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CAPITOLO 6

Trascorsi la giornata di lunedì a chiedermi se avrei rivisto Luca, dopo quanto accaduto la sera prima.

In fondo, che cosa era successo? Nulla, assolutamente nulla, Rose. Avevo dato un'importanza spropositata a quella mano nella mano che, con molta probabilità per lui, non aveva avuto valore. Cercai di razionalizzare l'accaduto nel corso della giornata, come ero solita fare quando non mi sentivo bene con me stessa, ma la sensazione che anche lui avesse provato qualcosa, almeno in parte, non mi abbandonò.

Per fortuna stare dietro a Sole non era così facile e la bambina riuscì a calamitare tutta la mia attenzione su di sé, ma quando Luca non si fece vedere per cena, pensai che non l'avrei più rivisto. Forse lo avevo così imbarazzato che evitava persino di tornare a casa!

Il campanile di Vinci rintoccò dieci volte e, puntuale come la sera precedente, con mia grande sorpresa, lui bussò alla mia porta.

«Pronta a conoscere cosa scopriremo stasera? Ci ho pensato tutto il giorno!» mi disse con un sorriso che mi fece sciogliere. No, dovevo smetterla di rendermi ridicola e, senza tanti convenevoli, gli chiesi di iniziare. Tuttavia quella proposta uscì dalla mia bocca più come un ordine che un invito.

Luca si mise sull'attenti, salutandomi come un soldato. «Agli ordini, generale Green, mettiamoci al lavoro!» affermò e, ridacchiando, riprese dal segno lasciato la sera prima nel tuo diario, Rose.

"Fino ai tredici e quattordici anni, Anna e io avevamo avuto soltanto due vestiti, uno marrone e uno bianco meno rammendato da indossare per la Messa della domenica, ma quando la Luciana entrò nelle nostre vite, e suo marito uscì dalla sua, ricevemmo due abiti celesti col colletto bianco e due paia di scarpe di vernice nera. Ricordo, come fosse ieri, la soddisfazione nel vedere le compagne dell'oratorio, che per anni ci avevano canzonato per la nostra povertà, rimanere a bocca aperta per lo stupore e l'invidia! A Natale del '47, la Luciana ci regalò, inoltre, due cappottini rossi con le nostre iniziali ricamate all'interno del colletto, e mai mi sentii così chic quanto in quei miei quattordici anni tra le strade di Vinci.

Gli anni seguenti furono il periodo più felice della mia giovinezza e tuttora, nei momenti più bui, mi rifugio nel ricordo di quei giorni sereni.

La Luciana ci insegnò a cucire, rammendare e ricamare; imparammo ad abbinare i colori e i tessuti e dette voce al nostro estro, sfidandoci a creare un abito che ci rappresentasse. Io scelsi di creare un vestito dalla gonna ampia, con una stoffa color pavone e sottogonna in tulle della stessa tonalità, mentre Anna iniziò a lavorare a quello che, sosteneva, sarebbe stato un giorno il suo abito da sposa.

La morte del Rovai aveva liberato un lato della personalità di mia cugina che fino ad allora era rimasto celato anche a lei stessa. Per anni ero stata io la "custode", in quanto maggiore tra le due, ma dopo quella notte, il nostro rapporto divenne alla pari e io capii che mia cugina sarebbe stata in grado di fare qualsiasi cosa in suo potere per proteggermi. Se da un lato la cosa mi tranquillizzava, perché mi rendevo conto che era capace di badare a sé stessa, dall'altro, la consapevolezza che la sua infanzia fosse finita per sempre mi rattristava, ma in fondo sapevo che i nostri giorni di bambine erano terminati molti anni prima, in quella mattina di Santo Stefano sotto le bombe.

La Luciana divenne la nostra famiglia mentre lo zio si trasformò, giorno dopo giorno, in un estraneo. Lo vedevamo di rado, per lo più il venerdì quando veniva a ritirare la nostra paga.

