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3.4

T A S Y A

Passo i polpastrelli sul tessuto in pelle del divano, sentendo i capelli mossi dall'aria condizionata solleticarmi il collo. A saperlo prima avrei indossato dei pantaloni lunghi, non degli shorts, ma l'ansia è talmente tanta da farmi sudare nonostante il freddo.
Ogni volta che metto piede in questo studio mi innervosisco, come se ci fossero un miliardo di telecamere puntate su di me pronte a registrare ogni mia parola sbagliata.

Perché dovrei esporre i miei segreti più intimi a uno sconosciuto?
Si dice sia più facile, in realtà mi preoccupa perché potrebbe farsi un'idea sbagliata di me.
Fare lo psicologo è il suo lavoro, lo so, ma chi glielo fa fare? Ascoltare persone piene di problemi, con una vita triste, l'animo tormentato... Aiutare qualcuno è una bella cosa, ma sapere di non esserci riusciti non è una cosa che si può superare facilmente.

Sento i suoi passi, seguiti dallo strisciare della sedia sul pavimento. «Ciao, Tasya. Come ti senti oggi?» chiede, con la sua solita voce pacata.

Faccio spallucce. «Non sento nulla, come al solito. Vado avanti, sopravvivo e questo è l'importante. Giusto?» dico, aspettando un suo rimprovero.
Afferma sempre che a me piaccia divagare, non rispondere alle sue domande per farne altre, cercando di cambiare il soggetto da me a lui.
Tutto ciò che faccio è evitare di aprirmi troppo: chi dice che poi non mi pugnalerà alle spalle?

«Sopravvivi perché lo vuoi o perché sei costretta a farlo?»

«Perché lo vogliono gli altri» rispondo.

«Gli altri?»

Sospiro. «Già. Ho riallacciato i rapporti con Zacharias, il ragazzo dell'incidente, e dopo questa seduta mi incontrerò anche con Annabeth. È una bella cosa per lei, immagino, ma stare con lui mi ha fatta sentire la cattiva della situazione. Gli ho proposto un piano per vendicarci della madre di Calvin, ma lui ha ribattuto dicendo che una festa nella quale potrebbero far pace sarebbe la cosa migliore» spiego, giocherellando con un braccialetto che porto al polso. «È sempre così buono, sa sempre cosa dire e cosa fare e ritiene che quella donna meriti una seconda possibilità quando non è così. È un mostro, non una persona e io voglio vendicarmi. Non merita niente.»

«E perché ti ha fatta sentire cattiva?»

«Perché lo sono, probabilmente. Solo che accanto a lui me lo sento ancora di più.»

«Posso dirti il mio parere, Tasya?» Tanto lo farai comunque, penso. «Credo che questo tuo desiderio di vendetta sia condizionato dal tuo modo di vedere il mondo, sempre nero e ricco di negatività e ansia. Vuoi sfogare la tua rabbia repressa, quella nata da tutte le ingiustizie che hai subito, e lo fai colpendo le persone che ti stanno attorno.»

«Non è affatto vero!» esclamo «Tutto ciò non ha niente a che vedere con la perdita della vista.»

«Eppure te la prendi con gente innocente» ribatte.

«La madre di Calvin non è innocente!» dico, quasi urlando. Sento la rabbia bruciare nel petto, così per calmarmi stringo le mani in un pugno sentendo le unghie affondare nei palmi. «Ha abbandonato suo figlio immerso in una pozza di sangue, non ha nemmeno chiamato i soccorsi! E se Andrew non si fosse presentato? Il mio migliore amico sarebbe morto.»

Cala il silenzio.
Tutto ciò che sento sono il mio respiro pesante e carico d'ira e quello del mio psicologo, più leggero e rilassato.
Sfoglia qualche pagina, che immagino di un colore giallo come se fossero vecchie pergamene, e ticchetta la penna sul bracciolo della sedia. Io, nel frattempo, sento una forte morsa allo stomaco dettata dall'ansia che mi scorre in tutto il corpo.
Chiudo gli occhi, cercando di rilassarmi: immagino che le pareti di questa stanza – probabilmente bianche – siano verdi acqua e che il divano sia in realtà il mio letto.
Se non posso vedere questo studio, non deve essere per forza la cella in cui sono stata rinchiusa insieme a uno strizzacervelli.
In realtà è la mia accogliente camera.
È la mia camera, è la mia camera, la mia camera...

«Allora, Tasya, che ne dici di riprovare con la terapia dei colori?» propone.

Alzo gli occhi al cielo: ancora questa stupidaggine? La terapia dei colori – così lui la chiama – consiste nel descrivere la propria vita in diverse tonalità, accese o spente che siano. Lo fa perché secondo lui non sono brava ad esprimermi a parole, anche se a dir la verità evito di farlo di proposito. «Devo proprio?» chiedo.

