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CAPITOLO 8 ~ parte seconda

Luca smise di leggere e, con mano tremante, chiuse il diario. Io ero pietrificata. Non riuscivo a pensare ad altro che a te, Rose – anzi a te, Rosa – che scappavi per quei boschi, inseguita da un mostro che viveva sotto il tuo stesso tetto. Avrei voluto essere con te in quella corsa, avrei voluto affrontare con te quella bestia e, mano nella mano, ucciderla.

Mi alzai in piedi e mi diressi verso la finestra. I segreti possono rimanere nascosti per anni, ma riescono sempre a riemergere dalla palude del passato. Con pazienza e tenacia rimangono nelle pieghe della memoria, in attesa di una via per uscire ed essere rivelati al mondo.

«Nicole...» bisbigliò Luca, ancora incredulo per quello che aveva appena letto.

«Continua» gli ordinai risoluta. Dovevo sapere che cosa era accaduto dopo.

Luca mi osservò per qualche secondo e, sottovoce, riprese a tradurre.

"Mi risvegliai in macchina accanto al sergente dopo un tempo indefinito, il capo dolorante. Qualcuno doveva avermi colpita molto forte alla testa. Era quasi giorno e io non ricordavo nulla delle ultime ore. Mi stropicciai gli occhi, ancora intontita, e mi accorsi allora della piccola fede al mio anulare sinistro.

Il sergente, senza nemmeno guardarmi in viso, si limitò a dirmi: "Se riprovi a scappare, finisco il lavoro iniziato da tuo zio".

Come un pugno allo stomaco, i ricordi della notte prima riaffiorarono nella mia mente con una violenza tale da farmi rimanere senza fiato. In quel momento intravidi dal finestrino le indicazioni per il porto e chiesi, sgomenta, dove fossimo, ma nessuno mi rispose.

La vettura si fermò qualche minuto dopo vicino al pontile, dove un enorme transatlantico si ergeva in tutta la sua maestosità. Eravamo a Genova, come capii leggendo il cartello in fondo alla banchina, e quella nave mi avrebbe strappata per sempre alla mia vita, trascinandomi in mezzo al mare verso una terra straniera.

Il sergente Rossi mi strattonò fuori dall'automobile, ma prima di salire sulla nave, riuscii a divincolarmi e tentai di fuggire. Fui però troppo lenta e, con un gesto fulmineo, l'uomo mi spinse dietro a un container vicino alla pensilina, dove la gente si stava mettendo in fila per l'imbarco.

"Tu non hai ancora capito con chi hai a che fare" mi sibilò all'orecchio. "La contessa di Northbridge voleva che ti scannassi nel bosco, ma poi ha pensato che la tua agonia sarebbe durata troppo poco e perciò ha avuto la brillante idea che ti sposassi e fossi legalmente autorizzato a fare di te tutto ciò che voglio. Mi ha anche detto di ricordarti che, se ti ribellerai, ti ammazzerò e poi tornerò a Vinci a tagliare la gola a tua cugina."

A quelle parole, come una bestia impaurita che viene condotta al macello, seguii il sergente sulla pensilina, ma quando misi piede sulla nave, gli occhi mi si riempirono di tenebre e svenni.

Le violenze iniziarono quella prima notte di nozze. Il sergente, gettandomi sul letto, mi spogliò con brutalità, cercando di consumare subito il nostro matrimonio. Per uno strano scherzo della natura, però, il suo corpo non rispose e questo scatenò in lui una rabbia cieca. Non poteva godere appieno del mio corpo, era evidente, ma avrebbe goduto della mia sofferenza.

Poteva picchiarmi, seviziarmi, dilaniarmi per ore, fino a quando non si addormentava per il troppo alcol ingerito. L'alcol era il mio unico alleato, era l'unico che gli faceva sbagliare mira o che lo faceva stramazzare a terra svenuto, ma era anche il mio peggior nemico perché gli levava ogni freno inibitore, rendendolo ancora più crudele di quanto non fosse già di sua natura. All'inizio lo pregai di avere pietà, piangevo e gridavo di risparmiarmi, ma imparai presto che implorarlo di smettere aumentava solo la sua eccitazione nel vedermi soffrire.

A ogni colpo, a ogni schiaffo, a ogni pugno, a ogni grumo di sangue che riempiva la mia bocca, io pensavo ad Anna. Sarei sopravvissuta per raccontarle che mai al mondo avrei scelto di abbandonarla, di lasciare la metà del mio cuore, l'amore più puro della mia vita. Mi aggrappavo a quel pensiero per non perdermi. C'erano mattine fredde in cui sgattaiolavo fuori sul pontile e mi sporgevo dalla balaustra a vedere le onde infrangersi sul ventre della nave. La tentazione di lasciarmi andare in quel mare nero era forte, ma ogni volta che ero sul punto di scivolare nel vuoto, la tua voce, Anna, mi richiamava alla vita.

