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3.1

T A S Y A

Sono passati due mesi da quando ho perso tutta la fiducia rimasta nei confronti del genere umano.

Esattamente cinquantasette giorni fa ho perso tutto e mi sono avvolta in una bolla di negatività e solitudine.
Ho pianto tutte le lacrime che avrei potuto versare, ho percepito il mio cuore implorarmi di lasciarlo scoppiare per il troppo dolore provato.
Non sentivo nulla, solo disgusto nei confronti di noi esseri umani. Ci definiamo la specie superiore quando tutto ciò che facciamo è comportarci come esemplari senza cervello, e di questo passo non faremo altro che giungere alla nostra estinzione.

Le cose non cambieranno mai, viviamo tutti in un circolo senza fine che si ripete e ripete nel corso degli anni.
Nonostante i buoni propositi, noi uomini siamo nati per distruggere e il mondo cadrà per mano dell'odio che ci impegniamo a spargere ovunque. Abbiamo creato la guerra, le armi e la discriminazione.
Fin dove ci spingeremo di questo passo?

Non appena apro la porta della mia stanza vengo investita da un’ondata di profumo, proveniente dalle numerose candele che immagino decorare la mia stanza come stelle in un cielo notturno.
Mi stendo sul mio letto accanto al mio migliore amico, che mi circonda le spalle con un braccio e mi stringe a sé per abbracciarmi. Anche per lui le cose sono cambiate, soprattutto dopo ciò che è accaduto con il padre.

La prima volta che mi hanno lasciata entrare nella sua stanza d'ospedale, sono scoppiata in lacrime: il suo corpo, al tatto, era ricoperto da ematomi e bende, mentre il suo volto risultava quasi irriconoscibile.
Ero terrorizzata e le voci delle infermiere sembravano solo bisbigli remoti e inudibili. «Sopravviverà» dicevano, cercando di tranquillizzarmi. «È un vero miracolo, Calvin è un ragazzo davvero forte e dovreste essere fieri di lui.»

Si è trasferito da me non appena gli è stato possibile uscire dall'ospedale, soprattutto non avendo più l'appoggio di entrambi i genitori.
Il padre si trova ancora in prigione dopo che gli è stata vietata la cauzione e a breve avverrà il processo, mentre la madre non si è più fatta viva da quel giorno.
Tutto ciò che ha lasciato è stato un biglietto, in cui spiegava le ragioni per le quali doveva prendere un momento per se stessa e per riflettere. Non sa come gestire la cosa e non vuole più avere a che fare con il marito. Si è definita abbandonata a se stessa quando quella ad aver abbandonato il figlio è stata proprio lei.

E quindi siamo rimasti solo io e lui.

«Hai scritto a Zacharias e Annabeth?» chiede, accarezzandomi la schiena.

«No» rispondo.

Cinquantadue giorni fa, invece, ho chiuso i rapporti con Zach e Beth. Non ho più risposto ai loro messaggi o alle loro chiamate, quando venivano a trovarmi chiedevo ai miei genitori di dir loro che non ero in casa e giorno dopo giorno si sono fatti sempre più assenti.
Forse hanno capito di dovermi lasciare i miei spazi, o forse si sono stufati di corrermi dietro e hanno deciso di andare avanti con le loro vite, un po’ come ho fatto io.
Quel giorno, in ospedale, ho capito che mi ero ritrovata a un passo dal perdere la persona più importante per me e in parte ero colpevole. Così ho deciso di concentrarmi solo su di lui, dedicando ogni momento libero alla sua sicurezza e salute, aiutandolo a superare i numerosi traumi subiti.

Il giorno seguente a quello in cui ho chiuso i rapporti con loro, ho fatto lo stesso con Kol. È stato involontario, siamo semplicemente scoppiati a litigare e ho detto cose che in realtà non pensavo. Gli ho urlato contro di non voler più avere a che fare con lui e di lasciarmi in pace e così lui ha fatto, dicendo di voler rispettare la mia scelta e di lasciarmi i miei spazi, continuando ad aspettarmi.

Probabilmente ancora oggi, a distanza di due mesi, è ancora in attesa di un mio messaggio.

«E Kol?» chiede, come se mi avesse appena letto nel pensiero.

Sbuffo e mi volto dall'altra parte, dandogli la schiena. Non voglio parlarne, non quando la motivazione per cui l'ho fatto è proprio lui.
Si sentirebbe solo più in colpa e ancora non mi sento pronta a riallacciare i rapporti con Zach, Beth e Kol.
Sono passati due mesi, è come se fossimo ritornati perfetti sconosciuti.

