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L'intima bellezza delle cose impacciate

Alexander si sentiva piuttosto in imbarazzo, più per abitudine che per reale sensazione però.
La situazione in cui si trovava aveva tutte le carte in regola per poterlo gettare nelle fauci brucianti della vergogna o per annegarlo nell'olio viscoso della soggezione. Era infatti in una casa di cui non conosceva il proprietario, seduto a un tavolo estraneo, in attesa di un pasto che non aveva scelto ma che ci si aspettava lui trangugiasse fino all'ultima riga di unto. Tuttavia, nonostante un pizzico di ineludibile impaccio continuasse caparbiamente a esserci, Alexander dovette presto riconoscere che tutto sommato era pervaso da uno strano e rassicurante senso di familiarità.

Erano tutti e quattro seduti al tavolo della cucina, immersi nei vapori delle pentole e illuminati dalla luce calda di una singola lampada. Il tavolo era piccolo e quadrato, quindi ognuno aveva comodamente a disposizione un lato tutto per sé.
Dopo che si erano fatti tutti la doccia Sen aveva insistito perché si cambiassero anche i vestiti e quindi, mentre i loro sudici e devoti indumenti turbinavano nella lavatrice alla temperatura più alta e con mezzo flacone di detersivo, i ragazzi si erano visti costretti a indossare ciò che la donna aveva messo a loro disposizione.

Alexander si era così ritrovato in un'enorme maglietta rossa e in un paio di altrettanto giganteschi pantaloncini da basket bianchi. Questo di norma sarebbe bastato per spedirlo direttamente al centro della terra con la faccia bordeaux e la morte nel cuore, tuttavia questa volta non solo la cosa non lo aveva turbato affatto, ma il ragazzo si trovò ad ammettere che fra le mille pieghe di quella maglia troppo grossa si sentiva addirittura a suo agio. Alexander si osservò le mani pulite abbandonate fra le rughe rosse della sua nuova tenuta e pensò con stupore che gli pareva di respirare quel clima di calorosa accoglienza tipico delle famiglie.

Mentre aspettavano che Sen finisse di scolare la pasta fra i fornelli sibilanti, Felix ammazzava il tempo sgranocchiando un grissino dopo l'altro e rimproverando a Samantha di aver occupato il bagno più di tutti loro tre messi insieme. Aveva i capelli che ancora profumavano dello shampoo alla vaniglia di Sen e la pelle ammorbidita dall'acqua e dal sapone. Il suo corpo si intuiva appena sotto la larghissima maglietta grigia e slavata che gli era capitata e che - come Alexander non tardò a notare - gli sottolineava le pagliuzze mielate nelle iridi nocciola.
"La prossima volta tu vai per ultima, cazzo. Sei stata dentro quasi quaranta minuti. Quaranta fottutissimi minuti!" stava dicendo a Samantha fra un grissino e l'altro.

Il profumo di docciaschiuma alla menta e puntigliosa pulizia che li avviluppava temperava appena quello di candeggina che impregnava la cucina.

"Cosa ci posso fare? Puzzavo molto!" si difese con candida sincerità la ragazza che, quando non era impegnata a rispondere a Felix, si dilettava a contare tutte le violette in quel campo fiorito che era la tovaglia. Samantha si era fatta prestare una camicia da notte di Sen e, non appena l'aveva indossata, aveva speso il resto del tempo a rimirarsi in ogni superficie riflettente con quell'improbabile sottoveste di raso blu elettrico.
"Anche io, diamine!" ribatté Felix tirando su col dito i granelli di sale caduti dai grissini, "Ma ho avuto la decenza di non monopolizzare il bagno per tutto il pomeriggio."
Esme muoveva gli occhi da Samantha a Felix come se stesse assistendo a una scattante partita di ping pong, e nel frattempo si versava tranquilla dell'acqua nel bicchiere. A lei era toccata una maglietta giallo senape su cui svettava il logo verde di una band che Alexander non aveva mai sentito nominare e che le era tanto grande da farle da vestito.

"La pasta è pronta," annunciò Sen dopo aver messo del petto di pollo a sfrigolare in una padella.
"Eh, finalmente," borbottò Felix perdendo improvvisamente interesse per i grissini. Appeso al muro color crema, un orologio quadrato ticchettava le otto e un quarto.