Che cosa facevi? Che cosa ne era di te? Avrei mai avuto la possibilità di raccontarti tutta la verità? Mi avresti mai perdonata?

Non riuscivo più a capire da quanto fossimo via in quel viaggio di torture senza fine. Passavo le giornate sedendo per terra nella cabina a contare i lividi viola e gialli che comparivano sul mio corpo. Segni di mani strette intorno ai miei polsi, bruciature di sigarette all'interno delle mie cosce, ematomi sul mio ventre. Con le dita toccavo le ferite, premevo sulla carne per sentire il dolore di quelle membra stanche che venivano abusate ogni giorno, cercando di provare qualcosa, ma il vuoto si faceva spazio dentro di me sempre di più e, infine, arrivai allo stremo.

Aspettai che il sergente fosse addormentato e uscii di nascosto, attraversando il pontile deserto con indosso solo una sottoveste logora che svolazzava sferzata dal vento ghiacciato, i piedi gelati sulle assi bagnate che rivestivano il pavimento e la certezza che avrei scelto io stessa come morire. Mi aggrappai con forza al parapetto scavalcandolo, decisa a farmi inghiottire dal mare e, prima di lanciarmi, chiusi gli occhi, pregando la Vergine Maria di perdonarmi.

Volsi un'ultima volta lo sguardo attorno a me e rimasi stupefatta: in lontananza, tra la nebbia del mattino, il volto di una donna, una corona sul capo e una fiaccola in mano a indicare la via, mi fissava benevolo. Gli occhi mi si riempirono di lacrime e, per la prima volta dopo settimane, sentii che ero ancora viva. Scesi dalla balaustra appena in tempo perché nel giro di pochi minuti il pontile si riempì di persone: increduli e felici, ammiravano la maestosa signora che li accoglieva in quella terra lontana, come una madre che riabbraccia un figlio di ritorno da un lungo viaggio.

"Chi è?" sentii chiedere da una bambina alla madre.

la Libertà" rispose lei, lo sguardo colmo di speranza.

«Basta. Anna deve conoscere la verità. Quando tornerà, le racconterò tutto» affermai senza più dubbi, prendendo il tuo diario, Rose, dalle mani di Luca.

Lui scattò in piedi, i pugni stretti così forti da farsi diventare le nocche bianche. «No, tu non lo farai, Nicole. Mia nonna ne ha passate troppe, non ti permetterò di infliggerle anche questa pena. Quanto dolore può sopportare una persona in una vita sola?»

«Rose merita giustizia e Anna deve sapere come sono andate le cose» sentenziai con rabbia, la stessa che leggevo nei suoi occhi.

«Ma tu come ti permetti di entrare nelle nostre vite, pretendendo di avere il diritto di sconvolgerle in questo modo? Tu non sai niente di noi, non sai che cosa abbiamo passato negli ultimi anni, con che disperazione abbiamo dovuto convivere quotidianamente...»

«Non lo so perché tu non me lo dici! Sono qui da più di un mese, stiamo insieme ogni sera e non ti conosco per niente! Se si parla di te, di tutti voi, ti ritrai e mi allontani. Come fai a non rendertene conto?»

Non avevo mai visto Luca così sconvolto, era furioso di fronte alla mia opposizione. «Rose è morta e tu te ne devi fare una ragione, Nicole, ma mia nonna è ancora viva e non lascerò che il tempo che le rimane le venga rovinato da questa storia. Io non ti devo nessuna spiegazione se cerco di proteggere la mia famiglia.»

Fece una pausa e poi aggiunse, senza guardarmi in viso: «Se tu ne avessi avuta una, sapresti che cosa vuol dire».

Pronunciò con lentezza quelle parole crudeli con l'intento di ferirmi, riuscendoci in pieno.

«Rose era la mia famiglia, il problema è che tu non l'hai ancora capito!» gli gridai con gli occhi colmi di lacrime e, sbattendo la porta, corsi via dalla mia stanza.

***

La mattina dopo mi risvegliai su una sdraio vicino alla piscina. Qualcuno mi aveva messo addosso una coperta durante la notte. Mi guardai attorno e, come avevo immaginato, trovai le gemelle accanto a me.

«Tieni, una tazza di tè caldo è quello che ti serve» mi disse Tania, offrendomi con gentilezza un thermos che mi riscaldò le mani e ristorò il corpo, dopo quella nottata turbolenta.

«Grazie... voi... voi avete sentito la mia discussione con Luca ieri sera?» chiesi rammaricata.

Le sorelle fecero cenno di sì col capo, sorridendomi imbarazzate.

«Comunque puoi andare in camera, se vuoi. Nostro fratello è andato via dopo la vostra lite e non è ancora tornato.»

Le gemelle si scambiarono uno sguardo d'intesa. «Vieni con noi a fare una passeggiata più tardi. Ti dobbiamo portare in un posto. È giunto il momento che tu sappia di Sole... e di tutti noi.»

Senza aggiungere altro, mi lasciarono su quel lettino, ancora più confusa di quanto non fossi già.

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