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Capitolo XL

Alla fine il weekend tanto atteso era arrivato e mi ritrovai con Dante su un treno per Firenze.

"Avrà tutto bene, vedrai", mi aveva rassicurato più di una volta, "La mia famiglia ci tiene a sembrare civile, almeno in pubblico". 

Avevo passato settimane a prepararmi psicologicamente all'evento, studiando la presentazione che il mio meraviglioso ragazzo aveva preparato appositamente per placare almeno un po' la mia ansia sociale. Per quanto parlare con gli adulti mi riuscisse più facile, stavolta non mi sarebbe bastato mantenere un basso profilo: avrei conosciuto la cattolicissima famiglia del mio fidanzato. L'idea di dover incontrare suo padre e suo nonno, in particolare, mi terrorizzava profondamente, considerando che erano quelli che avevano reagito nella maniera peggiore al coming out di Dante.

"Basta non restare da solo con loro due", mi aveva consigliato Mecenate, "E poi non penso che faranno scenate, dai! Ci starà altra gente e, se sono così fissati con l'apparenza come sostiene cosino tuo, terranno la lingua apposto". Non potevo dargli tutti i torti, ma ero comunque agitato.

Il programma per quel fine settimana era molto semplice. Saremmo arrivati sabato, poco dopo pranzo, e saremmo andati subito dal dottor Galeno, il neurologo che seguiva Dante da quando era piccolo. Lapa gli aveva imposto una visita - giustamente, dico io - dopo la sua ultima crisi epilettica e si era gentilmente proposta di accompagnarci. Poi la sera ci sarebbe stata la festa vera e propria, con la famiglia Alighieri al completo e alcuni amici del festeggiato. Per domenica non c'erano dei progetti veri e propri, ma avremmo preso uno dei treni del pomeriggio per tornare a Roma.

"Lapa ha convinto il babbo a lasciarci dormire nella stessa stanza", mi spiegò il mio amore, "Non è particolarmente entusiasta, ma non può farci niente: sei pur sempre il mio ragazzo".

Ma, per quanto mi ripetessi che sarebbe andato tutto bene, che non sarebbe stata una tragedia greca e che era solo la mia introversione cronica a parlare, elaborando scenari su cui imparanoiarmi fino alla nausea, non riuscivo a tranquillizzarmi. Non era solo questione di fare una bella figura o di piacere agli Alighieri.

Il fatto era che la mia relazione con Dante stava diventando sempre più seria e importante per me, al punto che non ero più in grado di immaginarmi un futuro senza di lui, e, se quel weekend avessi fallito, l'affresco di pace e felicità che stavo dipingendo per noi si sarebbe irrimediabilmente crepato. Conoscevo troppo bene il mio fidanzato per non sapere quanto la sua famiglia fosse importante per lui, così come il suo giudizio e la sua approvazione, ed ero certo che, se non gli fossi piaciuto, ne avrebbe sofferto parecchio. E io lo amavo troppo per permettere che questo accadesse.

Pertanto, lo stato d'animo con cui misi piede sulla banchina di Santa Maria Novella era tutt'altro che sereno. Respira, Virgilio. Respira. La mano di Dante, stretta saldamente alla mia, era l'unico contatto che mi era rimasto con la realtà e mi ci aggrappavo come se fosse stata una boa in mezzo all'oceano. Anche lui era nervoso, lo leggevo sulla sua fronte, ma sembrava ben più capace di me nel nascondere le sue emozioni.

"Durante!" lo sentimmo chiamare da qualche parte.

Il mio ragazzo sventolò una mano. Avrà riconosciuto la voce. La nostra attenzione fu improvvisamente attirata da una ragazzina che correva nella nostra direzione. Se Dante fosse nato donna, sarebbe di certo stato così: stessi capelli ricci e neri, stesso naso aquilino, stesso sorriso adorabilmente ebete. Tana gli saltò addosso e si aggrappò a lui, abbracciandolo come un koala. Era un'immagine assolutamente tenera.

"Che ti son mancato?" le domandò suo fratello ridacchiando.

"No, per niente". Neanche lei era molto brava a mentire. Si voltò verso di me e mi fissò con aria incuriosita. "Sei tu il citto suo?".

"Tana, ti presento Virgilio", fece Dante, "Virgilio, lei è quella grandissima rompiballe di mia sorella, Gaetana".

"Io mi chiamo Tana!", urlò indispettita, "Gaetana è un nome davvero or-ri-bi-le!". Mollò la presa e tornò con i piedi per terra. Per essere ancora alle elementari, era piuttosto alta. "Se mi chiami Gaetana, giuro che ti faccio male" mi minacciò con aria adorabilmente seria.

"Che cosa abbiamo detto sulle minacce?" la rimproverò sua madre.

Lapa ci raggiunse con un passo lento e non molto stabile. Era esattamente come me l'ero immaginata, un donnone imponente, con i capelli scuri legati dietro la nuca. Se non avessi saputo che Dante era orfano, l'avrei certamente scambiata per la sua madre biologica.

Tana sbuffò. "Perché Francesco può usarle ed io no?" chiese alzando gli occhi al cielo.

"Tuo fratello le usa quando gioca alla PlayStation, non nella vita di tutti i giorni". Il suo sguardo passò da sua figlia a me. "Perdonala per i modi bruschi, ci stiamo ancora lavorando. Io sono Lapa". Mi tese la mano.

Gliela strinsi. "Piacere. Io sono Virgilio" parlai.

"Credimi, il piacere è tutto mio! Ho sentito così tanto parlare di te!". Cazzo!

"Lapa!" gridò Dante arrossendo violentemente. Mo che cazzo le ha detto?