Alexander schiacciò il più possibile il busto contro lo schienale della sedia mentre Sen scodellava una matassa di spaghetti nel suo piatto. Mormorò quindi un "grazie" cortese e aspettò che anche gli altri fossero serviti per iniziare a mangiare, un po' rassegnato. Dopotutto, lui odiava gli spaghetti. Erano per lui la cosa più complicata del mondo con cui cibarsi: scivolavano dappertutto, zampillavano sugo in ogni dove e arrotolarli sulla forchetta era un'impresa erculea. E, fra l'altro, quelli in particolare erano scotti e un po' collosi. Tuttavia Alexander aveva abbastanza fame e sufficiente educazione da riuscire a censurare il proprio disagio con un sospiro e far sparire tutta la pasta senza lamentarsi.
Sen consumava la sua cena in piedi, appoggiando il bacino al mobile della cucina, e a tratti abbandonava il piatto per girare il pollo nella padella. L'olio scoppiettava nell'atmosfera immobile e casalinga della piccola cucina.

"Com'era?" chiese la donna appena ebbero finito.
Alexander era pronto a sferrare il suo più beneducato "buonissima, grazie", quando venne preceduto da Samantha che, con le guance schizzate di sugo e l'aria da intenditrice, dichiarò: "Un po' molliccia, visto che lo chiedi". Esme ridacchiò e iniziò a raccogliere e impilare i piatti sporchi di pomodoro, per far posto a quelli con il secondo.
Felix finì di pulire la forchetta con la lingua e annuì. "Eh, sì. Non era una pasta da chef stellato, però a me sta bene anche così eh."
Sen non ebbe tempo di rispondere a quelle offese culinarie perché vennero tutti distratti dallo scatto di una chiave nella porta principale.
Alexander si irrigidì. Era il proprietario? Sapeva che erano lì? E se non fosse stato d'accordo con la loro presenza? E se non avesse mai voluto prestare i suoi vestiti? Prese a grattarsi convulsamente l'interno dell'avambraccio.

"Deve essere Igor," li informò Sen, mentre distribuiva i piatti con le fettine di pollo scottate. Alexander fissò la propria porzione pallida di carne e si chiese come sarebbe potuta mai entrare nel suo stomaco ormai annodato come il cappio di una forca. La porta d'ingresso venne richiusa e dei passi risuonarono nel soggiorno.
Esme fu la prima ad allungare il collo verso il salotto e presto anche in Alexander la curiosità ebbe la meglio sulla preoccupazione. Si spinse indietro con la schiena e spiò nel varco che dava sulla sala. L'uomo che avanzava nella luce calante era tozzo, ben piantato e decisamente qualcuno che Alexander aveva già visto.

"Ma è il meccanico!" esclamò Samantha, sobbalzando sulla sedia tanto da rischiare di rovesciare il bicchiere.
"Chi?" sbottò Felix che fino a quel momento, troppo affascinato dalle fette di pollo, non si era preso la briga di pensare ad altro.
In muta sorpresa, i quattro ragazzi osservarono l'uomo entrare esitante, muovere verso di loro un rozzo cenno di saluto con la mano callosa e appoggiarsi goffamente al frigo scabro. La luce soffice che pioveva dal soffitto gli gettava ombre nette sul volto squadrato e mal rasato in cui zigzagava il setto storto del naso. La t-shirt bianca e chiazzata dell'uomo aveva portato una zaffata di sudore, acqua di colonia scadente e odore di olio per motori nella cucina linda.

Alexander rilassò i muscoli, provando un immenso conforto. Quell'uomo era stato gentile con loro e comunicava un'aura di maldestra affabilità con cui il ragazzo non aveva alcuna difficoltà a empatizzare.

"Sì, sì! È proprio il meccanico!" ribadì Samantha annuendo. Esme assentì a sua volta e ricominciò a mangiare continuando a fissare curiosa la scena. La forchetta tintinnava metallica sul piatto bianco.
Sen mise in mostra la sua fila di denti minuti e dallo smalto perlaceo in un sorrisetto di ironica condiscendenza.
"Sì, be', credo che voi lo conosciate così," disse mentre si voltava e iniziava a riempire il lavello d'acqua. Con le esalazioni aromatizzate del cibo caldo, quelle artificiali dei fornelli e tutti quei polmoni espiranti, l'aria esigua della cucina si era saturata in un clima piuttosto equatoriale.

