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15. Lenoir


Dopo avermi sistemato i capelli in un'acconciatura lievemente appuntata sul lato destro, truccato in modo impeccabile, per completare il look da favola, come lo ha chiamato la costumista, manca solo l'abito di paillettes rosa. Lo guardo pensierosa arricciando le dita; addosso ho ancora la vestaglia e i pantaloncini da calcio dell'Arsenal. Mentre mi sto alzando con sguardo mesto in direzione del patibolo ricevo una chiamata. Guardo il cellulare, è un numero sconosciuto ma rispondo.

«Signorina Leone?» È un uomo con uno spiccato accento campano; la sua voce non mi è nuova ma ho difficoltà a collegarla a un volto.

«Sì.»

«Sono Dino Merola, il procuratore di Hoffman e ho bisogno di parlare con lei.»

Annuisco. «Dica pure.»

«La chiamo a nome di Hoffman per una donazione anonima.»

Lo interrompo. «Guardi che non sono la persona giusta, dovrebbe contattare i responsabili.»

«Già fatto, signorì» ribatte. «Non mi fido però.»

«Di cosa?» chiedo perplessa

«Rudy è stato chiaro, la donazione deve restare anonima e io di quella gente mica mi fido.»

«Posso garantirle che Costanza Agnelli è una persona molto discreta e non andrebbe mai contro la volontà di un donatore.» Cerco di difendere l'amministratore della Onlus.

«Lo so, lo so. Ma non mi fido dei mosconi che le ronzano attorno in attesa dello scoop.»

«Scusi se mi permetto, ma l'immagine del signor Hoffman ne avrebbe tutta da guadagnare con un'indiscrezione come questa, non crede?»

«Signorì, quello che crediamo io e lei a Rudy non interessa. Le faccio un'ultima domanda per non rubarle tempo, lei che è nel giornalismo, ha mai sentito parlare di donazioni fatte dal mio cliente?»

«Non che io ricordi»

«Appunto» dice quasi minaccioso. «Confido nella sua discrezione.» Riaggancia.

Poso il telefono sulla mensola di fronte a me, Mariangela la costumista è dietro di me con l'abito fra le mani. Guardo l'orologio, mancano ancora quaranta minuti alla diretta così le chiedo di uscire qualche istante perché ho bisogno di stare da sola.

Scuoto la testa e mi siedo con la malsana voglia di aprire Google e digitare nella sezione "cerca" le parole Rudy Hoffman. Lo faccio, e navigando in vari siti internet, ho un quadro generico e piuttosto angosciante del suo passato.

Nato a Gorlitz il 26 giugno del 1986 da Igor Jankaowsi e Anya Hoffman, ha un fratello gemello di cui non vi è traccia del nome. Trascorre i primi anni della sua vita in orfanotrofio quando all'età di quattro anni la madre ne dichiara la maternità e lo porta via, a otto anni ci torna dopo la morte della madre. Non proseguo. Getto il cellulare sul divanetto come fosse un pezzo di carbone ardente. Mi sento come se avessi violato la sua intimità, sono informazioni reperibili su internet pertanto di dominio pubblico, ma avendole guardate mi sento dannatamente colpevole nei sui confronti. Stropiccio il volto, noncurante del trucco appena fatto, sbatto le palpebre mentre vedo la mia immagine riflessa sullo specchio e in quell'istante avrei voglia di prendermi a schiaffi.

Siamo il frutto del nostro passato. Ripenso alle parole di Alessandro provando dentro un grande senso di sconforto.

Entra Mariangela. «Sei pronta per mettere l'abito, Lenoir?» Guardandomi si accorge del mio turbamento. «Tutto bene?»

Annuisco. «Prendi il vestito che completiamo il look da favola.» Tiro su con il naso molto rumorosamente mentre lei si dirige all'appendiabiti.

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Ho evitato il suo sguardo per tutta la serata di gala, nonostante fosse a poca distanza da me ho cercato di guardare altrove il più possibile, mi sento dannatamente colpevole, quindi conto di finire tra poco più di venti minuti la diretta e tagliare la corda il prima possibile inventando una scusa anche per Stella e Alessandro che sono seduti al suo stesso tavolo. Questa è l'ultima pubblicità prima del blocco finale. Sono nel camerino a sistemare il trucco quando bussano alla porta, è Stella.

«Sei una favola Lenny» dice entrando.

Annuisco distratta davanti allo specchio.

«Cos'hai, sembri diversa, triste» ruota la sedia girevole richiamando ulteriormente la mia attenzione, «ti ho appena chiamata Lenny, tu detesti questo diminutivo, ma non hai battuto ciglio.»

«Non me ne ero accorta.»

Arriva subito al punto. «Dobbiamo nascondere un cadavere?»

Mi strappa un sorriso perché in un'occasione simile sarebbe la prima persona che mi verrebbe in mente di chiamare. «No, non ho niente.» Volgo lo sguardo nuovamente verso lo specchio per togliere un po' del trucco. «Sono settimane che non mi fermo un secondo, sono solo stanca.»

«Non ti credo. Sei come quel cazzo di Taz, il diavolo della Tazmania.»

Sbuffando, cedo. «Ho letto la storia di Rudy poco prima della diretta e non chiedermi perché l'ho fatto proprio adesso, non posso dirtelo.» Blocco le sue domande in anticipo. «Ha avuto un'infanzia orribile.» Mi prendo il volto tra le mani. «Orfanotrofio, madre morta da piccolo... poi ho smesso di leggere. Con il suo stesso passato la sottoscritta con molta probabilità sarebbe in galera da dieci anni.»

Sorride. «Tu non lo sapevi.»

«E quindi? Bella scusa!» Scuoto la testa.

«Lenoir, sai benissimo che questo è solo parte del problema, in qualche modo devi affrontare l'altra metà e devi farlo prima possibile.»

«Cazzo, quella notte è stata la più strana, tragica e passionale della mia vita. E il fatto che lui non dia segno di ricordarla minimamente mi fa morire dentro.»

«Ma come fai a sapere che lui non ricorda?» Incrocia le braccia. «Te lo trovi davanti dopo cinque anni e nelle uniche volte che vi siete incontrati eri sulla difensiva, chiusa in una corazza indistruttibile.» Ha ragione.

«Avrai occasione di farti perdonare, dai!» dice sorridendo.

Non ha importanza se Rudy ricordi o meno la nostra notte assieme, di una cosa non ho dubbi, ciò che provo per lui non è odio. Neppure lontanamente.

Un cameraman entra nel camerino aperto per comunicarmi che tra due minuti sono in scena e prima di andarsene mi porge una busta. La apro mentre Stella si sistema i capelli allo specchio e rimango sconvolta dal contenuto.

«Sai Stella, potrò rimediare ancor prima di quanto potessi immaginare.»

Fortunatamente non fa domande mentre usciamo dal camerino, il mio piano è troppo lungo e i minuti prima della diretta troppo pochi.

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