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CAPITOLO 13 ~ parte seconda

"Il nostro appartamento si trovava in una palazzina in Columbus Avenue, nel quartiere italiano di North Beach. Era un minuscolo bilocale ammobiliato che puzzava di muffa, ma Pete e io lo adoravamo.

Per prima cosa lo ridipingemmo e cambiammo il materasso del nostro letto e, dopo un'accurata pulizia, quei pochi metri quadri divennero casa nostra.

Il proprietario dell'appartamento era un francese di nome Pierre Bourgeois che viveva sul nostro stesso pianerottolo. Era un uomo di circa sessant'anni, i capelli e la barba bianchi, troppo lunghi per i miei gusti, gli davano un'aria trasandata. Indossava sempre occhiali da sole e maglioni slargati.

Pete gli aveva inviato la caparra per l'appartamento quando eravamo ancora a New York e, al nostro arrivo, ci aveva consegnato le chiavi senza molti convenevoli, ricordandoci di versare l'affitto ogni primo del mese.

Non appena sistemati, decisi di preparare una schiacciata fiorentina da portare al padrone di casa per presentarci meglio e, armata di ogni buona intenzione, andai a bussargli. L'uomo aprì e io iniziai a presentarmi, ma lui mi interruppe subito, mi prese dalle mani il dolce e mi sbatté la porta in faccia. Rimasi qualche secondo interdetta davanti a quell'uscio chiuso e, stupita e delusa da quella reazione, girai i tacchi su me stessa e me ne ritornai nel mio appartamento.

Quella sera raccontai dell'accaduto a Pete, che si accorse all'istante di quanto ci fossi rimasta male. Facendomi sedere sulle sue ginocchia per coccolarmi, strusciò il naso sul mio collo, in un gesto affettuoso che sapeva che mi faceva impazzire.

"Il tuo buon cuore e la tua testardaggine lo conquisteranno, ne sono certo. Non conosco nessuno che ti possa resistere, Rose!" mi sussurrò all'orecchio, insieme alla promessa di distrarmi a dovere quella notte. Non c'era dubbio: il mio irlandese sapeva proprio come rassicurarmi e farmi tornare il buon umore!

Pete aveva iniziato a lavorare all'HP da qualche settimana ed era molto felice del suo nuovo impiego; si alzava presto la mattina per prendere il treno per Palo Alto e rincasava intorno alle 18, sempre col sorriso sulle labbra.

Durante una passeggiata nel quartiere avevo notato un annuncio di lavoro come operaia per una fabbrica di pasta, a un paio di chilometri da casa nostra, ma quando ne avevo parlato con Pete, lui aveva fatto una smorfia. "Rose, perché non torni a scuola? Sei così brillante e intelligente, sono sicuro che potresti prendere un diploma in poco tempo. E poi... ti ho quasi persa due mesi fa e io non voglio che ti affatichi troppo. Studiare è un investimento per il tuo futuro: con un titolo potrai ottenere un lavoro che ti gratificherà di più di una catena di montaggio!"

All'inizio quella proposta mi aveva fatto sorridere, però, più ci pensavo, più la voglia di tornare a imparare si faceva strada in me.

Dopo un paio di giorni mi iscrissi a una scuola pomeridiana, ma memore dei consigli della Luciana, decisi comunque di cercare un lavoro part time per la mattina.

Sapevo che Pete non mi avrebbe mai fatto pesare che fosse lui a portare lo stipendio a casa, ma io volevo sentirmi libera di poter contribuire alle spese della nostra famiglia senza dover dipendere da lui. Questo era uno dei motivi per cui mio marito nutriva così tanta stima nei miei confronti.

Un pomeriggio, mentre mi apprestavo ad andare a scuola, passai davanti alla vetrina di una libreria nella stessa via del mio appartamento.

"Cercasi commesso/a" lessi. Senza pensarci oltre, varcai la porta di quella che sarebbe diventata la mia seconda casa, la City Lights Bookstore.

"Buongiorno" dissi con voce incerta.

"Salve" mi salutò un ragazzo longilineo, pelato e con una folta barba curata. "Come posso aiutarla?" mi chiese, scrutandomi dalla testa ai piedi.

"Ho visto l'annuncio in vetrina... Sarei interessata al lavoro" gli spiegai.

Il giovane inarcò un sopracciglio e iniziò a pormi una serie di domande. "Titolo di studio?"