«Abbiamo ancora un paio di minuti liberi e sicuramente non li passeremo con le mani in mano, Tasya» risponde «Quindi sì, devi.»

Sbuffo. «Okay» borbotto «Inizierei col verde e, per essere chiari, non perché ho ritrovato la speranza, ma perché tutti mi obbligano farlo. "Sii più positiva", "C'è ancora speranza!". Cazzate. Le persone non cercano di capire il mio punto di vista, solo di cambiarlo.»

«Il verde è un colore chiaro, acceso. Penso tu ti stia sforzando di vedere qualsiasi cosa in modo negativo, Tasya» afferma, quasi con tono di rimprovero. Quando fa così sembra mio padre.

«Non esiste solo il verde chiaro, ma anche quello scuro, quasi nero» ribatto, accennando un sorrisino soddisfatto. «Io sono quel tipo di verde.»

Sospira e scrive qualcosa su un foglio, invitandomi a continuare. «Il secondo colore è il blu. Dovrebbe essere simbolo di tranquillità e silenzio, penso mi rispecchi. Anche la vocina nella mia testa si è zittita, lo sa? Un giorno, mentre mangiavo, continuava a ripetermi che mi sarei strozzata con l'acqua che stavo bevendo e io le ho urlato di chiudere la bocca. Mia madre si è presa un colpo, sia perché stavo parlando da sola, sia perché ho stretto talmente forte il bicchiere da averlo rotto e mi sono tagliata, ma almeno si è zittita. E non so se esserne felice o spaventata.»

«È una cosa positiva, hai preso posizione e sei riuscita a controllare i tuoi pensieri. Non me l'avevi mai detto prima, perché non l'hai fatto?» domanda.

Faccio spallucce. «Me ne sarò scordata» In realtà non è così, ho semplicemente preferito tenere questo piccolo traguardo per me. È una vittoria personale. «Poi c'è il grigio, una terra di nessuno e priva di vita. Mi sento così qualche volta. Un corpo che si muove, parla, mangia, ma che non ha un'anima. È possibile?»

«Non provi più nemmeno dolore?»

«No» rispondo.

Ed eccolo di nuovo: il rumore della penna che scrive sul foglio. Quando lo fa, vuol dire che ho detto qualcosa di molto importante. Potrebbe essere una cosa positiva o negativa, ma io non lo saprò mai, almeno finché lui non riferirà tutto ai miei genitori.

«Hai qualche altro colore?» chiede.

Annuisco. «Nero, colore della negazione» mormoro «Ho passato due mesi a negare qualsiasi avvenimento. La mia colpevolezza nell'allontanamento da Zach e Beth, ciò che è successo a Calvin, il mio essere una pessima amica... Ora ho imparato ad accettare le cose come stanno. La realtà fa meno male dei miei pensieri, onestamente.»

Passiamo gli ultimi minuti a parlare di Zacharias e Annabeth, ma non so bene cosa dire.
Da una parte non vedo l'ora di rivedere la ragazza fra qualche ora, dall'altra sono terrorizzata all'idea di rovinare tutto anche con lei.
È la mia unica amica, non voglio perderla.

«Ci rivediamo fra due giorni, nel frattempo ti lascio un altro flacone di Lexapro» dice, passandomi un piccolo contenitore di antidepressivi. Storco il naso, ma lui continua a parlare come se niente fosse. «Prendili, va bene? Ti aiuteranno anche con l'ansia.»

«Okay.»

Gli do le spalle e mi allontano con il bastone fra le mani, che rintocca come campane contro il pavimento. Proprio come il mio cuore fa contro il mio petto. 

In tutta la mia vita non sono mai riuscita a gonfiare un palloncino.

Da bambina, infatti, accorrevo sempre da mio padre e gli chiedevo questo piccolo favore. In cambio avrei imparato a fare il nodo, ma senza che lui lo sapesse andavo da mia madre per completare il lavoro.
Adesso, a distanza di anni, avrei voluto impararlo, almeno non mi ritroverei in questa situazione senza sapere come fare.

Io e Annabeth ci siamo ritrovate nella palestra della città, che abbiamo affittato per allestire la festa in onore di Calvin. È pulita, elegante, riservata e con lo spazio necessario per inserire una pista da ballo, la zona buffet e un castello gonfiabile per far giocare i suoi cuginetti. Purtroppo le decorazioni non erano incluse e ce ne stiamo occupando io, che teoricamente dovrei gonfiare i palloncini, e lei, che li attacca alle pareti o li libera per la stanza.

«Ho passato mesi divisa fra università e matrimonio, penso di star perdendo tutti i capelli per lo stress» dice. Me la immagino passarsi le mani fra quella marea di riccioli biondi con sguardo corrucciato. «Mi è sempre piaciuto organizzare eventi, ma questo mi ha portato via tutte le forze. Scegli il vestito, fai le prove, stai attenta a non ingrassare o non entrerai più in quel candido vestito bianco... Prove per l'acconciatura, scegliere le scarpe adatte e, in tutto questo, sperare di non ammalarsi proprio il grande giorno.»

