CAPITOLO 12 ~ parte seconda
Qualche sera più tardi, quando rientrai in camera mia dopo aver addormentato Sole, trovai un'altra lettera da parte di Luca con un pezzo del tuo diario, Rose, tradotto per me.
Impaziente, mi distesi sul letto e incominciai a leggere.
"Arrivò il giorno della partenza. Emozionati come non mai, Pete e io salimmo sulla corriera Greyhound alla fermata sulla 34ma, diretti verso Ovest.
Durante quelle interminabili ore di bus conoscemmo molte persone diverse tra loro, ma accomunate tutte dalla stessa speranza verso ciò che rappresentava la California. Quella corriera grigia, che avanzava lenta per le strade degli Stati Uniti, trasportava infatti non dei semplici passeggeri, ma dei sognatori, squattrinati come noi, con valigie colme di progetti audaci e visionari da realizzare nel Golden State.
Ogni cinque ore circa la corriera si fermava per permettere all'autista di riposare o darsi il cambio con altri colleghi, e noi ne approfittavamo per ristorarci alle stazioni di servizio e alle tavole calde. Quasi sempre mangiavamo una fetta di torta di mele con gelato, il pasto più economico e sostanzioso che potevamo permetterci.
Risaliti in autobus, riprendevamo a chiacchierare con gli altri passeggeri perché nessuno di noi riusciva a chiudere occhio per l'eccitazione, pensando al fatto che, miglio dopo miglio, ci avvicinavamo sempre di più al nostro futuro.
Tre giorni più tardi eravamo alla stazione degli autobus di Boise alla ricerca di Ryan. L'uomo era appoggiato alla sua Ford Pilot e fumava con aria nervosa. Quando vide Pete, buttò a terra il mozzicone e ci venne incontro abbracciando il fratello. "Benvenuti nello Stato delle Patate!" ci accolse lui ridendo.
Lo salutai sorridendogli e lui mi fece un cenno col capo, prendendo la mia borsa e caricandola nel baule dell'auto.
Dopo poco arrivammo nei sobborghi di Boise, dove Ryan viveva con la moglie e i due figli. File di case bianche tutte uguali si estendevano ordinate per interi isolati. "Come fai a riconoscere la tua di ritorno dal pub?" chiese divertito Pete.
"Per fortuna mi conoscono tutti e c'è sempre qualcuno che mi riporta da Jenna Lee!" rispose Ryan, sghignazzando.
Pete sembrava così contento di essere con suo fratello, lo vedevo dal modo in cui anche i suoi occhi sorridevano ai racconti di Ryan. Quei due si erano finalmente ritrovati e, in quel momento, non riuscii a non pensare a come sarebbe stato parlare con Anna dopo tutti quei mesi.
Assorta nei miei pensieri, non mi ero resa conto che Ryan aveva parcheggiato dinanzi a una piccola villetta a schiera.
Dietro alle lenzuola stese in giardino che svolazzavano al sole, intravidi due bambini dai capelli rossi che si rincorrevano. Dovevano avere poco più di tre anni.
"Lewis, George! Venite qui! È arrivato lo zio!" urlò Ryan, sbattendo la portiera dell'auto.
I nipotini ci vennero incontro e saltarono in braccio a Pete che, in un attimo, se li caricò in spalle e si mise a giocare con loro, facendoli ridere a crepapelle.
Il cuore mi si strinse vedendo mio marito così felice e immaginai per un attimo quanto sarebbe stato meraviglioso avere un figlio con lui.
Nelle ultime settimane, in realtà, ci avevo pensato spesso, troppo spesso. Mi figuravo seduta nel portico della nostra nuova casa a guardare nostra figlia in giardino, una splendida bambina dai riccioli rossi come il mio irlandese, il visino ricoperto da una manciata di lentiggini e i miei occhi verdi. In quel mondo immaginario mi figuravo conversazioni con lei mentre le acconciavo i capelli, le raccontavo una storia o giocavamo alle bambole insieme. Potevo trascorrere ore senza accorgermene in sua compagnia perché, almeno lì, nella mia fantasia, nessuno poteva portarmela via. Era la mia bambina. Era Mia. La mia piccola Mia.
"Stai bene, Rose?" mi chiese Pete accarezzandomi il viso, riportandomi alla realtà.
Mi sforzai di sorridere e, evitando il suo sguardo, entrai in casa a salutare mia cognata. Jenna Lee, in avanzato stato di gravidanza, era in cucina intenta a ripiegare la montagna di biancheria che faceva capolino dalla cesta ai suoi piedi.
Mi salutò con gentilezza e rimase ferma davanti al tavolo, in imbarazzo, senza sapere che cosa dire. Per rompere il ghiaccio mi offrii di aiutarla coi panni e lei, dopo qualche timida rimostranza iniziale, mi ringraziò e accettò il mio aiuto. Le chiesi quanto mancasse al parto e lei mi rispose che ormai era questione di giorni.