Samantha indagò attenta il nuovo arrivato, mentre tentava di tagliare la carne reggendo il coltello con il pugno come farebbe un cavernicolo.
"Quindi questa casa è la tua?" domandò con la bocca piena di pollo triturato.
L'uomo incassò la testa brizzolata nelle spalle massicce e, con la voce cavernosa che ci si aspetta sempre da chi ha un aspetto simile, bofonchiò: "Più o meno, insomma è quella che mi ha dato il capo per il mio lavoro qui". Li osservò tentennando, dopodiché spalancò bruscamente il frigo ed estrasse una lattina di birra velata dal freddo. L'apri facendola sibilare e se la portò alle labbra sottili e screpolate.

"Di' un po'," lo attaccò a quel punto Felix, che nel frattempo aveva già ripulito il piatto, "Tu sei uno di quelli che ci devono tenere d'occhio?"
L'uomo deglutì un rumoroso sorso di birra, emise un borboglio di assenso e fece per aggiungere qualcosa ma Sen lo anticipò.
"In teoria sì, però è dalla nostra parte," dichiarò, costringendo una ciocca di capelli recalcitrante a tornare dietro l'orecchio.
Samantha si illuminò di malevola euforia. "Oddio! Fai il doppio gioco?"

Mentre l'uomo pensava a come rispondere ragionevolmente a un'accusa simile, Alexander fu distratto da Felix che si sporse verso di lui e gli sussurrò: "Se non hai più fame, dallo pure a me". Alexander accumulò tutta la riconoscenza di cui era capace e la trasmise a Felix in un solo, sollevatissimo sguardo. "Grazie," gli bisbigliò, passandogli il pollo che non si era più sentito di mangiare e che non aveva smesso un secondo di mettergli pressione.

"Praticamente sì, fa il doppio gioco," stava chiarendo Sen a Samantha ed Esme che la scrutavano indagatrici, "L'ho incontrato per la prima volta la sera del luna park, dopo che avevo litigato con Leandro, e poi l'ho visto una seconda volta quando me ne andavo a zonzo per il paese ed è disposto ad aiutare sia me che voi."
L'uomo finì di bere un altro sorso dalla lattina, buffamente piccola nelle sue mani ampie, e annuì. "Non dovete dirlo in giro, però," disse posando su di loro un supplichevole sguardo azzurro.

Felix tirò il viso in un sorriso sarcastico. "E a chi diavolo dovremmo dirlo?" sbuffò.
L'uomo - o Igor, come doveva di fatto chiamarsi - abbassò gli occhi infossati sulla lattina e se ne fece scivolare nella gola taurina un'altra sorsata. "Volevo esserne sicuro, se il capo lo scopre, potrei perdere il posto com'è successo a Manuel," borbottò subito dopo.

Alexander si pulì la bocca con il tovagliolo per assicurarsi di non essere macchiato di sugo. "Ma... chi è Manuel?" domandò dubbioso.
Sen si avvicinò al tavolo per prendere i piatti che Esme aveva già provveduto ad accatastare. "Vi controllava in veste di commesso alla tavola calda e, quando è servito, anche come spazzino al motel."
Alexander sentì il suo cuore liquefarsi e colargli giù nel ventre: avevano fatto licenziare quell'uomo? Era perché l'avevano scoperto? Avrebbe voluto avere maggiori informazioni, ma non ebbe coraggio di rigirare il dito nella piaga. Si scambiò un'occhiata eloquente con gli altri e nessuno insisté ulteriormente sull'argomento. I piatti cozzarono fra loro nell'acqua profumata del lavello.

"Perché ci aiuti?" chiese a quel punto Esme con la sua voce bassa e risoluta che Alexander non era ancora abituato a sentire così spesso.
L'uomo gettò la lattina ormai vuota in un cestino nascosto sotto il lavabo e mosse il busto in quello che doveva essere un legnoso tentativo di scrollare le spalle.
"Siete bravi ragazzi," disse solamente.

La risposta, però, non consolò affatto Alexander, che iniziò a sentirsi pure peggio. Non si erano comportati bene e questo era un fatto. Lui in particolare aveva dato spesso le idee peggiori e non aveva mai fatto nulla per provare a fermare gli altri, avrebbe potuto ma aveva deciso consapevolmente di non farlo. Le parole del Tale gli sbattevano ancora nella testa: avevano rubato soldi, rubato cibo, rubato una macchina, minacciato un uomo, violato una proprietà, distrutto oggetti e inquinato senza riserve. Ed erano anche riusciti a convincere quell'Igor di essere brave persone? Forse i suoi amici lo erano, si angosciò Alexander, ma lui di certo no. E il fatto di essere anche riuscito a spacciarsi pure come un bravo ragazzo gli sembrava solo l'ennesima prova, quella definitiva, del suo essere una pessima, pessima persona.