La nostra amica, che per tutta la vita era vissuta in miseria a causa dei debiti del marito, ci disse che non avrebbe permesso che lo zio mettesse le mani su tutto il nostro stipendio e, a sua insaputa, aprì un libretto in banca a nostro favore, su cui tutti i mesi versava la differenza di denaro che guadagnavamo da lei e di cui lui non era a conoscenza. Inoltre la Luciana, ormai libera dai debiti del Rovai, nel giro di pochi anni ebbe soldi a sufficienza per rinnovare il suo negozio, a cui volle dare un tocco di classe, trasformando la sua bottega di provincia in una piccola ma rinomata boutique, dove si servivano solo le clienti più altolocate.

Anna aveva le mani d'oro, come diceva la Luciana, e in breve tempo divenne il suo braccio destro, aiutandola a realizzare anche i capi più complessi. Io me la cavavo, ma il mio talento era immaginare l'abito e comprendere che cosa le clienti cercassero. Quelle più affezionate, conoscendo la mia passione per la moda, mi portavano le riviste con le tendenze dell'epoca e presto si sparse la voce che dalla "boutique La Luciana" era possibile ordinare gli stessi capi indossati dall'alta società, non solo italiana, ma anche parigina e londinese.

La fama di internazionalità, che per caso si era creata, portò nel negozio clienti della nobiltà inglese che durante l'estate soggiornavano nelle ville del fiorentino, e fece nascere in me il desiderio di imparare quella lingua, dal suono così diverso, per poter trattare con loro senza bisogno di intermediari. La Luciana captò la potenzialità del mio desiderio e strinse un accordo con l'istitutrice a servizio dei Conti di Northbridge, i quali venivano a trascorrere l'estate a Vinci, ospiti dei conti Baldi; così ottenni di prendere lezioni private di inglese. Lo zio acconsentì soltanto perché la Luciana si offrì di pagare le lezioni e, per fortuna, abituata agli anni di menzogne raccontate al marito per sopravvivere, ebbe la prontezza di rispondere alle sue domande sospettose, dichiarando che il mio apprendimento dell'inglese fosse fondamentale per i suoi affari.

Tornata a casa, insegnavo a mia volta ad Anna ciò che imparavo mentre lei si confrontava con me su idee nuove per creare vestiti sempre più alla moda ma altrettanto unici nel loro genere.

Gli anni trascorsero veloci e ben presto ci ritrovammo ad avere stuoli di corteggiatori che ci aspettavano fuori dalla boutique. Anche la Luciana aveva diversi ammiratori e uno, in particolare, aveva il permesso di andare a salutarla alla bottega, cosa che capimmo quando di punto in bianco comparve nel retro un ampio divano di velluto rosso, dove la nostra amica trascorreva almeno un dopo cena a settimana.

La donna, però, non volle mai più riaccompagnarsi a nessuno ufficialmente, memore dell'inferno vissuto col Rovai.

"Non permettete a un uomo di comprarvi. Non siete bestiame da macello. Non lo dimenticate mai!" ci diceva ogni volta che uno spasimante pareva catturare la nostra attenzione.

Lo zio, invece, era di altro avviso. "Dovete maritarvi in fretta. Non potete vivere alle mie spalle per sempre" ci intimava sprezzante, masticando il cibo che gli avevamo cucinato, e Anna e io ci guardavamo, consce che ogni singolo boccone che trangugiava era stato pagato col nostro salario.

"Se non siete in grado di farlo da sole, ci penserò io" aggiunse, però, una sera guardandoci torvo, soffermandosi troppo con lo sguardo su di me. Provai una sensazione di nausea allo stomaco, sentendomi come non mai a disagio: che cosa intendeva con quelle parole? Mi avrebbe venduta come una delle sue pecore al mercato, per fare due soldi e ripagare i debiti che aveva accumulato negli anni?

Dopo aver superato la paura iniziale, ne parlai con mia cugina: quella sera Anna e io ci promettemmo a vicenda che la prima che se ne fosse andata via da quella casa avrebbe portato con sé anche l'altra, a qualsiasi costo, e che non ci saremmo mai separate di nostra volontà.

