonostante l'impegno, Esiodo era diventato tutto quello che Omero disprezzava.
"Esattamente, che cosa mi sta proponendo? Sul piano pratico, intendo" gli domandai dunque.
Si sistemò meglio sulla poltrona. "Diventerà il mio assistente. Dopo la laurea, supervisionerò il suo dottorato. Pubblicherà o non pubblicherà, questo dipenderà da lei: io farò solo in modo che le persone leggano i suoi versi e che il suo talento venga coltivato a dovere. E, per quando la mia anima non vagherà più in questo mondo, lei sarà diventato il custode e il promotore del mio lavoro. C'è molto lavoro da fare in molto poco tempo, lo ammetto, ma ho motivo di credere che lei potrà farcela".
Non sapevo come sentirmi a riguardo. Da un lato era una grandissima occasione, uno di quei treni che passano solo una volta nella vita: prendere o lasciare. Dall'altro, però, mi rendevo conto che Omero lo stesse facendo più per se stesso che per me: sotto tutte quelle promesse, era chiaro il suo intento di non lasciare la sua eredità in mani pericolose. Non voleva essere dimenticato. Voleva vivere per sempre nei suoi versi. Era un onere più che un onore e non avevo alcuna intenzione di sparire nella sua ombra. Volevo che mi si conoscesse come Publio Virgilio Marone, scrittore e traduttore, non come l'epigono di Omero.
"Posso pensarci?".
Le sue palpebre tremarono, scoprendo per un istante i bulbi opachi. Non si aspettava una richiesta del genere. "Certamente", mi rispose con voce cortese ma fredda, "Ma possibilmente il prima possibile: non abbiamo molto tempo". Al massimo "non ho".
"Naturalmente. Le farò sapere quanto prima". Devo parlare con Beatrice.
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