"Nessuno... mi sono iscritta da poco a una scuola pomeridiana per prendere il diploma..." mi giustificai.

"Esperienze di lavoro in librerie o nel mondo dell'editoria?" mi domandò con sufficienza, come se conoscesse già la risposta.

"Nessuna... ho lavorato in una sartoria e in un pub..." mormorai, rendendomi conto solo in quel frangente di quanto fossi poco indicata per quel posto.

"Ultimo libro letto? Fammi indovinare... Nessuno?" mi incalzò il ragazzo, ridacchiando sarcastico.

"Il giovane Holden di J.D Salinger" risposi con decisione. Non avevo un diploma, per ora, ma non ero una sciocca ignorante. La prima cosa che avevo fatto, giunta a San Francisco, era stata tesserarmi alla biblioteca comunale, dove passavo ore a leggere e a studiare.

"Ottimo. Il posto è tuo" esclamò un uomo sulla trentina, sbucando da una pila di libri dietro ai quali era stato nascosto fino a quel momento.

"Lawrence, stai scherzando, vero?" lo interruppe il giovane ragazzo pelato.

"No, Norberto, non sto scherzando. Abbiamo bisogno di menti vergini da formare senza l'indottrinamento della scuola tradizionale americana."

L'uomo mi sorrise. "Bene, ti aspettiamo domattina alle 9. Norberto ti illustrerà come siamo organizzati e in cosa consisterà il tuo lavoro. La gente viene in questa libreria pensando di cercare un determinato autore o un titolo specifico, ma poi esce sempre con un altro libro sotto il braccio. Il tuo compito sarà quello di capire ciò di cui hanno bisogno i nostri clienti e, per farlo al meglio, dovrai metterti sotto con la lettura. Questa è l'unica condizione che ti pongo per avere il lavoro. Pensi di essere in grado di leggere un numero infinito di opere in poco tempo?"

"Sì, assolutamente sì" asserii con entusiasmo.

"Allora a domani. Io sono Lawrence, il proprietario della City Lights. Tu sei...?" mi chiese l'uomo, aspettando che mi presentassi.

"Mi chiamo Rose Carroll" risposi.

"Avrei giurato dal tuo accento che tu fossi italiana" mi disse guardandomi con intensità.

"Ha ragione, sono toscana. Rose Carroll è il mio nome da sposata... il mio nome da ragazza era Rosa Nenciarini."

L'uomo batté le mani, stupito. "Hai sentito, Norberto? È una tua compaesana! Bene, Rosa o Rose, ricorda che tra queste mura tu potrai sempre essere chiunque tu voglia. Ci vediamo domani" e senza darmi il tempo di ricambiare il saluto, i due uomini sparirono alla mia vista dietro ad altre pile di libri ammonticchiati sul bancone.

Uscii dalla City Lights volando. Avevo ottenuto un lavoro da sola e, per giunta, in una libreria! Quella sera festeggiai la notizia con Pete con un gigante crab burger, pronta ad affrontare quella nuova avventura. Il mio futuro collega di lavoro non mi era sembrato molto affabile, però il proprietario della libreria mi aveva fatto una splendida impressione; era senza dubbio un individuo particolare che ragionava fuori dagli schemi.

La mattina seguente arrivai alla City Lights Bookstore in netto anticipo. Ero uscita di casa troppo presto, dal momento che il mio appartamento distava meno di un quarto d'ora a piedi, ma non volevo tardare il mio primo giorno di lavoro.

Dieci minuti alle nove vidi arrivare il commesso che mi aveva fatto il colloquio. Indossava degli appariscenti occhiali da sole calcati sul naso, un bicchiere di caffè americano in mano e l'aria di chi voleva soltanto sopravvivere a quella giornata.

"Buongiorno, Norberto!" esclamai con troppa foga.

Il ragazzo abbassò gli occhiali per lanciarmi un'occhiataccia e disse in italiano: "Mettiamo subito in chiaro alcune cose. Primo: non chiamarmi Norberto. Solo Lawrence lo può fare, è il mio capo e non posso mandarlo a quel paese. Mi chiamo Bobby Brench, Bobby B. per gli amici. Tu puoi chiamarmi Mr Brench.

Seconda cosa: non rivolgermi mai la parola prima che abbia bevuto il mio caffè. Soffro di forti mal di testa e la tua voce stridula non mi aiuta. Terzo: cerca di contenere l'entusiasmo. La tua voglia di vivere mi fa desiderare un cielo pieno di corvi neri. È tutto chiaro, Rosalinda?"