Ridacchio. «Fortunatamente non dovrò pensarci ancora per molto.»

«A proposito!» esclama, con voce talmente acuta da farmi sobbalzare. Porto una mano al petto, sentendo il cuore fare qualche battito troppo velocemente, e le lancio un'occhiataccia. «Scusa. Volevo riproporti l'idea di suonare al nostro matrimonio con il violino. Non ne abbiamo più parlato e non ci hai dato esattamente una risposta. Cosa ne pensi?»

Abbozzo un sorriso. «Non lo so, devo prima pensarci.»

La risposta, in realtà, è molto semplice: no.
È da un po' di tempo che non faccio più nulla e ho perso l'interesse per tutti i miei hobby, compreso suonare il violino. Ormai sono fuori allenamento e non ho nemmeno la voglia di ricominciare: perché farlo quando non provo più le stesse emozioni che sentivo quando sfioravo quelle delicate corde? Passo intere giornate sul mio letto abbracciata a Sumo, fissando l'oscurità in silenzio.

«E cosa mi dici di Kol?» chiede, con una marcata insicurezza nella voce.

Non rispondo, perché onestamente non so cosa dire.

Nessuno sa come sono andate le cose, nemmeno lui. Quel mattino, quando mi sono svegliata e ho chiamato Andrew, ho letteralmente sentito il mio cuore spezzarsi.
Kol era lì, con me e per me. Mi ha accompagnata all'ospedale ed è rimasto al mio fianco per più di ventiquattro ore, senza lasciarmi mai da sola. Mi portava da mangiare, il cambio di vestiti, cercava di tirarmi su il morale... Ma invece che apprezzare il meraviglioso ragazzo al mio fianco, non potevo far altro che sentirmi male per il mio migliore amico.

Il mattino dopo un'infermiera è arrivata da noi e mi ha dato la meravigliosa notizia: Calvin sarebbe sopravvissuto. E fra il sollievo ho sentito anche un'altra emozione: senso di colpa.
Ho realizzato che se invece di stare con Kol avessi deciso di pensare a Calvin anche solo per un secondo e l'avessi chiamato, lui non si sarebbe ritrovato in quella situazione.
Si sarebbe potuto salvare, avrebbe potuto chiedermi aiuto o non lo so, avrebbe potuto chiedermi un consiglio! Ma ho deciso di essere egoista, di pensare a me stessa e al mio amore per Kol per l'unica e prima volta e tutto è degenerato.

Ma invece che incolpare me stessa, incolpo Kol. Lui si è presentato quella sera, lui ha deciso di restarmi accanto nonostante io sia un disastro vivente e se non fosse stato per lui, se non fosse stato per la sua testardaggine e il rivolermi indietro, non avrei rischiato di perdere il mio migliore amico.
E ho fatto di tutto per allontanarlo da me, perché non riesco a stare accanto a lui o a sentire la sua voce senza pensare a ciò che ho fatto.

«Tasya?» mi richiama Annabeth.

Scuoto la testa, uscendo dal vortice di ricordi di quella tragica giornata. «Sì, scusa, ci sono» mormoro, sentendo le lacrime minacciare di uscire dai miei occhi. «Abbiamo entrambi deciso di prendere strade diverse, è stata la cosa migliore per tutti e due. Lui è felice, io sono felice e probabilmente avrà già un'altra ragazza.»

«No, non ce l'ha.»

Faccio spallucce, fingendo di non essere interessata, ma vorrei farle tante di quelle domande che potrei farla impazzire. Come fa a saperlo? Sono ancora in contatto? Perché sono ancora in contatto?

«Tasya?» mi richiama. In risposta mi volto verso il suono della sua voce. «Ci sarà anche lui alla festa di Calvin. Forse prima avremmo dovuto chiedertelo, so che non vi parlate più, ma abbiamo pensato che anche lui è amico di Calvin e abbiamo anche chiesto conferma ad Andrew. Se...»

«Annabeth,» la interrompo, «va tutto bene. Non è un problema per me, stai tranquilla.»

Per rassicurarla le mostro un sorriso comprensivo, ma dentro di me sento una nausea talmente forte che potrei vomitare da un momento all'altro.
Forse mi manca, ma non ho idea di cosa potrei dirgli e non voglio nemmeno che le cose tornino come prima.

Ad essere sincera sono terrorizzata all'idea di doverlo affrontare.

N/A

Profili Instagram:
- martiiyna_ (privato)
- xmartinahale (ufficiale page Wattpad)

Non ho molto da dire, perciò mi dileguo subito che devo prepararmi per uscire.
Com'è andato il primo giorno di scuola (per chi ha iniziato oggi)? E la prima settimana, invece?

Al prossimo capitolo!❤️

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