Chissà che cosa si provava ad avere una vita crescere dentro di sé, una vita che per metà veniva dal tuo amore più grande. Chissà cosa sentiva davvero Pete, sempre pronto a difendermi e a minimizzare, quando gli dicevo che un giorno avrebbe desiderato dei figli suoi che io non potevo dargli.
Volevo andare via da lì, allontanarmi da quelle testoline rosse che riempivano la casa con le loro allegre risate, il suono più bello che avessi mai sentito. Ma Pete era felice, lo vedevo, e io non gli avrei rovinato quel momento con la mia tristezza.
Mi feci coraggio, sfoderai il mio sorriso migliore e proposi a Jenna Lee di lasciarmi preparare il pranzo.
"Sei sicura...?" mi rispose. Dallo stupore sul suo viso ebbi l'impressione che non doveva essere abituata a molte gentilezze. Ryan non era un uomo violento ma si rivolgeva alla moglie in modo brusco e, in quelle poche ore trascorse insieme, non gli avevo mai visto un gesto d'affetto spontaneo nei confronti di mia cognata.
Quando il pranzo fu pronto, andai in camera di Jenna Lee a chiamarla perché non sapevo dove tenesse le posate per apparecchiare e la vidi con gli occhi arrossati.
"Tutto bene?" le domandai avvicinandomi al letto.
"Oh sì, certo, perdonami, Rose. Ti ho lasciata di là da sola... mi ... mi dispiace."
"Non ti devi scusare con me. Se fossimo più vicine, ti darei una mano volentieri" la rassicurai.
Lei rimase a guardarmi come se non mi vedesse. "Ci si sente così persi a volte... Dammi soltanto un minuto e arrivo."
La lasciai assorta nei suoi pensieri. È proprio vero che ognuno di noi affronta una battaglia silenziosa con sé stesso e non tutti ne escono vincitori. Jenna Lee sembrava sconfitta eppure aveva tutto dalla vita: figli, un marito, un tetto sulla testa e cibo in tavola ogni giorno, ma il suo "tutto" non era sufficiente per lei perché era abbandonata alla solitudine peggiore, quella causata dagli altri. Nel suo caso dall'indifferenza del marito.
Seduti a tavola, Ryan parlava a Pete del suo lavoro in fabbrica e iniziò a raccontare che erano arrivati dei nuovi operai siciliani che a lui non piacevano.
"Lo sai come sono gli italiani, chiacchierano tanto e lavorano poco!" concluse, trangugiando il boccone del pasto che avevo cucinato.
"Rose è toscana, te l'ho detto. È come se affermassi che gli irlandesi sono tutti alcolizzati" gli spiegò Pete, deluso.
"Perché? Non è vero, forse?" rispose sogghignando Ryan e dette una generosa sorsata alla bottiglia di birra che aveva di fronte.
"Per fortuna non è così" mi scappò detto.
"Tua moglie ha la lingua lunga, vedo..." disse mio cognato, rivolgendosi al fratello.
Quell'uomo non mi aveva ancora parlato in modo diretto da quando eravamo arrivati.
Presi la mano di Pete sotto il tavolo, la sua espressione tesa mi preoccupava. Non volevo in alcun modo che a causa mia litigasse con Ryan.
"Allora, avete già deciso di mettere su famiglia?" mi chiese Jenna Lee, cercando di cambiare argomento.
Rimasi in silenzio guardando il piatto davanti a me, il cuore in frantumi.
"Non possiamo avere figli" rispose Pete, fissando negli occhi la cognata.
"Che cosa vuoi dire con "non possiamo"? È sterile?" domandò Ryan, parlando di me come se non fossi presente.
"Non possiamo. Punto e basta" ribatté asciutto Pete.
"Ma vi siete appena sposati... questo vuol dire che ne eri a conoscenza già prima di convolare a nozze?" chiese incredulo mio cognato.
"Certo che lo sapevo" rispose Pete, continuando a reggere lo sguardo del fratello, il viso tirato dalla collera.
"E l'hai sposata lo stesso?" insistette Ryan, come se non potesse neanche concepire lontanamente quanto gli stava dicendo mio marito.
"E l'ho sposata lo stesso, esatto. Se lei non può avere figli, vuol dire che NOI non possiamo avere figli perché, se c'è una cosa di cui sono sicuro, è che io non vorrei avere figli con nessun'altra."
A quelle parole Pete mi prese il viso tra le mani. "Guardami, Rose. Ti ho fatto una promessa e la manterrò fino alla fine dei miei giorni. Nessuno ti mancherà mai più di rispetto dinanzi a me. Tu sei la mia famiglia. Andiamo via."
"Ma non c'è bisogno di fare così!" esclamò Ryan, dando un pugno sul tavolo.