"Mi chiamo Rosa" risposi e lui mi fulminò con uno sguardo. Feci segno di chiudermi la bocca e di buttare via la chiave e lo seguii all'interno della libreria in silenzio.

Il ragazzo si tolse il giacchetto e lo appese in una stanzina dietro alla cassa, si sedette dietro al bancone e iniziò a scorrere un registro.

"Tieni, questo è l'elenco dei libri che dovrai leggere nel prossimo mese. Lawrence ha detto che li puoi prendere qui da noi e riportarceli quando hai finito."

Si trattava di dodici libri di autori che non avevo mai sentito. Dal momento che Norberto, anzi, Mr Brench, non sembrava propenso ad aiutarmi, mi ci volle un'ora per trovarli tutti, visto che non sapevo in che ordine erano stati catalogati.

Presi i volumi, ritornai dal mio collega che iniziò, per mia fortuna, a spiegarmi come era strutturata la libreria e in che cosa consisteva il nostro lavoro. In sostanza dovevamo cercare di leggere più volumi possibile per essere in grado di consigliare al meglio la nostra clientela. Mr Brench mi raccontò inoltre che la City Lights era stata inaugurata l'anno prima e che Lawrence Ferlinghetti, questo il nome completo del proprietario, stava progettando di aprire una casa editrice che potesse pubblicare le voci più attuali e visionarie che non avrebbero mai avuto un proprio spazio nel mondo bigotto dell'editoria americana degli anni'50.

Dalle parole di Bobby B. si capiva quanta ammirazione il giovane provasse per Ferlinghetti e per il suo lavoro. "Lawrence sta facendo la storia. Il mondo ancora non lo sa ma quell'uomo cambierà il modo di pensare delle future generazioni. Questa libreria sarà sempre un punto di riferimento e un luogo sicuro per tutti i reietti, i diversi, gli incompresi. Noi abbiamo il privilegio e l'onore di fare parte di questo cambiamento, giorno dopo giorno" mi disse con orgoglio. "È così strano che Lawrence ti abbia scelta, lui di solito ha un sesto senso per i randagi che accoglie sempre a braccia aperte. Tu, invece, sei la tipica casalinga bionda. Con questo posto non c'entri proprio nulla..." aggiunse piccato.

"Per essere uno che si vanta di essere libero dai pregiudizi, ne hai molti verso gli altri. Non sai nulla di me ma... va bene così, sono abituata alla superficialità della gente" gli risposi con un sorriso amaro, alzandomi per andare a prendere il mio soprabito, e aggiunsi: "Ci vediamo domani, Mr Brench".

Il ragazzo stette un attimo a fissarmi indeciso e poi, increspando le labbra in una smorfia divertita, mi rispose: "Chiamami Bobby B. ... Rosalinda".

Da quel giorno il mio rapporto con Bobby B. cambiò. La sua naturale diffidenza nei confronti degli altri mi incuriosiva e divertiva allo stesso tempo. Scoprii con meraviglia che era nato a Montespertoli, un paese non lontano da Vinci, e che si era trasferito a quindici anni a San Francisco insieme a sua madre e a sua sorella Lena. La madre era ritornata in Italia dopo qualche anno ma i due ragazzi avevano deciso di rimanere a Nob Hill.

Erano mesi che non parlavo in italiano e riprenderlo a fare col mio collega fu divertente perché la utilizzavamo soprattutto per sparlare della gente o per fare qualche commento che non volevamo capisse Lawrence. Alla libreria parlavamo sempre in inglese, ma quando ci ritrovavamo da soli, chiacchieravamo quasi solo in italiano.

Un giorno Bobby B. mi propose di andare a sentire sua sorella Lena cantare in un jazz club vicino a Union Square e io accettai molto volentieri. Era bello frequentare persone della mia età e, in più, Pete adorava il jazz.

Arrivammo al locale intorno alle ventuno, dove scorgemmo tra la folla Bobby B. che ci fece segno di seguirlo. Ci accomodammo a un tavolino in prima fila; le luci si spensero e il proiettore illuminò il piccolo palco su cui avanzava, sinuosa, la figura incantevole di Lena.

