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CAPITOLO 11 ~ parte prima

Nei giorni seguenti vidi spesso Luca, senza avere, però, mai occasione di parlarci. Si comportava in modo strano con me e avevo la sensazione che stesse mettendo in atto una qualche strategia per dimostrarmi che l'idea che avevo di lui fosse sbagliata. Ogni volta che i nostri occhi si incrociavano, sentivo i suoi come una carezza su di me. Luca indugiava senza pudore con lo sguardo sulla mia bocca, sulle curve del mio corpo, facendomi arrossire a ogni incontro e poi, puntualmente, mi sorrideva, soddisfatto della mia reazione imbarazzata.

Il culmine si era raggiunto una mattina quando ero scesa prima in cucina a prepararmi un tè e, con mio stupore, lo avevo trovato seduto vicino al piano cottura a leggere alcuni documenti. Indossava un paio di boxer neri e una maglietta degli AC/DC, cosa che mi aveva lasciata interdetta per qualche secondo.

Era davvero Luca o la sua versione hard core?

Provai a fare l'indifferente. «'Morning» lo salutai con noncuranza.

«'Giorno» rispose lui senza guardarmi.

Presi dal pensile una bustina di tè, accesi il bollitore aspettando che l'acqua si scaldasse e, appoggiata al tavolo della cucina, cominciai a fissarlo. Aveva proprio delle belle gambe, abbronzate e non troppo muscolose bensì definite e toniche.

«Smettila» mi rimproverò all'improvviso.

«Di fare cosa?» chiesi sorpresa.

Iniziò a scrutarmi da dietro ai fogli che aveva in mano. «Smettila di fissarmi. Ti sento.»

Gli scoccai un'occhiata di sfida, voltandomi verso il ripiano dove avevo posato la tazza col mio tè bollente. «Ah sì? Tu lo puoi fare e io no? Non mi sembra giusto!»

In un attimo lo sentii alle mie spalle, il suo respiro caldo sul mio collo mi fece rabbrividire. Luca se ne accorse e con le dita tracciò una linea dal mio polso all'avambraccio. Trattenni il respiro mentre lo sentii sussurrarmi all'orecchio: «Non sono poi così noioso come pensavi, vero?» e, senza darmi il tempo di replicare, mi lasciò lì, ancora stordita, da sola coi miei ormoni.

***

Era venerdì sera e Sole e io eravamo in camera sua a guardare un film insieme.

La bambina si era addormentata da poco, ma dal suono del suo respiro sapevo che era già scivolata in un sonno profondo.

Presi la borraccia sul comodino, andai in bagno a riempirla con acqua fresca e, quando rientrai in camera, sobbalzai alla vista di Luca piegato sotto il letto.

«Che stai facendo?» lo interrogai, sporgendomi per vedere che cosa combinasse.

Indossava un'altra t-shirt nera, questa volta dei Sex Pistols. «Sto cercando i miei occhiali. Li ho persi da giorni...»

Dal primo cassetto del comò estrassi quelli che avevo recuperato e glieli porsi.

Incrociai le braccia sotto il seno, non essendo più sicura se si trattasse davvero di un sogno il ricordo della figura accanto a me di qualche notte prima. «Erano sul pavimento. Sei stato qui lunedì?»

«Forse...» mi rispose calzando gli occhiali sul naso e quel gesto mi strappò una risatina.

Mi lanciò un'occhiataccia sempre con la solita aria imbronciata, le labbra carnose ripiegate all'ingiù. «Che c'è?» mi domandò corrucciato.

«Niente... è che in un attimo sei passato da Johnny Rotten a Harry Potter!» gli risposi sghignazzando.

Luca si alzò in piedi, tentando di rimanere serio, ma vedevo dai suoi occhi che era divertito.

«Signorina Green, ha altri complimenti da farmi o ha finito di fare la stronza?»

Spalancai la bocca, fissandolo incredula. «Ho finito, Mr Corsini» e, girandomi verso la porta, prima di uscire, aggiunsi: «Però mi chiedevo: ha abbandonato la sua collezione di camicie azzurre inamidate per sempre o quella delle magliette delle band è solo una fase? Forse dovrebbe indossare un abbigliamento più consono alla sua età!»

«Scusa, ma quanti anni mi dai?» volle sapere con tono allarmato.

«Trentacinque...?» bisbigliai.

«Trentacinque?» ripeté sconcertato. «Ma se ne compio trenta il 15 gennaio!»