Visto che il mio inglese negli ultimi tre anni era diventato fluente, nella primavera del 1953, l'istitutrice dei conti di Northbridge, Mrs Turner, chiese alla Luciana se fossi disposta a fare da "dama di compagnia" alla contessina Lady Victoria, in arrivo il mese seguente dall'Inghilterra. L'idea di affrontare quell'esperienza mi elettrizzava ma, allo stesso tempo, mi rattristava separarmi da Anna, mia compagna di vita.

"Per fortuna hanno scelto quella meno brava a cucire!" mi diceva la Luciana, facendomi l'occhiolino nel tentativo di rendere meno doloroso il distacco.

Quando comunicai allo zio dell'impiego, la sua unica domanda riguardò il compenso e non volle sapere nient'altro.

Arrivò maggio e con esso la piccola corte a seguito dei conti di Northbridge. Lady Victoria si presentò subito come una giovane diciassettenne dalla salute molto cagionevole e più infantile rispetto alla sua età. Le giornate in sua compagnia trascorrevano lente, cercando invano di rallegrare quella ragazzina dagli occhi tristi.

Un pomeriggio, mentre prendevamo il tè nel patio retrostante il giardino della villa, lessi un articolo su un rotocalco che descriveva l'ultimo ballo delle debuttanti tenutosi all'Hotel de Crillon a Parigi.

"Come sarebbe bello andare a un ballo!" sospirai a voce alta. "Qui a Vinci nessuno organizza una festa da secoli" aggiunsi, cercando di sembrare una habitué agli eventi mondani a cui, in realtà, non avevo mai partecipato in vita mia.

La madre di lady Victoria, la contessa Catherine, che sedeva poco più in là, udite le mie parole, esclamò: "È una splendida idea, daremo noi una festa. Sarà così unica che nessuno potrà dimenticarla e poi, mia cara Victoria, potrai rivedere Guido!"

"Chi è?" domandai con curiosità alla giovane contessina.

"È un nobile italiano pieno di soldi che mi vuol far sposare mia madre" rispose laconica lady Victoria.


Nel momento in cui iniziarono a essere consegnati gli inviti per l'evento dell'anno, così veniva definito in paese la festa dei Conti di Northbridge, si scatenò il delirio tra le giovani dell'alta società e gli ordini della Luciana triplicarono, costringendo lei e Anna a lavorare fino a tardi ogni sera. Nel mio giorno libero mi recavo pure io in bottega a dare una mano e, a fine giornata, con l'aiuto di Anna, cercavo di ultimare il mio vestito.

"Perché non vieni anche tu? Lady Victoria mi ha concesso di essere accompagnata da una persona e io voglio solo te al mio fianco!"

"Rosa, non so... io non mi sono mai trovata in mezzo a gente così dabbene. E se sbaglio a parlare e dico qualcosa di sconveniente? E se calpesto i piedi, mentre ballo, a un duca o a un principe? È meglio che rimanga qui in negozio a realizzare i sogni degli altri" mi rispondeva Anna.

Giorno dopo giorno, però, le opposizioni di Anna si facevano sempre più deboli, fino a quando si convinse e decise che mi avrebbe accompagnata alla festa. Anna si accorse solo allora, però, che non aveva un vestito per sé, ma scoprì, con sua grande sorpresa, che la Luciana aveva confezionato per lei uno stupendo abito blu con scollo all'americana e sottogonna luccicante. Lo scintillio della stoffa veniva ripreso nel tacco delle scarpe che la stessa Luciana aveva personalizzato per lei, un vero e proprio tocco di classe della nostra amica.

Arrivò la sera del ballo e io indossai il mio vestito pavone che finalmente avevo ultimato. Quel colore mi metteva di buon umore e, per la prima volta, guardandomi allo specchio col rossetto scarlatto regalatomi dalla Luciana, realizzai che ero diventata una donna. L'abito era composto da un corpetto che sosteneva e risaltava le curve del mio petto, e da un'ampia gonna a più strati, a cui la Luciana aveva aggiunto un ricamo rosso sangue che riprendeva il colore delle mie scarpe.

