Vittime e Aguzzini
Camminavano sull'asfalto vecchio e Alexander iniziava già a pentirsi di quanto aveva proposto.
Ma cosa gli era saltato in testa?, si chiese scuotendo impercettibilmente la testa.
E perché gli altri gli avevano dato corda? Solo per non offenderlo? Non avevano avuto cuore di rispondergli "no" e avevano finto di essere d'accordo? Non avevano saputo come dirgli che era una stupidaggine e ora si trovavano loro malgrado in quella situazione per colpa sua?
Qualunque fosse la ragione, lui era fermamente convinto che avessero commesso un gravissimo errore. Ed era solo lui il responsabile.
Avrebbe prima dovuto pensare alle conseguenze, alle possibilità e alle migliaia di insidie.
Quel tale poteva essere pericoloso. Poteva avere un grosso coltello, affilato a tal punto da luccicare, nascosto da qualche parte sotto quell'uniforme unta. O dei rinforzi. Magari proprio dietro l'angolo era affollato uno scalpitante gruppo di energumeni furiosi.
Per loro quattro, disarmati e privi di difese, si sarebbe potuta mettere davvero molto male.
Ed era colpa sua.
Alexander, senza accorgersene, tornò a stritolarsi il labbro con i denti.
E, poi, cosa aveva creduto che potessero chiedere a quell'uomo? Nemmeno loro sapevano di che risposte avevano bisogno. E, come se tutto questo non fosse sufficiente, gli altri si erano forse dimenticati che da quel posto erano fuggiti senza pagare?
La mente del ragazzo fu scheggiata dal pensiero che forse stavano prendendo tutto un po' troppo superficialmente.
Mentre le chiacchiere dei compagni stagnavano nell'aria umida, nel suo ventre si aprì la voragine nera della paranoia. Una fessura buia che era lì da sempre, ma di cui le rivelazioni di Vadoma avevano tirato i lembi fino ad allargarla, trasformandola in un abisso di profondità oceaniche . E che, ora, ad Alexander sembrava fosse in continua espansione. Come un tumore maligno o come l'universo: un universo puntellato di dubbi e in cui non gravitano pianeti, ma titaniche angosce.
Alexander temeva che di lui presto sarebbero rimaste solo le preoccupazioni.
Fissava a tratti la punta delle proprie scarpe consumate, a tratti il diner che si avvicinava lento e inesorabile come la morte.
Lui aveva sempre saputo che di Leandro non c'era da fidarsi. Aveva sempre saputo che qualcosa non andava.
La fiducia è qualcosa che non si può dare nemmeno a sé stessi, figurarsi agli altri.
E se Leandro era al luna park per registrare le mosse dei gitani, chi registrava le mosse di loro quattro? E da quanto tempo?
Sentiva mille occhi rapaci bruciargli sulla pelle esposta e pure su quella nascosta.
La tavola calda si stava facendo sempre più vicina. Lo sporco sui vetri diventava man mano più nitido.
Alexander camminava di qualche metro dietro agli altri tre, quasi strascicando i piedi.
Ma perché l'aveva proposto?
Alexander deglutì a fatica. Doveva avvertire anche gli altri. Non doveva permettere che la sua idea andasse in porto.
Alzò appena lo sguardo e lo posò sulla schiena di Felix. Aveva la nuca imperlata di sudore ed era leggermente rivolto verso Samantha, con cui stava discutendo già da un bel pezzo riguardo la tattica da usare.
Alexander si fece coraggio. Non c'era più molto tempo.
"Ehm..." provò a mormorare. Non sortì alcun effetto. Il suo mormorio si perse fra i tuoni del cielo e il parlottio di Samantha.
Perché quando voleva attirare l'attenzione della gente sembrava impossibile farlo, mentre quando desiderava passare inosservato gli pareva di avere un riflettore puntato sulla testa?
Deglutì un nuovo groppo di frustrazione e fece un lungo sospiro.
"Ehm... Felix?" riuscì a dire alla fine, sfidando l'incredibile e ingiustificato disagio che provava sempre nel chiamare le persone con il loro nome.
Il ragazzo si girò di scatto.
Lo fissò con aria interrogativa.
"Tutto okay?" gli chiese quindi. Anche Esme e Samantha si girarono.
Alexander arrossì e abbassò gli occhi, incapace di sopportare tutta quell'improvvisa attenzione e troppo in imbarazzo per godersi la riuscita del suo tentativo.
"È che... È che non sono più sicuro sia una buona idea" balbettò dopo qualche dolorosissimo istante.
Il ragazzo fissava la strada crepata, ma sapeva che i compagni lo stavano guardando. Forse delusi, forse sollevati. Alexander non ne aveva idea.
"Diamine!" esclamò a quel punto Felix, "Certo che è una buona idea, o per lo meno è la migliore che abbiamo"
Alexander alzò esitante lo sguardo. Lo pensava davvero?
"E io ho bisogno di sapere perché quel signore si traveste per fare le pulizie al motel" intervenne Samantha annuendo energicamente.