"E se... e se non lo fossimo?" mormorò quindi, "Cioè, e se il Tale in fondo non avesse tutti i torti?"
Lo disse fissando il ricamo floreale della tovaglia con così tanta intensità da sperare di poter annientare le grinze melmose della propria coscienza fra le violette e i gigli intessuti.
Solo il ticchettio del tempo e lo scorrere dell'acqua si azzardavano a squarciare il silenzio teso che soggiogò la cucina.

"Non dire stupidaggini, Alexander," disse d'un tratto Felix, "Tu sei... Noi siamo brave persone, diamine, e quello là è uno stronzo."
Alexander non ebbe l'ardire di staccare gli occhi dal tavolo. "Ma ci siamo comportati sempre malissimo..." obbiettò di nuovo. L'ultima cosa che voleva fare era mettersi contro Felix, tuttavia aveva il bisogno disperato di sapere quanto sporca fosse la propria coscienza.
Fu Sen a prendere in mano le briglie del discorso.
"Ma smettetela," subentrò infatti con una nota di aggressività, "Certo, vi siete comportati male per il codice morale comune, ma è proprio questo il punto: non è una situazione comune. Siete stati portati a farlo e non puoi esercitare il tuo libero arbitrio nel scegliere che strada percorrere quando ne hai davanti solo una e qualcuno da dietro ti ci spinge sopra con un grosso calcio nel culo."

La vibrante violenza di quelle parole riscosse Alexander, che si decise a staccare gli occhi dal mazzolino di gigli su cui li aveva fossilizzati.
Felix ed Esme lo guardavano con una strana miscellanea di apprensione e comprensione, Samantha aveva gli occhi tonti persi nell'acqua cristallina del proprio bicchiere, mentre Sen lo scrutava attentamente, con le mani appoggiate sul bordo del lavello pieno di schiuma e di piatti sporchi.
Il meccanico, infine, si stropicciò gli occhi spossati e si inumidì le labbra.
"È vero," annuì con lieve impaccio, "Insomma, gran parte delle situazioni erano costruite apposta. Per esempio, al luna park io ho dovuto convincere una bambina a metter su un teatrino per far fare una scenata a lui." Dicendo questo indicò Felix, il cui corpo prima palpitò di sgomento e poi fu scosso da un moto d'ira che lo portò a contrarre collericamente la mascella.
"O anche in biblioteca," continuò l'uomo con maggior scioltezza, "La borsa sul tavolo non era di nessuno. Era lì proprio per portarvi a frugarci dentro."

Sen annuì, infilando le mani ninfali in un paio di plasticosi guanti gialli per lavare le stoviglie.
"Non sarete dei santi, sia chiaro," disse, "Ma non siete nemmeno gli individui più spregevoli che abbiano mai calcato questo mondo marcio, come quel bastardo vuole invece farvi credere."
Il gomitolo fangoso e spinato che aveva ronzato nel petto di Alexander fino a quel momento si sciolse, volatilizzandosi in una nuvoletta di sollievo. Forse Sen e il meccanico avevano ragione. Forse Felix aveva ragione. E forse erano i suoi sensi di colpa a essere tutto sommato dei boia troppo inflessibili. Tuttavia, c'era ancora qualcosa che il ragazzo aveva bisogno di buttare fuori.
Quindi deglutì e balbettò: "Sì, ma se quel Tale non avesse mai imbastito tutto questo, noi... ecco..."

"Noi non ci saremmo mai incontrati," concluse Felix fissandolo dritto negli occhi. Alexander percepì il proprio volto aprirsi in un sorriso tremolante e annuì.
Sen fece una smorfia, prima di voltarsi per impregnare una spugnetta di detersivo verde e mettersi a strofinare la padella. "Bah," sbuffò, "Sarà, ma quello non ha nessun interesse nel migliorare la società, lo fa solo per sé stesso, per avere la sua fetta di mondo in cui giocare a essere Dio. Mettetevelo bene in testa."
"Oh, sì sì," ridacchiò Samantha, che con ogni probabilità non aveva più seguito nulla. Il meccanico, nel frattempo, aprì nuovamente il frigorifero, ci spiò dentro e subito lo richiuse senza prendere nulla.
"Voi avete ancora la macchina di Manuel?" domandò fissandoli con quella sua espressione corrucciata.