Ma, quando entrai nel salottino di prova della boutique e vidi mia cugina con indosso il meraviglioso abito firmato dalla Luciana, rimasi senza fiato.

Anna sembrava la dea Artemide in un cielo stellato: i capelli biondi, morbidi da un lato e appuntati in modo tale da far risaltare le onde in stile Hollywood, ricadevano con delicatezza sulle spalle scoperte e la sua pelle bianca risaltava in contrasto col vestito blu notte, impreziosito da piccoli cristalli cuciti sul fondo della gonna.

La Luciana era riuscita a superare sé stessa, ricamando in ogni singolo punto a mano tutto l'amore e la riconoscenza che nutriva verso la sua Anna, la piccola impavida ragazzina che aveva rischiato la sua vita per difenderla e che si era trasformata in una creatura incantevole sotto i nostri occhi.

Elettrizzate, salimmo sulla vettura che la contessa aveva inviato per venire a prenderci e, col cuore in gola, raggiungemmo la villa dei Conti Baldi, noi due insieme, anche quella volta.

Varcata la porta d'ingresso, rimanemmo estasiate dall'allestimento floreale che ornava il salone e dagli ospiti, così eleganti e aristocratici, i quali sembravano usciti da una di quelle riviste patinate che amavamo leggere e commentare prima di andare a dormire.

Anche noi avevamo suscitato interesse e presto sentimmo gli occhi degli altri ospiti addosso. A quel punto si avvicinò Lady Victoria, lamentandosi con me del mal di piedi dovuto alle scarpe troppo strette e al corsetto che la strizzava.

"Lady Victoria, questa è mia cugina, Anna Nenciarini e Anna, questa è ..." ma la contessina mi interruppe: "Sì, bando ai convenevoli, Rosa, devi venire subito con me!"

Lady Victoria mi trascinò via dove servivano lo champagne, senza darmi il tempo di dire una parola ad Anna, a cui lanciai uno sguardo di scuse.
La contessina tracannò d'un fiato un calice di spumante sotto ai miei occhi e ne porse uno anche a me. "Se continua così, la dovrò mettere a letto presto!" le feci notare, ridendo.

"Magari!" mi rispose lei con la sua solita aria annoiata. "Mia madre non capisce che vorrei soltanto dedicarmi alla scuderia di famiglia. I cavalli sono gli unici a capirmi."

"Non stento a crederci" commentai io in italiano.

"Pardon? Oh, guarda chi c'è! Sergente Rossi, venga qui a raccontarci una delle sue storie di guerra!" cinguettò emozionata Lady Victoria.

Un uomo non molto alto e longilineo venne a fare la nostra conoscenza e, dopo aver salutato la contessina, si presentò a me in un italiano stentato, facendomi il baciamano. Molte ragazze si accostarono a noi per ascoltare i racconti del fronte, affascinate dalla parlantina del soldato italo americano. Rossi gesticolava e metteva enfasi in ogni singola parola e dal suo racconto sembrava avesse ideato ed eseguito da solo lo sbarco in Sicilia. Le altre giovani parevano estasiate da quell'uomo, ma in lui c'era qualcosa che non mi convinceva. Forse era il suo atteggiamento affettato, così finto e impostato, o la sua risata acuta, o il modo lascivo con cui si passava la lingua sulle labbra non appena incontrava il mio sguardo.



Approfittai della distrazione della contessina per cercare di ritornare da Anna, quando assistetti sotto ai miei occhi alla magia. Feci un cenno di saluto a mia cugina, che era nel centro del salone, smarrita, ma lei non mi vide; io però scorsi il giovane che, con passo incerto, si stava avvicinando a lei. Era un ragazzo alto e moro, con una folta capigliatura riccioluta nera, in contrasto con la moda dell'epoca che voleva i capelli corti e domati dalla brillantina, con un fisico asciutto ma non emaciato, che sembrava essere nato per indossare lo smoking. Il giovane arrivò alle spalle di Anna e la chiamò, lei si voltò e i due si guardarono per alcuni minuti, senza smettere di sorridersi. L'amore a prima vista esisteva e io ne ero stata testimone.
Il ragazzo porse la sua mano ad Anna e la invitò a ballare nel centro della pista sulle note di "Dream a little dream of me" e, mentre discorrevano, potevo vedere la felicità sbocciare sul viso di mia cugina. Le canzoni si susseguirono e i due si fecero sempre più vicini, col giovane che si piegava sulla figura esile di mia cugina all'altezza della nuca, inebriato dal suo profumo.