"Che c'è? Che non è vero?". La donna mi sorrise con dolcezza. "Siamo davvero contenti che sei venuto! Poi conoscerai anche il resto della ciurma e avremo modo di parlare meglio, ma adesso dobbiamo proprio darci una mossa, altrimenti faremo tardi da Galeno".

Il viaggio fino alla macchina e dal parcheggio allo studio fu stranamente piacevole. Lapa si assicurò che avessimo mangiato almeno due volte lungo la strada e Tana passò la maggior parte del tempo a combattere con la radio, alla ricerca di una canzone che le piacesse. Seduto dietro insieme a me, Dante non smise nemmeno per un istante di tenermi la mano, accarezzandola di tanto in tanto con il pollice. Il suo sguardo incontrava costantemente mio e mi chiedeva silenziosamente se fosse tutto okay. Ora che era con le donne di casa, sembrava molto più sereno e a suo agio. Anche io, a dirla tutta, mi sentivo meno teso, ma comunque non abbastanza da abbassare la guardia.

Lo studio di Galeno si trovava in una clinica privata circondata da un immenso giardino. Le pareti della sala d'attesa erano costellate di finestre, da cui si potevano ammirare le piante ben tenute. Di certo d'estate quella stanza sarebbe diventata un forno, ma almeno non era tetra come le salette cupe delle asl. Ci sedemmo su una coppia di divanetti, io e Dante su uno, Lapa e Tana sull'altro, in silenzio.

"Stai andando alla grande" mi sussurrò ad un certo punto il mio fidanzato.

Mi voltai a guardarlo. I nostri visi erano insopportabilmente vicini. Era bellissimo. "Per ora" commentai.

Dante aprì la bocca per aggiungere qualcosa, ma venne interrotto. "Alighieri!" lo chiamò un'infermiera. Era il suo turno. Si alzò dal divanetto e le nostre mani smisero di toccarsi. Mi sentii morire. Ci misi un attimo per realizzare che Lapa lo stava seguendo, lasciandomi da solo con Tana la terribile - anche se, poi, così terribile non sembrava.

Un pietoso senso di imbarazzo e disagio si impadronì del mio essere. Che cosa faccio? La ignoro? Ci parlo? La bambina mi stava osservando con interesse, come se stesse studiando una specie aliena. Iniziai a sudare. Perché mi sta fissando? Devo fare finta di niente? Devo iniziare una conversazione. Sapevo dalla presentazione che le piacevano gli animali, i pirati e i glitter, ma non avevo la più pallida idea di come parlare con lei!

"Qual è il tuo animale preferito?" mi domandò lei all'improvviso. Questa è facile.

"Le api" risposi.

Il suo volto si accartocciò in una smorfia confusa. "Ma le api sono piccole! E poi pungono!".

"Solo quando si sentono minacciate", le spiegai, "In genere non pungono, anche perché poi muoiono".

"Ma sono comunque piccole". Non demordi, eh?

"Ma sono estremamente utili per impollinare i fiori, fare il miele e la cera. Il fatto che siano piccole non le rende meno preziose" obiettai.

"Mh, capito". Non era del tutto convinta, ma non avrebbe avuto senso insistere: come suo fratello, aveva un orgoglio molto difficile da distruggere. "A me piacciono i serpenti". Oh mamma!

"Che tipo di serpenti?". La mia curiosità era sincera.

Esitò un istante prima di rispondere. "Hai presente Kaa?".

"Intendi quello de Il libro della giungla?".

"Sì, quello. Ecco, mi piacciono i serpenti così", cicaleggiò allegra, "Che si attorcigliano tutti, ti possono strangolare e salgono sugli alberi. Penso che sarebbe bello".

"Arrampicarsi sugli alberi?".

"Già. Ho sempre voluto imparare, ma Francesco non è molto atletico e Durante...". Assunse un'espressione vagamente disgustata. "Beh, è Durante".

Non potei fare a meno di sorridere. Capivo perfettamente che cosa intendesse. "Se vuoi posso insegnarti io" mi proposi.

Tana sgranò gli occhi e spalancò la boccuccia. "Tu ti sai arrampicare?" esclamò con una vocina resa acuta dall'entusiasmo. Schizzò dal divanetto e si venne a sedere vicino a me. "Chi ti ha insegnato? Come si fa? Maiala, deve essere ganzissimo!" partì come un razzo. Mi sa che l'ho conquistata.

"Non è difficile, è stato mio padre a spiegarmelo: il trucco è sfruttare tutti gli appigli utili e mantenersi sempre stabili" le spiegai.

I suoi occhi brillavano come lucciole. Assomigliava moltissimo a suo fratello, con quella sua aria trasognata e attenta allo stesso tempo. La conversazione non andò avanti ancora per molto prima che Dante e Lapa uscissero dallo studio di Galeno e quasi mi dispiacque: Tana era una ragazzina sveglia e adorabile. Come Dante.

"Com'è andata?" domandai al mio fidanzato. Le nostre mani erano già tornate a stringersi.

"La solita zolfa", mi rispose tranquillo, "Se succede di nuovo aumentiamo il dosaggio, ma non dovrebbe essere il caso".

"Se becco a la su' mamma, giuro che gliene dico quattro, a lei e a quel grullo del su' figliolo" borbottò Lapa. Intuii da me che si stesse riferendo a Filippo Argenti. Più ci parlavo e più quella donna mi stava simpatica. "Tanto a messa ci deve venire!".

"E la asfaltiamo!" aggiunse Tana tirando dei pugnetti all'aria.

A quanto pare, l'irascibilità è una dote di famiglia. E non riuscivo a non sorriderne.

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