I quattro si guardarono e poi annuirono colpevoli.
L'uomo assentì pensieroso e sfregandosi una mano coriacea sulla barba ispida disse: "Se mi dite dove l'avete lasciata la porto nell'officina, così il capo non ve la fa portare via. Potreste averne bisogno". Seguì un chiacchiericcio confuso e incoerente, in cui i quattro provarono a dare l'ubicazione più esatta. Ad Alexander parve tutto indecifrabile e caotico, ma Igor sembrò capire. "Allora io vado e torno," borbottò.
Tuttavia, mentre li stava già salutando, il volto di Esme fu rischiarato da un flash.
"Il carburante!" ricordò sbattendo entrambi i palmi sul tavolo.
"Ah, merda, è vero," imprecò Felix.
L'uomo li squadrò con un grosso punto interrogativo stampato sulla fronte spellata. Alexander si affrettò quindi a spiegare: "È che forse abbiamo messo il carburante sbagliato".
"Uh, quale avete messo?"
Samantha si schiarì la gola e, scandendo bene le lettere, pronunciò: "Benzina!"
Il meccanico annuì accigliato. "Uh, okay, controllo io."
Detto questo salutò sia loro che Sen con un borbottio e uscì. I suoi passi risuonarono sul laminato, furono interrotti dall'aprirsi della porta, ricominciarono sulle piastrelle del pianerottolo e si persero giù per le scale.

Sen, insaponando un piatto dopo l'altro, ruotò un po' la testa e il suo elegante profilo asiatico disse: "Su, andate in salotto. Qui devo sistemare la cucina e mi diverto di più a farlo da sola".
I ragazzi non ebbero motivo di opporsi e migrarono dalla cucina illuminata al salotto ormai scuro. Sul pavimento Sen aveva sistemato un paio di materassini da campeggio su cui poi due di loro avrebbero potuto dormire, tuttavia per il momento la loro attenzione fu rivolta al divano. Vi si sedettero tutti, a parte Felix, che - forse per il caldo - preferì sedersi per terra limitandosi ad appoggiare la schiena e il capo in prossimità di un bracciolo. La testa era così vicina al ginocchio di Alexander che il ragazzo poteva sentirne i capelli solleticargli la pelle. Alexander si lisciò la grossa maglia rossa e si accomodò meglio contro lo schienale inaspettatamente accogliente del sofà. Esme, seduta accanto a lui, incrociò le gambe e appoggiò i gomiti sulle ginocchia.

"Accendiamo la televisione?" propose Felix cercando con gli occhi il telecomando, che destino volle fosse fra le mani di Samantha.
La ragazza proruppe in un gioioso "santo cielo, sì!" e la accese senza farsi pregare.
Non ci vollero più di cinque secondi perché lei e Felix iniziassero a discutere per il programma da guardare, mentre Esme si godeva la scena ridacchiando insonnolita. Alexander fissava vacuo le immagini ora pallide, ora sfolgoranti che si susseguivano sullo schermo in una serie di circostanze tutte scollegate fra loro come succede quando ci si prova a ricordare i sogni.
Non erano nemmeno le nove, ma il borbottio della televisione, la discussione a mezza voce degli amici, lo scorrere dell'acqua nel lavello e l'inattesa comodità del divano lo portarono presto ad avere la testa ciondolante e la vista fuori fuoco. Si sentiva bene, aveva ricevuto le rassicurazioni di cui aveva bisogno ed era felice di aver sputato fuori quanto non aveva fatto che corroderlo dentro.
Sullo schermo ora c'era un gruppo di intellettuali che borbogliava di poesia ottocentesca, ora una pubblicità di supposte per intestini delicati. Ora i colori erano freddi e sterili come uno studio medico, ora caldi e ribollenti. Alexander sprofondava sempre di più nel divano e in uno stato di incoscienza. Sbadigliò tre volte di seguito. E, nel giro di qualche fuligginoso minuto, le sue palpebre si abbassarono, ufficializzando così la sua entrata nel mondo dei tanto ambigui sogni.