La ragazza iniziò a cantare e tutti i presenti rimasero stupefatti. Quella giovane dalla pelle bianca come il latte aveva una voce nera come la notte; la chiamavano infatti la Ella Fitzgerald italiana. Solo la capigliatura ricordava le cantanti afroamericane, una cesta di meravigliosi capelli ricci che le incorniciavano il viso, ondeggiando seducenti quando muoveva il capo tra un acuto e un altro. Il palcoscenico era la sua dimensione e, con disinvoltura, Lena si muoveva tra i musicisti che l'accompagnavano. Il vestito lungo e aderente, fatto di paillettes scarlatte, e i guanti neri fino ai gomiti rendevano la sua gestualità ancora più sensuale mentre la sua voce accarezzava e stregava tutti i presenti.

"È eccezionale" bisbigliai a Bobby B. che mi guardò con un sorriso compiaciuto.

Dopo alcuni brani Lena si fermò. "Voglio dedicare questa canzone a un mio amico carissimo che ha trasformato in realtà i miei sogni più reconditi. Pierre, vieni sul palco con me" e, con mio grande stupore, vidi avanzare verso la scena proprio il nostro padrone di casa, il signor Bourgeois.

"Tu lo conosci?" chiesi incuriosita a Bobby B.

"Certo, Pierre è stato il costumista di tutte le opere teatrali più famose andate in scena a San Francisco negli ultimi trent'anni. Continua a realizzare pochi capi e solo per mia sorella. È un genio assoluto" rispose con ammirazione.

"Pensa che è il mio padrone di casa..."

"Davvero? Oh Mio Dio! Allora sei tu l'italiana insopportabile che gli cucina le torte!" esclamò lui ridendo.

"Così si direbbe..." sospirai scocciata.

Bobby B. mi fece l'occhiolino. "Però ha detto che sono squisite!"

Scossi la testa. "Le avrà buttate di sicuro!"

"No, in realtà credo che sia stato l'unico pasto genuino che abbia mangiato negli ultimi mesi. Non è un buon momento per lui" mi rivelò il mio collega.

Tornata a casa, ne parlai con Pete e lui mi suggerì di continuare a cucinare per Pierre perché era una cosa che mi rendeva felice. "Se proprio non gli piacciono e non credo che sia umanamente possibile, dato che le tue torte sono squisite! le getterà via!" mi tranquillizzò, appoggiando la testa sul mio petto prima di sprofondare nel sonno.

Io, invece, non riuscivo a chiudere occhio, perciò ne approfittai per sfogliare l'elenco dei libri della lista di Lawrence. Scelsi il Piccolo Principe di Antoine de Saint-Exupéry e cominciai a leggerlo. Rimasi colpita nel profondo dalle parole sull'amicizia contenute in quelle pagine, il cui contenuto divorai in meno di un'ora, e decisi che avrei addomesticato il mio padrone di casa proprio come il piccolo Principe aveva fatto con la sua volpe.

Dall'indomani iniziai a lasciargli dinanzi alla porta non una torta ma un pasto caldo cucinato da me, accompagnato da un biglietto con una citazione de "Il Piccolo Principe", sempre alla stessa ora.

L'uomo non mi disse nulla per le due settimane successive, ma una sera che tardai nel portargli la cena, sentii bussare alla mia porta. Era una domenica sera e Pete stava lavorando a una radio comprata a un mercatino delle pulci che voleva riparare. Andai ad aprire e mi trovai il signor Bourgeois di fronte; aveva lo sguardo perso, gli occhi vacui di chi cerca di ricordare.

"Emmanuelle, sei tu?" mi domandò.

"No, signor Bourgeois, io sono Rosa, la sua inquilina. Posso aiutarla in qualche modo? La sua cena è quasi pronta" gli spiegai sorridendo.

Fece cenno di voltarsi, ma lo fermai. "Perché non rimane con noi a mangiare? La compagnia dà un gusto diverso al cibo."

L'uomo parve sorpreso, tuttavia entrò in casa nostra e si accomodò in salotto. Nel giro di dieci minuti ci sedemmo tutti e tre a tavola. Pete raccontò al signor Bourgeois del suo lavoro e io gli rivelai che conoscevo Bobby B. perché lavoravo alla City Lights. Gli chiesi del suo passato come costumista e gli parlai della Luciana e di quello che avevo imparato nella sua bottega. Pierre sembrò sciogliersi a ogni parola e nei suoi occhi non vidi più la tracotanza con cui mi aveva trattata nelle settimane precedenti.