I bambini corsero in salotto vedendo il padre furente, ma Pete, noncurante della collera del fratello, continuò a guardarmi sorridendo e, accarezzandomi il viso, ribadì: "Ti porto a casa".
"Ma che stai dicendo? San Francisco è ad almeno dodici ore da qui!" esclamò indispettito Ryan.
"Vieni" mi ripeté Pete, gli occhi puntati sui miei.
E se prima Ryan mi aveva fatto sentire invisibile, un solo sguardo di Pete aveva il dono di mettermi al centro del suo universo, l'unico in cui avrei voluto vivere per sempre.
Senza dire altro, mio marito salutò i nipoti, dette un bacio sulla guancia alla cognata, e mi trascinò fuori da quelle mura. Appena fummo all'aria aperta, gettò la valigia da un lato e mi baciò con una passione tale che ancora oggi ho i brividi a distanza di tutti questi anni.
"Dobbiamo sbrigarci, tra venti minuti parte una corsa per San Francisco, possiamo ancora farcela! Riesci a correre?" mi domandò, all'improvviso preoccupato per me.
"Credo di poter fare qualsiasi cosa se siamo insieme!" gli risposi ancora incredula e, mano nella mano, ci incamminammo a passo veloce lungo le strade polverose di Boise.
Arrivati alla pensilina dell'autobus, Pete si gettò con un balzo sulle porte della corriera che si stavano richiudendo e, sfoderando uno dei suoi sorrisi irresistibili, si scusò con gli altri passeggeri per il ritardo che il nostro arrivo improvviso avrebbe causato.
Ci accomodammo in fondo alla corriera, Pete dal lato del finestrino e io accanto a lui. Appoggiai la testa alla sua spalla e mi addormentai quasi subito, stremata dai giorni di viaggio precedenti in cui non avevo chiuso occhio, mentre mio marito guardava fuori dal finestrino, impaziente di scorgere all'orizzonte la nostra vita futura.
"Svegliati, Rose, siamo a casa" mormorò sulle mie labbra Pete dodici ore dopo.
Quando aprii gli occhi, quel maestoso ponte rosso, che avevo ammirato fino a quel momento soltanto nelle cartoline, ora si stagliava sull'Oceano Pacifico davanti a me. Il Golden Gate, illuminato dalle luci dell'alba della nostra nuova vita, ci dava il benvenuto in quella terra selvaggia e piena di opportunità.
Come ipnotizzati, scendemmo per qualche minuto dall'autobus insieme agli altri passeggeri, incantati da quella vista, e, con passo incerto, raggiungemmo una panchina da cui potevamo ammirare tutta la baia. Mano nella mano, Pete e io sedevamo in silenzio, contemplando la nebbia del mattino che, piano piano, svelava la città che ci avrebbe accolti in meno di un'ora.
"Sì, siamo a casa" ripetei io e sapevamo entrambi che era così.
Ora capivo, Rose, perché mi avevi portata al di là della baia la notte in cui avevo distrutto la barca di Ben.
In quel luogo avevi provato un senso di sicurezza, protezione e appartenenza che solo il sentirsi a casa riesce a infondere.
La stessa sensazione che fioriva in me quando imboccavo il poggio dietro al B&B, all'ombra dei cipressi, e ammiravo la Vite di Bacco dall'alto della collina.
Compresi allora che le nostre storie, Rose, avevano iniziato a viaggiare su binari paralleli. E se il tempo e lo spazio ci separavano, quel percorso così diverso sulla carta ci stava però portando alla stessa meta, attraverso un viaggio di formazione che mai avrei immaginato di intraprendere con me stessa.
Leggendo la tua storia, amica mia, ascoltavo e iniziavo a capire la mia.
Pagina dopo pagina, conoscevo Rosa, la sua inarrestabile fiducia nel futuro, i suoi tormenti più profondi, la sua tenacia incommensurabile, e in essi riconoscevo una nuova parte di me stessa. La parte migliore di me.
Presi il telefono tra le mani e scrissi un messaggio di ringraziamento a Luca.
Poco dopo il mio cellulare trillò, annunciandomi l'arrivo della sua risposta.
Lucatheoldgeezer , Mar 01:02 Proprio ora sto traducendo il resto del diario. Non hai idea di quanto mi stia divertendo a leggere quello che ha combinato Rose a San Francisco!
«Non vedo l'ora di scoprirlo!» risposi sorridendo, impaziente di conoscere un altro pezzo della tua storia, amica mia. «Luca ...» scrissi di getto, senza riuscire a terminare il messaggio.
Lucatheoldgeezer, Mar 01:09 Anche tu mi manchi, Nicole.
"Tutto si riduce all'ultima persona a cui pensi la notte, è lì che si trova il tuo cuore", diceva Bukowski.
Il mio si trovava nella stanza accanto.
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