5.0
T A S Y A
«Cosa ti ha portata qui?» chiede Annabeth, passandomi una tazza di tè ai mirtilli. Il vapore mi scalda il viso, aggiungendosi al tepore accogliente della casa dei suoi nonni. Non è stato facile trovarla, ma grazie a Kol e qualche ricerca sono finalmente riuscita a scovare il suo "nascondiglio". Lei non voleva venire da me? Allora ci sono andata io. Sapevamo entrambe che, in un modo o nell'altro, ci saremmo ritrovate a questo punto e non ho intenzione di andarmene senza le risposte che voglio. «È stato Zach a chiederti di venire da me?»
Nego con il capo.
«Puoi dirmelo, Tasya, ma ti avviso già: non cambierò idea, non importa cosa tu sia venuta a dirmi» risponde.
«Annabeth,» dico, «sono qui per te. Non mi ha mandata Zach e non mi ha mandata Kol. Sono qui perché sono preoccupata per te. Voglio parlare con te e capire cos'hai che non va.»
Solitamente, quando una storia finisce, si pensa che a soffrire di più sia chi viene lasciato. Nessuno accetta la realtà, ovvero che il dolore viene condiviso da entrambi le parti, perché i sentimenti li hanno provati tutti e due.
Una storia durata anni non è facile da chiudere, ci vuole coraggio e, soprattutto, una valida ragione.
Nessuno sa quella di Annabeth e io sono qui proprio per scoprirlo.
La sento sospirare. «Ho sentito il tuo discorso l'altro giorno. Sei stata magnifica, complimenti» dice, strofinando le mani l'una contro l'altra nervosamente. «È un peccato tu non abbia vinto.»
Cerchi di cambiare argomento, Beth? Non funziona con me. «Cos'è successo?» insisto «Perché ci stai evitando? Perché non vuoi darci spiegazioni?»
«Non lo amo più, Tasya. Mi sono resa conto di non provare più i sentimenti di una volta e volevo dare una svolta alla mia vita, tutto qui.»
«Per questo hai deciso di riprendere la terapia?» ribatto. Lei rimane in silenzio. «Già, Zach mi ha riferito ciò che vi siete detti durante la sagra.»
«Perché sei qui?»
«Ho notato fin da subito che c'è qualcosa che non va in te, anche quando ancora non ti rivolgevo la parola. Nella tua solarità sei schiva, ti comporti in modo strano, ma soprattutto eviti di parlare del tuo passato» dico, poggiando la tazza di tè sul tavolino. «So che nascondi qualcosa.»
Annabeth rimane in silenzio. I suoi respiri si fanno sempre più rapidi e si muove sul divano come se non riuscisse a trovare una posizione comoda. Sospira e la sento passarsi le mani sul viso. «Okay» mormora «Ti ricordi quella volta in cui ti ho insegnato a cucinare? Eri riuscita a sfornare un perfetto pollo al curry mentre parlavamo dei nostri momenti più imbarazzanti.»
«Sì, ma cosa c'entra?» domando.
«Vi parlai di mia madre e non è una cosa che faccio spesso. Era la persona a cui volevo più bene ed era dolce, bella e divertente. La adoravo. Poi è morta. Avevo dieci anni. Non penso ci sia un modo adatto di elaborare il lutto a quell'età, ma quando mi trasferii dai miei nonni in Canada e mi fecero iniziare la terapia, non hai idea di quanto sia stata meglio.»
«Mi dispiace tanto, Beth.»
«Mio padre, d'altro canto, era la persona peggiore al mondo. Era un mostro. Tornava spesso a casa ubriaco, urlava, si arrabbiava e il giorno dopo si comportava come se non fosse accaduto nulla. Davanti agli altri era un uomo delizioso e pacato, in casa si trasformava nel peggior incubo di ogni bambino. Almeno avevo la mia mamma, che mi rassicurava sempre raccontandomi qualche storia» dice, con la voce incrinata. «Quando la uccise davanti ai miei occhi, credevo sarei morta anche io. Ero pronta, ma sono riuscita a salvarmi grazie ai vicini che chiamarono la polizia non appena iniziarono a sentire le urla di mio padre. Vivevamo in un condominio dove nessuno sapeva farsi gli affari suoi e questa è stata, in qualche modo, la mia salvezza.»
«La colpì tantissime volte e ho ancora impresse nella mente le sue grida di terrore. Non era la prima volta, capitava spesso, ma non aveva mai perso il controllo così tanto. Non sapevo cosa fare, quindi rimasi pietrificata nel letto sperando si calmasse al più presto. Ti rendi conto, Tasya? Stava ammazzando mia madre e come una codarda non ho fatto nulla per impedirglielo» ride aspramente. «La cosa divertente? Quando litigavano ero sempre pronta a ogni evenienza: stavo in ascolto e con il numero d'emergenza già composto se fosse stato necessario usarlo. Altre volte, invece, mi preparavo nel caso avessi dovuto difenderla. Puntare agli occhi e accecarlo. Facile e veloce. Avevo dieci anni e facevo già certi pensieri. Non era una cosa normale e quando tutto finiva mi definivo una pazza. Ma nel momento in cui avrei dovuto farlo per davvero, non ho trovato il coraggio di muovermi.»