Prima di andare via, ci ringraziò e io gli ricordai di riportarmi indietro i piatti in cui gli avevo lasciato i pasti della settimana precedente. Mi fece cenno di seguirlo nel suo appartamento, ma lo spettacolo che si palesò ai miei occhi mi fece inorridire.

Quell'uomo viveva come un barbone, le stanze erano piene di immondizia e il lavello era colmo di stoviglie sporche. In un angolo della camera da letto vi erano quattro manichini, su cui erano appoggiati alcuni abiti da donna eleganti, non ancora terminati e ricoperti di polvere. Gli dissi di aspettarmi e chiamai Pete. Iniziammo a pulire la casa del signor Bourgeois quella sera stessa e, verso mezzanotte, finimmo di riempire gli ultimi sacchi neri di spazzatura.

L'indomani mattina misi al corrente Bobby B. delle condizioni in cui viveva il signor Bourgeois. Il giovane venne con me per parlargli e, infine, riuscimmo a convincerlo a farsi una doccia. Rivestito con abiti puliti, che gli avevo lavato la sera prima, gli chiesi il permesso di accorciargli la barba e i capelli per donargli un aspetto più ordinato. Egli acconsentì, con sommo stupore di Bobby B.

Mentre terminavamo di riordinare l'appartamento, il mio collega mi riferì che il signor Bourgeois aveva perso la sua più grande amica Emmanuelle dopo una lunga e dolorosa malattia. Il lutto lo aveva così sconvolto da decidere di abbandonare anche la scena teatrale di San Francisco e solo il talento di Lena era riuscito a convincerlo a terminare qualche ultimo capo di alta sartoria.

Quella sera, a letto, Pete mi dette un bacio sulla fronte e mi domandò come mai il signor Bourgeois mi avesse colpita così tanto.

"Un po' mi ricorda mio padre, avrebbero avuto la stessa età..." risposi di getto.

Fino a quel momento non ci avevo mai pensato con lucidità, ma nel modo di camminare di quell'uomo, nei suoi gesti lenti e ripetitivi, io avevo rivisto il mio babbo o quello che avrei immaginato essere a sessant'anni.

Anche se era stato in passato spesso sgarbato e arrogante, quando vedevo il signor Bourgeois vagare per Washington Square mi si stringeva il cuore. Senza accorgermene, Pierre divenne una presenza fissa nella mia vita.

***

Quei primi mesi a San Francisco trascorsero in un battito di ciglia e ci ritrovammo a Natale; il mio primo Natale con Pete, il mio primo Natale senza Anna.

Avevo convinto mio marito a invitare suo fratello e la sua famiglia a venire da noi, ma Ryan aveva declinato l'invito con la scusa del piccolo Thomas. Come immaginavo, mio cognato non ci aveva proposto di raggiungerli in Idaho.

Zia Nerly doveva passare il Natale con noi a San Francisco, ma all'ultimo ci aveva telefonato per disdire perché aveva conosciuto da poco un uomo affascinante, di origine cubana, che l'aveva invitata per le feste in Florida. La zia era pazza di lui. "Dovresti vedere che baffi che ha!" mi aveva raccontato con tono sognante, strappandomi un sorriso.

Durante la telefonata avevo avuto modo di salutare anche i signori O'Reilly che si erano recati di proposito al pub per parlarmi al telefono e per ringraziarmi del regalo che avevo inviato loro. Il signor O'Reilly mi informò che a novembre un italiano si era presentato al mio vecchio appartamento e aveva posto a tutti i vicini molte domande sul mio conto. Il signor O'Reilly gli aveva propinato la versione che avevamo concordato e l'aveva condotto ad Hart Island a vedere la grande croce, dove i nullatenenti venivano sepolti. Come temevo, la contessa di Northbridge aveva saputo del sergente Rossi e aveva mandato un suo scagnozzo a controllare che fine avessi fatto io. Il signor O'Reilly, percependo la preoccupazione nella mia voce, mi rassicurò che l'uomo se ne era andato dicendo che non li avrebbe più disturbati. Secondo il mio vicino, quell'individuo pareva convinto della storia che gli aveva raccontato, supportata inoltre dalle cartelle cliniche e dai registri ospedalieri che era riuscito a modificare durante la mia degenza.