"Ma..." provò a ribattere Alexander a bassa voce, "Non pensate che possa essere, ecco, pericoloso?"
Felix si lasciò sfuggire una risata e un'ombra beffarda gli calò sul viso: "Ma l'hai visto? Dai, è un mega-sfigato. Cosa vuoi che ci faccia?"
"Oh sì! E poi lui è solo soletto, mentre noi siamo un gruppo. Picchiare uno che è da solo quando si è in tanti è molto facile" aggiunse Samantha con il volto deformato in un'espressione cospiratoria.
In quel momento Esme si sgranchì sonoramente la gola e puntò il dito alla volta del diner. Gli altri tre seguirono il suo sguardo.
Il tizio li stava fissando a occhi spalancati.
Si era accorto di loro.
L'angosciato cuore di Alexander mancò un battito.
"Oh cielo! Dite che ci ha sentiti?" sussurrò concitata Samantha.
Esme sollevò le sopracciglia e annuì con un leggero sorriso. In effetti, a separali da lui ci saranno stati sì e no quattro metri e loro non avevano affatto pensato a modulare la voce.
"Be', andiamo a fargli il culo" disse quindi Felix, per poi avvicinarsi ad Alexander. Gli mise una mano dietro la schiena e lo spinse piano in avanti, invitandolo a proseguire. Le guance rosse di Alexander si contrassero in un timido sorriso.
Percorsero molto rapidamente la breve distanza che li separava dall'uomo. Questi intanto non aveva smesso un attimo di fissarli interdetto. La sigaretta che stava fumando fino a qualche momento prima gli era scivolata fra le dita storte cadendo senza un rumore a terra, dove ancora baluginava acre.
"Ci scusi!" esordì Samantha quando furono abbastanza vicini, "Lei lavora anche al motel? Perché si mette i baffi quando lavora là?"
A quanto pareva la ragazza aveva deciso di affrontare la situazione di petto, Alexander pensò che lui non ci sarebbe mai riuscito.
L'uomo divenne della stessa sfumatura pallida e un po' giallognola della sua uniforme. Sotto gli sguardi inquisitori dei quattro ragazzi, iniziò a scuotere spasmodicamente la testa.
"No, eh, no, io lavoro solo qui. Volete un tavolo?" balbettò con voce tremolante prima di distorcere la faccia in un sorriso forzato. I denti erano accavallati e ingialliti da anni di nicotina e caffè.
"Non me la dai a bere, furfante!" ribatté Samantha, probabilmente in una convinta imitazione di qualche poliziesco scadente.
Alexander notò che intanto Esme stava scrutando attenta fra i sacchi della spazzatura.
"Non siamo deficienti e non ci beviamo le tue stronzate" si intromise Felix avvicinandosi minacciosamente all'uomo, che parve farsi piccolo piccolo. "Ci stai spiando? Tu con i tuoi altri amichetti camuffati?"
Le iridi del tizio saettavano confuse nei suoi occhi sgranati. Un po' come una grossa puzzola, più si spaventava più puzzava. Alzò le braccia e una zaffata di sudore investì Alexander, che non aveva cuore di inserirsi nella discussione.
"Non so di cosa stiate parlando, eh" disse l'uomo, schiacciato contro la porta chiusa della tavola calda. Spiando attraverso i vetri sudici, si intuiva che dentro non ci fosse nessuno.
"Seh, come no," Felix si avvicinò ancora e lo prese teatralmente per il colletto. "Ci state tenendo d'occhio, non è così?"
Il cielo divenne anche più cupo di quanto già non fosse.
"Guarda che ti rompiamo la faccia se non ci rispondi!" intervenne Samantha con gli occhi strizzati in un'enfatica espressione intimidatoria.
Il tizio deglutì pesantemente e si divincolò a fatica dalla presa di Felix. "Sentite non so davvero di cosa stiate parlando". La voce era così alterata che sembrò quasi un pigolio.
Perché quell'uomo sembrava così spaventato da loro?, si domandò Alexander. Certo, lui era solo, incredibilmente esile e smunto, ma davvero bastava questo a giustificare il timore che sembrava avere nei loro confronti? Il ragazzo non lo sapeva, ma una cosa di cui era sicuro era che, in quella situazione demenziale, quel tale iniziava fargli un po' di pena.
In quel momento sentì un fruscio provenire dalla spazzatura. Mentre Felix e Samantha continuavano a tormentare l'uomo come iene su una carcassa, Alexander si girò.
Esme aveva appena infilato le braccia fra le borsine accatastate in un lercio agglomerato. Nel giro di qualche secondo le fece riemergere con una pesante spranga di acciaio stretta fra le mani, forse una vecchia gamba di qualche tavolo rotto.
La ragazza scostò piano Alexander, che se ne stava in piedi, a braccia conserte e senza sapere cosa fare, per avvicinarsi alla loro vittima.
E, con la spranga stretta nella mano sinistra, se la batté sul palmo aperto della destra. Alexander non era sicuro fosse solo per fare scena.
