Una seconda volta Esme
Esme sollevò la testa e guardò orgogliosa la finestra da cui si era calata con successo. Era stato un gioco da ragazzi, anche se alla fine il piede le era scivolato sulla ghiaia e lei era caduta, sbucciandosi un ginocchio. Si studiò la ferita: benché fosse piuttosto superficiale, traslucide gocce di plasma imperlavano già la pelle escoriata.
In questo giardino enorme ci sarà pur qualcosa di simile ad una fontana, pensò. Avvertiva infatti un certo bruciore e, sebbene fosse qualcosa di decisamente sopportabile, credeva sarebbe stato meglio sciacquare la lesione. Diede le spalle alla villetta e aguzzò lo sguardo, tentando di farsi un'idea sulla geografia di quel terreno sconosciuto. Il vialetto era ricoperto da quegli infidi sassolini rosa corallo su cui era scivolata ed era incastrato fra due file di aiuole di campanule blu. In fondo si intravedeva la sagoma scura di un grande cancello e ai lati si apriva, a perdita d'occhio, un prato tagliato alla perfezione. Quanto inutile sfarzo.
I fili d'erba, tutti della stessa impeccabile altezza, luccicavano con madida placidità. Doveva esserci per forza un sistema di irrigazione, rifletté Esme. Non restava che trovare la centralina e azionarlo.
Intuiva che i proprietari, chiunque essi fossero, non avrebbero mai deturpato la boriosa facciata della loro amata villa con qualcosa di volgare come una centralina per l'irrigazione, quindi non perse nemmeno tempo a studiarla. Perlustrò il perimetro restante, fino a che non trovò una scatoletta grigia che se ne stava discretamente schiacciata contro il retro della casa. Esme sorrise soddisfatta e si abbassò, facendo attenzione a non appoggiare il ginocchio sbucciato. Aprì il portellino e ne analizzò l'interno: non aveva mai usato un aggeggio simile in vita sua e quel buio di certo non aiutava a farle comprendere i tasti, quindi si rassegnò a schiacciarli tutti.
Dopo poco, eruppe lo sciacquio intermittente dell'acqua che pioveva sul prato. Bingo!
Attraversò l'erba umida e raggiunse l'irrigatore più vicino. Allungò le braccia e raccolse un po' d'acqua con le mani, per poi farla cadere sul ginocchio. Ripeté l'azione fino a che la ferita non le parve abbastanza pulita. Nonostante non avesse avuto alcuna intenzione di bagnarsi anche il resto del corpo, fu una cosa inevitabile. Tornò sul viale fradicia, ma soddisfatta.
Ho scongiurato un'infezione, ma mi sono procurata una polmonite, scherzò fra sé, ben consapevole che, con quel caldo torrido, avesse in realtà poco da temere.
Arrivò al cancello, lasciando una dozzina di impronte umide dietro di sé. Era alto e sembrava nuovo, tanto il ferro che lo costituiva era lustro. Sotto la serratura era incisa la sagoma di un tridente, Esme ne percorse il contorno con la punta delle dita, guardandolo con stizza: quella gente aveva addirittura un proprio stemma?
Scosse la testa. Si inerpicò sul muretto adiacente e scavalcò, senza troppo impegno, la recinzione. Era fatta, era fuori.
Stava sbadigliando quando udì dei passi. Provenivano da destra, dalla strada. Esme si ritrasse dietro un grande viburno bianco che se ne stava incurante lì accanto. Finalmente un po' d'azione. Ai passi si aggiunsero delle voci, o meglio una squillante voce femminile che valeva per due.
"Ci siamo quasi! Sono felice che le luci questa volta si avvicinino e non si allontanino come stava succedendo a me prima! In effetti non so perché io avessi deciso di andare in quella direzione, però è stata proprio una fortuna che l'abbia fatto, non ci saremmo incontrati altrimenti. Però, a pensarci bene, non avrei nemmeno incontrato quelle orribile bestiacce. Ah, ti ho già raccontato come erano fatte?"
Seguì un borbottio indistinto di risposta, che, tuttavia, non riuscì ad arginare il fiume di parole che tornò a prorompere dalla prima bocca.
Esme trovò che il dialogo fosse piuttosto unilaterale. I suoni si avvicinarono e quel vivace soliloquio divenne sempre più chiaro. Esme spiò fra i rami di viburno, distinguendo due figure: un ragazzo e una ragazza, che, a occhio e croce, dovevano avere la sua età. Camminavano ad una certa distanza l'uno con l'altro. Probabilmente non avevano molta confidenza, dedusse Esme.
Il ragazzo camminava, rigido, a braccia incrociate e non sembrava attribuire molta importanza a quanto la briosa compagna gli stava raccontando con gesti concitati. Superarono Esme e il cancello.
Esme pensò di attirare la loro attenzione, sgusciò fuori dal suo nascondiglio e socchiuse le labbra, decisa ad urlare qualcosa. Le parole le punsero per un secondo la lingua, per poi precipitare inutilizzate lungo la gola e morirle, infine, nel petto. Non uscì alcun suono dalla bocca della ragazza. Esme richiuse le labbra e tirò un lungo sospiro: era delusa, ma non sorpresa.
Riprese a ragionare. Non voleva spaventarli, quindi abbandonò l'idea di fare qualche rumore e decise che, almeno per il momento, si sarebbe limitata a seguirli con discrezione. Non era molto fiera della sua soluzione, tuttavia era l'unica attuabile.
Fissò dunque gli occhi su quelle due figure ormai piuttosto distanti e si mise in cammino, silenziosa e paziente, come le ombre che abbracciavano morbidamente la strada.
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