«Quando litigavano, spesso anche per cose banalissime, ero sempre terrorizzata. E se avesse iniziato a farle del male? La mia migliore amica, l'unica a conoscenza di tutto questo, mi consigliava spesso di ascoltare musica per non sentirli. Ma non potevo permettermelo, perché il mio cervello formulava dei pensieri terrificanti: lui che la picchiava e io che non sarei riuscita a sentire le grida d'aiuto della mia mamma. E alla fine le ho sentite, eccome se le ho sentite. Rimanevo in ascolto delle loro grida, piangevo silenziosamente perché se lui mi avesse sentita se la sarebbe presa anche con me. "Cosa piangi? Cosa cazzo piangi?" mi avrebbe urlato. Ogni volta che alzava la voce, la paura si diffondeva in tutto il mio corpo.»
Rimango in silenzio e la ascolto piangere, singhiozzi disperati che cercano di risalire a galla fra i ricordi. E sento le mie lacrime sulle labbra, perché sentirla così distrutta mi fa sentire come se mi stessero pugnalando al cuore. «Annabeth...»
«La mattina, quando era il momento di andare a scuola, avevo sempre paura di lasciarla da sola. E se si fosse arrabbiato proprio mentre non c'ero e le avesse fatto del male? Non volevo andarmene, non volevo lasciarla sola con lui, con quel mostro. Piangevo, la imploravo di lasciarmi stare a casa con lei e in risposta mi diceva sempre: "Tesoro, stai tranquilla. Non succederà nulla, okay?". A scuola sorridevo e scherzavo, mostrandomi come la figlia normale di una famiglia normale. In realtà ero la figlia distrutta di una famiglia che crollava a pezzi.»
«Di notte lo sognavo uccidere mia madre e non mi sarei mai aspettata di vedere un incubo diventare realtà. Di giorno, invece, non andavo mai al parco con le mie amiche. Non volevo lasciare la mamma a piangere sul divano mentre papà stava sempre fuori a bere. Ho perso tutta l'infanzia per lei, ma non rimpiango nulla» tira su col naso. «Sai quali sono state le sue ultime parole? "Le stelle sono le persone a noi care, quelle ormai morte e che vegliano su di noi. Quando ti sentirai sola e perderai tutta la speranza, alza gli occhi e pensa che lassù c'è qualcuno che ti guarda e che è fiero di te. Mi troverai lassù, Annabeth". Poi lui entrò nella mia stanza.»
«Sono passati tanti anni, più di dieci, ma non riesco a togliermi dalla testa quei momenti. Alzo gli occhi e incontro il cielo stellato, incontro mia madre. Di anno in anno i ricordi si fanno sempre più confusi, sbiaditi, ma non potrò mai dimenticare il suo viso. Eppure non riuscivo ad odiarlo, Tasya. Lui era mio padre, come avrei potuto? Era un mostro violento, cattivo, ma gli volevo bene e me ne vergogno così tanto. Era il mio papà» scoppia di nuovo a piangere. «Mi vergogno di questo e mi vergogno di non aver trovato la forza di denunciarlo. Avrei potuto salvarla, lei sarebbe ancora qui e mi avrebbe vista crescere. Non sapevo cosa fare. Volevo aiutarla, ma mi avrebbero anche separata dal mio papà.»
«E i sensi di colpa mi uccidono ogni giorno, non mi fanno vivere, non mi fanno respirare, non mi permettono di essere felice, ma me lo merito. È colpa mia, solo ed esclusivamente colpa mia. Lui la uccideva lentamente ogni giorno e io gliel'ho lasciato fare. Sono colpevole tanto quanto lui» mormora, con voce fredda. «Ho vent'anni, ma lo rivedo ancora ucciderla. Non è più solo un sogno, ma un ricordo. Mi sveglio e realizzo che io sono ancora viva. Lei no.»
Allungo una mano per stringere la sua, ma non trovo nulla. «Ho vent'anni, ma non riesco ancora ad essere toccata da un ragazzo senza andare nel panico. Un giorno mi colpì per sbaglio e anche se l'ematoma non c'è più da anni, la ferita è ancora aperta. Se mi sfiorano, sento il dolore che ho provato» sussurra «E non lo voglio un bambino, Tasya. Non quando il DNA di mio padre è anche nel mio, non quando potrei diventare come lui e fare del male alla mia stessa creatura. Non voglio essere così in futuro, non voglio essere un cattivo genitore. C'è scritto nel mio sangue: sono la sua fotocopia, è solo questione di tempo» la sento singhiozzare. «E non so come dirlo a Zach. Non so come dirgli che sarà un genitore magnifico e che merita qualcuno migliore di me, perché un giorno potrei fargli del male. Lo amo più di ogni altra cosa ed è proprio per questo che lo sto lasciando andare.»
Senza pensarci due volte, la stringo in un abbraccio. La sento piangere sulla mia spalla e chiedere scusa, così le prendo il viso fra le mani e con lentezza le asciugo le lacrime.
Davanti a me non ho più la ragazza allegra e sicura di sé che credevo di conoscere, ma una bambina in lacrime che continua a rivivere quella tragica notte.
N/A
E finalmente avete scoperto il segreto di Annabeth. Ve lo aspettavate?
Spero di non aver deluso le vostre aspettative, perché per me è stato molto difficile scrivere questo capitolo. Ha un impatto emotivo forte e più volte mi sono commossa durante la prima stesura.
Siate forti, sempre.
Vi voglio bene. ❤️💖
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