Felix e Samantha la guardarono con ammirata sorpresa e si scostarono leggermente. Esme si mise di fronte all'uomo, con un sorrisetto deciso e continuò a battersi la sbarra nel palmo.
In quel momento il cielo produsse un lungo tuono cupo e una pioggia fine iniziò a cadere dalle nuvole nere.
"Vedi?" minacciò Felix con il dito puntato contro l'uomo, "Se non parli ti riduciamo ad un maledettissimo omogeneizzato al sapore di paura e puzza."
Il tizio fissò Esme e la spranga lucente che iniziava a imperlarsi di pioggia. L'asfalto cominciava già a esalare un pesante odore di umido.
"Sentite," provò a difendersi l'uomo, "Faccio solo quello che mi hanno chiesto."
Esme si passò l'arma da una mano all'altra come se volesse saggiarne il peso. La pioggia sembrava star aumentando.
"Non sono pagato per questo" balbettò il tizio, più rivolto a sé stesso che a loro.
"Di chi diavolo stai parlando?" sbraitò Felix. L'uomo però non rispose. Troppo intento a massaggiarsi la fronte cerea e umida di pioggia e sudore, ripetendo una nenia di "non sono pagato per questo."
"Ehi!" risuonò nell'aria bagnata. Alexander si voltò con prontezza. Uno dei privilegi di avere sempre i nervi tesi.
Nella pioggia sempre più fitta riuscì a distinguere due figure. Erano due uomini, con le spalle larghe e grosse braccia da camionista.
"Ehi!" ripeté minaccioso uno dei due con una voce baritonale e indosso una t-shirt giallo canarino.
"Lasciatelo stare, teppisti" aggiunse l'altro, il viso nascosto da un cappello da baseball color lombrico e fradicio di pioggia.
Anche gli altri tre si girarono.
I due nuovi arrivati continuavano ad avvicinarsi con atteggiamento ostile.
Nella momentanea distrazione, il loro uomo compì un insospettabile gesto fulmineo e aprì di poco la porta del diner.
Esme allungò di scatto il braccio per trattenerlo, ma l'uomo le sfuggì, sgusciando nella porta socchiusa, richiudendosela pesantemente alle spalle.
"Merda!" sbottò Felix innervosito.
L'uomo li guardava vacuo attraverso i vetri sporchi, quasi fosse uno strano pesce in fin di vita in un acquario.
Doveva aver fatto girare la chiave, perché, per quanto Samantha battesse, la porta non aveva alcuna intenzione di aprirsi.
Pochi metri li separavano ormai dai due energumeni.
Alexander deglutì.
"Penso che ci convenga andare" disse con voce satura di apprensione.
Gli altri tre lo guardarono annuendo.
"Filiamocela, cazzo" sentenziò Felix.
Nessuno ebbe da ridire e si misero tutti a correre sull'asfalto bagnato.
Nonostante Alexander fosse molto concentrato sulla strada viscida, che poteva tradirlo e farlo scivolare da un momento all'altro, si rese conto che gli uomini non li stavano inseguendo.
Erano solo i loro otto piedi a schizzare sul terreno acquoso.
"Non ci inseguono, credo" riuscì ad articolare, vincendo il fiatone. Ginnastica non gli era mai piaciuta e a scuola faceva sempre di tutto per saltarne le lezioni.
Si fermarono. Non avevano fatto molta strada e potevano ancora distinguere la tavola calda. L'insegna luminosa gettava un alone rossiccio nella pioggia che le si infrangeva addosso.
"Chi diavolo erano quelli?" sbuffò Felix, piegato con le mani premute sulle gambe, nella tipica posa di chi riprende fiato.
"Due guastafeste" rispose prontamente Samantha con il viso imbronciato.
La pioggia batteva sulle loro teste, infradiciando i capelli e incollando i vestiti alla pelle.
"Che palle!" Felix si raddrizzò e si portò lo mani dietro la testa. "È stato tutto inutile"
Samantha annuì mogia mentre cercava di ripararsi la testa con le mani. Le lenti degli occhiali erano costellate di goccioline.
D'un tratto Esme si sgranchì la gola per richiamare la loro attenzione.
I tre si girarono verso di lei.
La ragazza fece un sorriso compiaciuto e alzò la mano sinistra: fra le dita reggeva un anello da cui penzolava madida una chiave.
Era quella di una macchina. Alexander la guardò interrogativo.
"Gli hai inculato la chiave della macchina?" rise Felix.
Esme annuì, facendola saltare in aria per poi riacciuffarla al volo con un fioco tintinnio metallico.
"Come...come hai fatto?" domandò Alexander.
La ragazza si strinse nelle spalle e picchiettò la mano su una tasca. Probabilmente quando aveva allungato la mano per afferrare il tizio era invece riuscita a sottrargli le chiavi.
Samantha sorrise, gli occhi indecifrabili sotto le lenti gocciolanti degli occhiali. "Be', qualcuno di voi sa guidare?"
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