«Tasya, non puoi evitarlo per sempre» cantilena, picchiettandomi un dito sulla spalla. Continuo a ignorarlo, sperando che, prima o poi, si decida a smetterla di insistere. «Mandagli un messaggio e invitalo ad uscire. Non puoi continuare a tenerlo sulle spine ancora a lungo, prima o poi si stuferà di aspettare.»

A meno che non si sia già stufato, penso, ma scaccio questo pensiero scuotendo la testa.
Sbuffo e mi volto di nuovo verso Calvin, che rimane in silenzio come se stesse aspettando una risposta. «Fra cinque minuti dobbiamo uscire, sei pronto?» chiedo, tentando di cambiare argomento. «Mia mamma è già in auto.»

«Va bene» sospira, forse consapevole che non riuscirà mai a farmi ragionare. So che sta cercando di aiutarmi e che lo fa solo per il mio bene, ma so anche ciò che voglio io e sicuramente Kol non è incluso. «Metto le scarpe e arrivo.»

Camminiamo lungo il sentiero di sassi, che sfregiano fra di loro a ogni passo. Il silenzio ci avvolge, così come la terribile angoscia che mi assale ogni volta che metto piede in un cimitero. È come se qui ci fossero veramente le anime dei morti, come se all'improvviso l'aria si facesse più pesante e ogni volta voglio solo scappare a gambe levate e ritornare fra le morbide coperte del mio letto. I cimiteri mi mettono in soggezione e mi fanno sentire in colpa, per quanto assurdo possa suonare: perché io sono ancora in vita e loro no? Soprattutto quando, camminando fra le tombe, mi imbatto in quelle di neonati o bambini; io sono qui, a odiare la mia vita e continuando a lamentarmi di essa, mentre loro farebbero di tutto pur di vivere un'ultima ora con la loro famiglia.

Mano nella mano, io e Calvin ci fermiamo davanti a una di quelle tombe. Mi immagino la foto del suo fratellino, un bimbo sorridente e pieno di vita, osservarmi, sentendo lo stomaco chiudersi all'improvviso.
Se io mi sento così, non posso immaginare come debba sentirsi il mio migliore amico. L'unico ricordo visivo che ha di lui sono delle foto, semplici oggetti che gli impediscono di dimenticarsi com'era fatto.
Il tempo passa, così come i ricordi e questa è una delle mie paure più grandi.

Ed è incredibile - e spaventoso - come le cose potrebbero essere diverse in questo momento se Andrew avesse chiamato i soccorsi con qualche minuto di ritardo. Sarei davanti a due tombe, quelle dei due fratelli.
Mi piace pensare che si sarebbero ricongiunti in Paradiso, così fa meno paura di ciò che potrebbe aspettarci per davvero.

«Ogni giorno penso a quanto io abbia deluso la mia famiglia» dice, stringendomi ancora di più la mano. «Probabilmente sono stato la causa della sua distruzione: mio padre in galera, mia madre scomparsa… Loro credevano in me e io li ho delusi.»

«Non è colpa tua, Calvin» affermo.

«Vorrei che mio fratello fosse qui a consigliarmi, lui sarebbe di sicuro cosa fare» sussurra, scosso dai singhiozzi.

Lo stringo in un forte abbraccio, sentendo la maglietta bagnata dalle sue lacrime. Gli accarezzo i capelli, lasciandogli qualche bacio sulla fronte per rassicurarlo. «Non è colpa tua, non devi assolutamente sentirti in colpa. Qualsiasi cosa accada io sono fiera di te. Non mi importa cosa pensano gli altri, non importa come andrà a finire il processo: io sono qui e non ti abbandonerò mai.»

«È una promessa?» chiede.

Annuisco. «È una promessa.»

N/A

Avrei dovuto aggiornare fra quattro giorni, ma avevo il capitolo pronto e non vedevo l'ora di ritornare a scrivere so HERE I AM!🎉

Cosa ne pensate di questo capitolo?
So che probabilmente è stato un po' noioso, ma serviva come riepilogo.

Quando iniziate scuola?
Io il 10 - rip me - e avrò ben quattro ore d'azienda, perciò potrete ben immaginare la mia voglia di vivere.

Ora vi lascio e sappiate che vi voglio tanto tanto bene.🌹

Al prossimo capitolo!❤️

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