Pete e io dovemmo perciò a organizzare quel nostro primo Natale insieme da soli. I miei Natali precedenti non erano stati molto diversi, in realtà. Li avevo trascorsi con Anna e con la Luciana e mi era sempre bastato così, ma quel Natale del '54 sentivo che mi mancava qualcosa.

"Hai nostalgia della tua famiglia, di Anna..." mi fece notare il mio irlandese con un sorriso dolce.

"Sei tu la mia famiglia, Pete Carroll, e noi due insieme avremo il Natale migliore di sempre!" gli risposi, cercando di cacciare indietro le lacrime al pensiero di non trascorrere quel giorno con mia cugina.

Passai la giornata della vigilia tenendomi occupata a cucinare con l'aiuto di Pete che si rendeva sempre disponibile come assaggiatore e per gli altri lavori di "bassa manovalanza", come li definiva lui. Mentre uscivo per prendere gli ultimi ingredienti che mi servivano per il tiramisù, incrociai nel corridoio il nostro vicino dell'appartamento 3C, che si era affacciato ad annusare il profumino invitante delle pietanze che stavo cucinando.

"Che cos'è questa delizia?" chiese con un forte accento campano. Rimasi stupita sentendo quelle parole perché non sapevo che un altro italiano vivesse nello stabile. Mi fermai sorridendogli e mi presentai, scusandomi per non averlo fatto quando ci eravamo trasferiti.

In realtà era la prima volta che lo vedevo di persona. Sapevo infatti che al 3C viveva una coppia, ma fino a quell'istante avevo soltanto incrociato i loro numerosi e frequenti ospiti, che erano soliti bussare alla loro porta, chiamando a gran voce "Dottoressa". Avevo dedotto, perciò, che la moglie esercitasse in casa una qualche professione medica.

L'uomo mi propose di entrare a bere un vero caffè napoletano, fatto con la moka, e io accettai l'invito, agognando un espresso, dopo mesi di brodaglia americana. In cucina, sua moglie Claudette, una bella ragazza francese di origine creola, con un fondo schiena così ritto e sodo da cui era impossibile distogliere lo sguardo, mi fece segno di accomodarmi. La donna mise via in un cassetto alcune provette contenenti delle polveri che stava setacciando. Non mi ero sbagliata: quei due erano di sicuro dei farmacisti o qualcosa del genere, perché quella stanza assomigliava più a un laboratorio che a una cucina, talmente era piena di pipette e contenitori di ogni forma e dimensione.

Porgendomi la tazzina, l'uomo mi raccontò che si chiamava Donato Paradiso ed era originario di San Giorgio a Cremano, ma a San Francisco tutti lo chiamavano Donnie Paradise. La moglie e lui vivevano in quell'appartamento da tre anni ormai, insieme all'amato pechinese giapponese Wully. Il cane, in realtà, si chiamava Willy ma al negozio dove Donnie aveva commissionato l'incisione della medaglietta non avevano compreso il nome, a causa del forte accento del mio vicino e, da quel momento, il cane era stato ribattezzato "Wully".

"Quando sente che c'è da mangiare, lo puoi chiamare anche Gennarino, stanne certa che viene lo stesso!" mi spiegò, grattando con tenerezza l'orecchio del suo amico a quattro zampe.

Donnie era un uomo possente, dalla capigliatura bizzarra, calvo in capo ma con un lungo codino brizzolato legato in una coda di cavallo. C'era qualcosa di simpatico e di inquietante allo stesso tempo in lui: sorrideva sempre ma soltanto con le labbra, mentre gli occhi scuri da caimano osservavano l'interlocutore con aria imperscrutabile.

Domandai a Claudette e a Donnie che programmi avessero per Natale e, quando mi risposero che lo avrebbero trascorso da soli, li invitai a unirsi a noi. Donnie ne fu subito entusiasta e, per non farsi capire dalla moglie, mi sussurrò in italiano: "Che bellezza! Dopo un secolo, mangerò un vero pranzo di Natale!"

L'indomani, Paradise aiutò Pete a spostare il tavolo di Pierre per unirlo al nostro, ottenendo una perfetta tavolata da otto persone.

Pierre gironzolava per il salotto, sorseggiando un bicchiere di vino rosso, ridendo in francese con Claudette e parlando della decorazione in macramé che la donna aveva realizzato per noi. La moglie di Donnie aveva imparato a intrecciare quelle opere d'arte dalla maestra del ricamo in persona, Jules MacOlivander, anni addietro.