A quelle parole così cariche di sdegno, scoppiammo entrambi a ridere, tant'è che Sole si rigirò nel letto infastidita.

D'istinto mi avvicinai a lui e gli levai gli occhiali. Con quella maglietta, i capelli spettinati e il viso rasato, in effetti sembrava molto più piccolo rispetto al nostro primo incontro.

«La barba mi piaceva però...» mormorai ad alta voce senza accorgermene.

«Ma se ho indossato stupide magliette tutta la settimana per dimostrarti che non sono imbalsamato come credi! Ti immagini se me la facessi ricrescere? Sembrerei molto più...».

«Uomo» finii io la frase per lui, la mente che immaginava già il contatto tra la mia pelle e la sua barba ruvida.

Sole si rigirò di nuovo nel letto e, per non rischiare di svegliarla, uscimmo di soppiatto dalla sua camera, rimanendo nel corridoio al buio.

«Non vedo nulla» sussurrai.

«Non ne hai bisogno...» mi rassicurò lui, prendendomi la mano e, intrecciandola alla sua, mi fece da guida nell'oscurità fino alla mia camera.

Aprii la porta della mia stanza ed entrai, ma lui rimase all'ingresso a osservarmi.

«È da tanto che non leggiamo il diario di Rose...» dissi, sperando mi chiedesse di entrare.

Sul suo viso, però, non c'era più traccia dell'allegria che pochi istanti prima avevo visto brillare in lui. «Non posso, non posso proprio...»

Annuii in silenzio, ma mentre stava per richiudere la porta della mia stanza, gli corsi incontro e lo strinsi. Lui rimase immobile per qualche istante, ma poi le sue braccia mi avvolsero forte al suo petto. Si chinò su di me e, posando un bacio delicato sulla mia nuca, sospirò: «Sarebbe tutto più semplice se tu non fossi tu, Nicole».

Rimasi lì, immobile nel buio della notte, guardando la porta della camera di Luca richiudersi dietro di lui, orfana di quell'abbraccio in cui mi sarei persa senza fine.

***

Il pomeriggio seguente, Sole era impegnata a cucinare con Anna, quando scorsi Luca farmi cenno di seguirlo in veranda.

«Ti chiedo scusa per il mio comportamento di ieri. Ho promesso di aiutarti col diario di Rose e ho intenzione di farlo... seguimi!» mi esortò, indirizzandomi un mezzo sorriso.

Diedi a Luca il quaderno e mi incamminai in silenzio su per la collina dietro di lui. Era un sabato molto caldo di luglio, ma su quel piccolo poggio all'ombra dei cipressi si stava d'incanto.

Luca spiegò la coperta che aveva sotto il braccio e la distese ai suoi piedi; si sedette al capo opposto dove mi ero adagiata, appoggiando la schiena al tronco dell'albero col tuo diario in grembo.

Rimasi così in silenzio ad ascoltare il resto della tua storia, Rose, narrata dalla sua voce roca e profonda.

"Ci trasferimmo in un minuscolo appartamento a Little Italy all'interno di uno squallido palazzo, dove abitavano per lo più italiani e irlandesi.

Vivevo nella miseria assoluta; a volte capitava che non mangiassi per giorni perché il sergente spariva spesso, ma prima di andarsene mi chiudeva sempre in casa, lasciandomi soltanto un catino dove urinare.

Le violenze di quell'uomo continuavano ma giunta a New York qualcosa in me era cambiato nel profondo. Si era accesa di nuovo quella scintilla di speranza che mi aveva fatto affrontare sempre, nonostante tutto il dolore e la disperazione, gli eventi più bui della mia vita.

Nelle rare occasioni in cui non ero segregata in casa, salivo fino all'ultimo piano del palazzo e, con la scusa di stendere i panni sul tetto, mi perdevo in quella vista di grattacieli che mi circondavano da ogni lato.

Come da bambina nei boschi di Vinci, anche qui mi sporgevo, salda alla scala antincendio, per scrutare i palazzi e la vita che brulicava sotto e sopra di me, in quella città così straordinariamente diversa dal mondo che avevo conosciuto. Ripromisi a me stessa che avrei pensato a un modo per esplorare e scoprire quella metropoli, ma per prima cosa avrei dovuto riappropriarmi della mia libertà.