All'improvviso mi si avvicinò il sergente Rossi e riprese a interpretare con me il ruolo di eroe di guerra, a cui sembrava non poter resistere la maggioranza delle donne; forse, il fatto di non subire il suo fascino, mi rendeva ancora più attraente ai suoi occhi. Lui continuava a parlare ma io non lo ascoltavo e, sorseggiando il mio calice di spumante, non riuscivo a staccare gli occhi di dosso ad Anna e al suo principe.

"Ho capito, non sei una facile da conquistare, ma io adoro le puledre selvagge. Sarà divertente domarti" disse a un certo punto il sergente Rossi, guardandomi con cupidigia.

Per sua sfortuna captai quelle parole e gli risposi a tono, memore degli insegnamenti della Luciana: "Io non sono una bestia e, se anche lo fossi, lei sembra tutto fuorché uno stallone. Il mondo è pieno di vacche, se ne scelga un'altra". Voltandomi, girai i tacchi lasciandolo senza parole.

Mentre mi avvicinavo al buffet a prendere un bicchiere d'acqua, la contessa Catherine mi prese per un braccio con forza, facendomi quasi male.

"Chi è quella ragazza?" mi chiese preoccupata, indicando la pista da ballo.

Anna, mia cugina, ma lui non lo conosco" le risposi, scossa da quel comportamento, cercando di divincolarmi dalla sua presa.

"Lo conosco io; quel ragazzo è Guido Corsini, figlio e unico erede dei conti Corsini, nonché futuro sposo di mia figlia."

Luca si fermò, appoggiando una mano su quella pagina che raccontava la nascita della sua famiglia. «Quel giovane era mio nonno Guido! Ti rendi conto, Nicole? Questo è il racconto del loro primo incontro!»

«È fantastico, Luca. Dalle parole di Rose si capisce che per i due fu un vero e proprio colpo di fulmine. Sono stati felici insieme?»

«Moltissimo. Mio nonno ha rinunciato a tutto per la donna che amava, ma lei gli ha regalato ciò che né il denaro, né un titolo nobiliare poteva dargli: un amore incondizionato, pieno, totale, fino all'ultimo giorno. Ricordo che da piccolo nonno Guido mi portava ogni mattina al roseto dietro al casale a raccogliere il fiore più bello per nonna e mi diceva che niente al mondo gli faceva battere il cuore come gli occhi verdi della sua amata.»

«Certi amori vanno oltre lo spazio e il tempo e sopravvivono alla morte, sosteneva Rose, parlando di suo marito Pete.»

«E aveva ragione. È come se quel sentimento fosse così forte da aver lasciato una traccia, un segno in tutto ciò che ha creato, anche in noi che ne siamo stati testimoni per così poco tempo.»

«E tu hai mai vissuto niente del genere?» gli chiesi sottovoce.

«Sì...» rispose senza distogliere i suoi occhi dai miei.

«Costanza è davvero una donna fortunata» mormorai, ma lui strinse le labbra in una smorfia preoccupata e richiuse il diario in fretta, fissando l'oscurità al di là della finestra.
«Nei prossimi giorni sarò impegnato. Devo prendermi una pausa da tutto questo.»

Luca si alzò di scatto e andò alla porta, ma prima di richiuderla dietro di sé, mi guardò un'ultima volta. Capii in quel momento esatto che sapevo che cosa aveva provato Anna quella sera alla festa. Ormai era troppo tardi, Rose.

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