Mi fermai a osservare il mio padrone di casa: l'anziano solo e confuso di qualche settimana prima sembrava scomparso e, al suo posto, c'era un uomo brillante e pronto a sorridere senza vergognarsene. A quel pensiero una piacevole sensazione di calore si fece strada dentro di me.

A mezzogiorno arrivarono anche Bobby B. e Lena con un profumatissimo e coloratissimo cesto di frutta tropicale che posarono all'ingresso. Quando Mr Brench vide i coniugi Paradiso strabuzzò gli occhi in una delle sue espressioni stupefatte, che di solito riservava alle occasioni in cui doveva rivelarmi uno dei suoi segreti sconvolgenti, ma io ero troppo indaffarata col pranzo per dargli corda e lo lasciai solo con la sua espressione attonita.

Venti minuti più tardi eravamo tutti e sette seduti allo stesso tavolo a festeggiare il Natale del 1954, dinanzi a un banchetto in piena regola. Avevo sgobbato per l'intera notte, ma l'espressione meravigliata e soddisfatta dei miei commensali mi ripagò di quella fatica.

Iniziammo a fare conversazione e io domandai a Claudette e a Donnie che lavoro facessero.

"Potrei definirmi un rappresentante farmaceutico" rispose Donnie, con la sua solita espressione indecifrabile. A quelle parole Bobby B. quasi si strozzò e dovette alzarsi, scusandosi coi presenti.

Lo raggiunsi in cucina preoccupata, però lo trovai piegato in due dalle risate. "Rosa, ma che cosa ci fa Donnie Paradise a casa tua? E c'è anche la Dottoressa! Oh Dio, non vedo l'ora di raccontarlo a Lawrence!"

"Abita al 3C e lui e sua moglie sono una coppia adorabile. Cerca di essere più educato e non farti sentire, Donnie è italiano!" lo rimproverai, frustandolo per scherzo con un tovagliolo.

Tornati a tavola, ripresi la conversazione da dove l'avevo interrotta e chiesi a Claudette che tipo di medico fosse.

"In realtà sono una parrucchiera. Mi chiamano così perché lavoro soprattutto in ospedale... taglio i capelli ai pazienti ricoverati" mi spiegò, fissando seria negli occhi Bobby B. che cercava di non incrociarne lo sguardo.

Raccontai loro del lavoro alla City Lights Bookstore ed entrambi i coniugi Paradise annuirono: conoscevano infatti di persona molti degli scrittori di cui vendevamo le opere. A quelle parole, Bobby B. scoppiò di nuovo a ridere. Lo guardai di sottecchi ma cercai di evitare di dargli troppa importanza e, con l'aiuto di mio marito, che mi aveva capita al volo, cominciai a servire il tiramisù.

Quella sera, mentre terminavo di asciugare i piatti del pranzo con Pete, osservai sorridendo fuori dalla finestra Columbus Avenue illuminata.

Soltanto a San Francisco poteva accadere di trovare sette anime sole, unite dal fato, a trascorrere insieme quel giorno di festa."

«Mi scusi, sa dov'è la signorina Corsini?» mi interrogò all'improvviso un individuo, interrompendo bruscamente la mia lettura. Mi girai verso quella voce dal marcato accento britannico e vidi dinanzi a me un bell'uomo di circa cinquant'anni, capelli sale e pepe, fisico asciutto e un sorriso sicuro di sé che doveva avere l'abitudine di sfoderare per affascinare il proprio interlocutore.

«Tania e Lucrezia sono alla reception in questo momento. Le deve cercare dall'altro lato del B&B» lo informai, indicandogli il viale da imboccare per arrivare alle gemelle.

«Chissà chi è?» esclamai, mentre lo vedevo allontanarsi.

«È quello che Fynn chiama il bastardo» mi rispose con noncuranza Sole.

«Ne abbiamo già parlato: devi moderare il tuo linguaggio. A settembre andrai alle elementari e devi imparare che certi vocaboli non si usano mai. Visto che è il tuo compleanno non lo dirò alle zie, ma tu promettimi che ci starai attenta!» mi raccomandai, cercando di sembrare risoluta, poi aggiunsi incuriosita: «E chi sarebbe quel tizio?»

Sole sospirò con aria mesta. «In tutti questi anni quell'uomo non mi ha mai portato regali ma solo tanti guai. Il suo nome è Richard.»

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