Colsi l'occasione al volo una mattina in cui il sergente era arrabbiato più del solito perché ormai quasi senza un centesimo. Gli raccontai che la nostra vicina di casa, la signora O'Reilly, mi aveva detto che una conoscente voleva assumere una donna delle pulizie. Non era di certo vero e sperai che il sergente non chiedesse conferma all'anziana donna, ma non fui fortunata. Nel momento in cui glielo proposi, l'uomo si diresse da Mrs O'Reilly e le domandò se stessi mentendo.

La donna non mi aveva mai rivolto la parola da quando un mese prima ero arrivata in quella scala, ma con mio sommo stupore mi guardò e fece cenno di sì col capo. "Ho un'amica che ha un pub vicino alla Broadway, le serve qualcuno che pulisca i bagni e la sala durante l'apertura e risistemi a fine serata" rispose, fissandomi negli occhi.

Il sergente rimase meravigliato perché era convinto che gli avessi detto una bugia, ma non potendo mettere in discussione quanto appena confermato dalla donna, acconsentì che mi recassi al mio nuovo impiego.

Quando se ne fu andato, ringraziai Mrs O'Reilly per non avermi tradita. Lei mi rispose, contorcendosi le mani, che conosceva davvero un'irlandese in cerca di un'addetta alle pulizie per il suo pub e che, se volevo, mi poteva accompagnare. Era più di quanto sperassi! Finalmente la fortuna girava dalla mia parte.

Prima di rientrare nel mio appartamento, la mia vicina aggiunse: "Ho sentito come ti tratta quando torna ubriaco. Andrà sempre peggio se rimarrai dentro quella casa".

"Prima o poi ti ucciderà" concluse il marito, Mr O'Reilly, che aveva assistito alla scena, le labbra strette in una smorfia di dolore.

Il signor O'Reilly lavorava al sanatorio di Hart Island come inserviente, la sofferenza e la morte erano sue compagne quotidiane. Taciturno, si metteva seduto sul pianerottolo vicino alla finestra a leggere il giornale senza incrociare mai lo sguardo di chi saliva le scale, ma dal giorno in cui la moglie mi aveva dato una mano, quando mi incontrava, mi faceva sempre cenno di aspettare e, dopo essere sparito in casa, ritornava con un tozzo di pane avvolto in un fazzoletto. Io lo ringraziavo e lui non diceva mai nulla, mi voltava le spalle e borbottava qualcosa, facendo spallucce. Quel gesto di semplice generosità mi riempiva il cuore e lo stomaco perché spesso era ciò che mangiavo in tutto il dì.

Ricordo che, quel giorno in cui la signora O'Reilly mi offrì il lavoro, entrai per la prima volta in casa loro. L'appartamento era modesto ma pulito e la mia attenzione fu catturata subito da una foto color seppia di una giovane donna, posta sulla credenza all'ingresso. Chiesi chi fosse e la signora O'Reilly mi rispose che era la loro unica figlia, Margareth, morta una decina di anni prima.

"Era bellissima..." notai con un filo di voce mentre l'anziana rimirava quel viso tanto amato che le sorrideva da un tempo lontano.

Certe perdite lo sapevo bene non si possono mai superare del tutto. Puoi sforzarti di riprendere la tua esistenza, di avere il coraggio di alzarti dal letto, di lavarti e andare a lavorare, ma anche se il mondo va avanti con la sua corsa senza sosta, sai che una parte di te è come se rimanesse cristallizzata in quel momento che ha cambiato per sempre la tua vita".

«Ha ragione Rose, è proprio così» mormorò Luca, gli occhi lucidi.

«Stai bene?» gli chiesi preoccupata.

«Sì, certo, scusami Nicole, andiamo avanti» rispose lui, provando a non mostrarmi la sua commozione. Si schiarì la voce e proseguì il racconto.

"La settimana seguente la signora O'Reilly mi condusse al locale e, per la prima volta, mi ritrovai nelle strade di Manhattan. Non avevo mai visto così tanta gente insieme proveniente da chissà quali paesi: lingue, colori, odori, si mescolavano in quelle vie in cui tutti sembravano sicuri della propria destinazione. Saltellavo, cercando di non inciampare nella fiumana di persone che venivano nella mia direzione, respirando la libertà che tanto avevo agognato in quegli ultimi due mesi di semi segregazione.

A un certo punto la mia vicina mi risvegliò da quel sogno a occhi aperti, strattonandomi per la gonna e, indicandomi con aria severa l'insegna del pub, mi fece segno di seguirla.

Col cuore in gola per l'inizio di quella nuova avventura, varcai la porta del locale, piena di speranza e buona volontà.

La proprietaria, la signora Carroll, era la donna più alta che avessi mai conosciuto e aveva una voce talmente potente che riusciva sempre a sovrastare anche gli schiamazzi dei suoi clienti ubriachi. Di carnagione chiara, aveva le guance sempre colorite, un po' per la sua necessità di gridare per farsi sentire in quell'ambiente così rumoroso, un po' per la sua passione per le birre doppio malto. Aveva un aspetto gradevole e materno e spesso gli avventori alticci tentavano di abbracciarla e affondare il viso nel suo seno generoso, ma lei li rimetteva subito al loro posto con un'occhiata severa e, se ciò non era sufficiente, con una sonora pacca sulla schiena.

Al nostro primo incontro, senza mai rivolgermi la parola, la signora Carroll aveva spiegato alla signora O'Reilly quali fossero le condizioni di lavoro e la mia paga.

"È la solita italiana che non capisce nulla, vero?" aveva domandato con sarcasmo, lanciandomi un'occhiata sprezzante.

"Purtroppo comprendo anche ciò che non vorrei" le avevo risposto con un sorriso e, lasciandola interdetta, le avevo preso dalle mani lo spazzolone, recandomi nei bagni ad assolvere i miei compiti.

Passavo le ore al pub a pulire le latrine del locale e a spargere la segatura sul vomito lasciato dagli avventori ubriachi. Il lavoro era duro ma mi permetteva di stare fuori casa dieci ore al giorno, inoltre, il guadagno era sufficiente per tenere, almeno in parte, a bada il sergente che ormai trascorreva le sue giornate sbronzo.

La signora Carroll mi pagava ogni venerdì e, dopo un mese senza avermi mai parlato, un pomeriggio mi disse sghignazzando: "Non ho mai visto nessuno così felice di pulire i cessi!"

Non risposi, ma mi limitai ad alzare il capo e a sorriderle. La donna, allora, si avvicinò a me e, socchiudendo gli occhi con aria indagatrice, fissò il grosso livido violaceo che spuntava dal colletto del mio vestito. Mi risistemai il bavero come meglio potevo e, per un attimo, ebbi l'impressione che i suoi occhi si riempissero di pena, ma risvegliandosi come da un sogno, la donna si affrettò a ritornare dietro al bancone, borbottando qualche parola incomprensibile. Non mi fece domande e io non detti spiegazioni, però da quella sera cominciai a ricevere a fine turno una scodella di stufato cotto nella birra e una piccola stout.

Assaporavo ogni singolo momento dei tre chilometri che percorrevo a piedi per raggiungere il pub e, a fine turno, quando alle cinque del mattino avevo terminato di lavorare, passeggiavo per le strade di quella città che non riposava mai, salutata dall'alba che illuminava la giungla di grattacieli.

***

Era metà aprile e a New York era scoppiata la primavera. Il sergente mi aveva detto che non sarebbe tornato per un paio di giorni, perciò ne approfittai per fare una deviazione per Central Park. In quei primi tre mesi a New York non c'ero mai stata: un polmone verde pulsava rigoglioso nel ventre di quel gigante di cemento e, per un attimo, mi concessi di chiudere gli occhi e pensare all'Italia. Il sole mi baciava le guance mentre il vento dolce di aprile accarezzava le foglie verdi e, se non fosse stato per il rumore del traffico mattutino, avrei potuto giurare di essere con Anna, seduta a chiacchierare sulla panchina dinanzi alla boutique della Luciana. Era il mio ventunesimo compleanno. Mi alzai e, lasciando dietro di me una scia di ricordi, feci ritorno all'appartamento.

Quel pomeriggio arrivai in anticipo. La signora Carroll mi guardò stupita e, continuando ad asciugare con uno straccio un boccale di birra, asserì che non mi avrebbe pagato gli straordinari.

Feci spallucce. "Tanto non ho nessuno con cui festeggiare il mio compleanno."

La donna si fermò e mi chiese quanti anni compissi. "Ventuno" mormorai.

La signora Carroll mi porse un grembiule ed esclamò: "Stasera starai al bancone e, per ogni birra che verserai, ne dovrai bere una!"

Scoppiai a ridere, incredula.

"Sono seria, ventun' anni vengono una volta sola e oltretutto oggi è venerdì, giornata dei marinai. Avrò bisogno di sicuro di una mano in più qui dietro!" concluse lei, battendo sul bancone un boccale di birra colmo fino all'orlo, con un'aria che non ammetteva repliche.

Dopo solo un'ora dall'apertura, mi ritrovai abbracciata alla signora Carroll, visibilmente alticcia, a intonare canzoni di cui non conoscevo le parole e a ballare al ritmo coinvolgente delle melodie irlandesi che risuonavano tra le mura del pub, mentre fiumi di birra scorrevano tra i clienti intenti a fare baldoria.

Alla terza stout, priva ormai di ogni inibizione, saltai sul bancone a ballare. I clienti, come impazziti, si misero a battere le mani e a incitarmi con grida di apprezzamento. Un giovane marinaio si fece spazio tra la folla e salì a farmi compagnia, mi prese le mani e iniziò a farmi roteare da tutte le parti. Mi sentivo come una bambola di pezza nelle mani di un bambino; non riuscivo a fermarmi perché non avevo neanche la percezione di essere io stessa a muovermi. Continuavo a ridere e a cantare fino a quando il marinaio non si lanciò in una mossa di danza più azzardata e non riuscì ad afferrarmi, facendomi cadere dal bancone.

In un istante mi resi conto, però, che non ero rovinata a terra ma tra le braccia di un giovane uomo che mi stringeva forte a sé. Quando alzai il capo, due stupendi occhi nocciola mi scrutavano meravigliati, come se fossi un tesoro inaspettato appena caduto dal cielo.

Gli scoccai un bacio sulla guancia e, scompigliandogli il ciuffo di capelli rossi, risalii sul bancone a danzare ancora, senza dargli il tempo di dire nulla.

Il giovane rimase a fissarmi in disparte tutta la sera, sorridendo divertito e affascinato.

Non smisi di ballare un secondo con la speranza che continuasse a fissarmi; volevo che mi osservasse, desideravo che scrutasse il mio corpo e che gli piacessi. Non mi ero mai sentita così. Negli ultimi mesi avevo tentato di rendermi il meno desiderabile possibile, nella speranza che il sergente non avesse voglia di toccarmi, ma in quel momento non avrei voluto altro che la bocca di quel giovane sconosciuto sulla mia.

La notte trascorse in fretta e alle 4 di mattina mi riunii alla signora Carroll per chiudere il pub. Avevo perso di vista il giovane e pensai che se ne fosse andato. Non avevo mai provato un'emozione del genere, non riuscivo a staccargli gli occhi di dosso, ma allo stesso tempo non potevo neanche reggere il suo sguardo che accarezzava le linee del mio corpo e mi faceva sentire bella.

Avevo passato tutta la vita a temere gli uomini e, a parte mio padre e Guido, nessuno aveva mai guadagnato la mia fiducia o mi aveva conquistata.

Quel ragazzo era diverso, però, i suoi occhi nocciola si erano impressi nella mia mente: lui non si era limitato a scrutarmi, ma mi aveva vista.

Chissà se l'avrei mai rincontrato in quella città abitata da milioni di anime!

Assorta nei miei pensieri, non mi accorsi che dietro al bancone eravamo rimasti in tre fino a quando la signora Carroll non esclamò: "Finalmente riesco ad abbracciare il mio nipote preferito!"

A quel punto mi voltai e lo vidi. Era lui. Col cuore in gola, mi asciugai la mano sul grembiule e gliela porsi come ipnotizzata.

"Questa è Rosa e da stasera è stata promossa da lava cessi a barista" mi presentò la signora Carroll, ridacchiando divertita.

Il ragazzo mi strinse la mano con delicatezza, ma quando feci per ritirarla, lui indugiò nel lasciare la presa, come se non volesse farmi andare via.

"È molto tardi, devo proprio tornare a casa" dissi presa dal panico.

Mi tolsi il grembiule, mi infilai il soprabito usato che ero riuscita a comprare al mercatino delle pulci coi pochi soldi risparmiati in quelle prime settimane di lavoro e, con le gambe tremanti dall'emozione, mi trascinai fuori dal pub, appoggiandomi al muro esterno per qualche secondo.

Che cosa mi stava capitando? Oh Anna, quanto avrei voluto che tu fossi stata lì a consigliarmi!

"Stai bene?"

Aprii gli occhi e vidi il giovane fissarmi. "Sì, sì, non ti preoccupare" balbettai, cercando di non tradire l'emozione che suscitava in me il solo suo sguardo. "Ora me ne vado" conclusi brusca e, voltandomi sorridendo, me ne andai.

"Comunque io sono Pete!" mi urlò lui, mentre scomparivo tra le strade di Manhattan.

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