Alexander si risvegliò in quello che dedusse essere il cuore della notte. Qualcuno doveva aver abbassato le tapparelle perché il buio gli brulicava sulle retine solido come plastilina.
Aveva caldo.
Con un certo sforzo, capì di essere ancora seduto sul divano, la stoffa ruvida gli faceva sudare la schiena e le gambe.
Aveva caldo ed era stordito dal sonno.
Che ore potevano essere?, si chiese intontito. Pure la voce dei suoi pensieri biascicava sonnolenta. L'aria torbida era ferma, soffocante e gli si appiccicava addosso. Nell'impenetrabile oscurità della stanza risuonavano respiri profondi e il rantolo cupo del russare di Samantha.

Dio, ma perché non c'era nemmeno un ventilatore?, boccheggiò mentalmente. Riaddormentarsi in quelle condizioni sarebbe stato impossibile.
Alexander, con la testa annebbiata e il corpo formicolante, si costrinse ad alzarsi, deciso a sciacquarsi almeno la faccia. I suoi piedi accaldati affondarono appena nel tappeto grezzo. Una flebilissima luce entrava dalla piccola finestra in cucina ed era tutto ciò che Alexander aveva a disposizione per muoversi.
Strizzando gli occhi appannati dal dormiveglia, il ragazzo si diresse il più furtivamente possibile verso dove immaginava esserci il bagno.
Avanzò a tentoni prima nel salotto popolato da fiati addormentati e poi nel corridoio silenzioso. Si sarebbe lavato il viso, forse avrebbe bagnato la gola e poi sarebbe tornato a dormire. Questo era il piano che le poche zone sveglie del suo cervello avevano raffazzonato.

A passi felpati riuscì a raggiungere la porta del bagno socchiusa. L'aprì cautamente e vi entrò. Solo per rimanervi imbambolato sulla soglia.

Il caldo sembrò sparire in un soffio o avvampare a grandi folate, Alexander non l'avrebbe saputo dire. Così come non riuscì a capire se il suo cuore avesse perso un battito o ne avesse invece fatti due insieme.

"Scusa," balbettò a Felix, che stava masticando una barretta ai cereali seduto di sbieco nella vasca.
"Tranquillo," lo rassicurò pacato Felix, scrollandosi le briciole dalla maglietta grigia che baluginava alla luce fioca. Se ne stava sprofondato con la schiena appoggiata a un'ansa della vasca e le gambe che penzolavano dall'altra. "È che qui fa meno caldo," aggiunse dopo aver deglutito.
Era vero.
La finestra era spalancata sopra di lui e dall'anta aperta entravano refoli di vento scuro che facevano oscillare mollemente la tenda candida. Alexander indugiò sulle piastrelle fredde accarezzandosi un avambraccio. Cosa doveva fare? Andarsene? Rimanere? Sbattere la testa contro il lavandino e dimenticarsi con una botta alienante il suo essere sempre così inopportuno?

Felix, però, gli tese un'altra barretta del mucchietto accatastato nella vasca e dissipò così la coltre di paralizzante imbarazzo in cui Alexander si stava aggrovigliando.
"Tieni," gli disse a voce attutita, "Non è un granché, ma non fa nemmeno schifo."
Alexander vacillò per un istante, ma alla fine attraversò il piccolo bagno e, senza capire troppo quello che stava facendo, si sedette accanto a Felix nella porcellana inscalfita della vasca, lasciando ricadere fuori le gambe e stringendo la barretta fra le dita. Forse non era comodissimo, ma la ceramica era fresca e la brezza estiva li blandiva con soffi di tiepida gradevolezza.

Smangiucchiarono la merendina appiccicosa spalla a spalla e in sereno abbandono.

La luce lattea della luna filtrava insieme a quella fioca dei lampioni, illuminava evanescente il lavello bianco, scivolava sul flacone livido del deodorante, penetrava soffusa nella boccetta dell'acqua di colonia e finiva bagnando le piastrelle intonse. Era tutto così etereo e piacevole che Alexander non era certo fosse anche reale. Eppure, il muro che gli premeva compatto contro la nuca, il sapore dolciastro della barretta incastrato sotto i denti e il respiro tranquillo di Felix gli suggerivano che non era tutto dentro la sua testa.

Rimasero per qualche altro, inquantificabile minuto senza bisogno di dire nulla. La notte scivolava placida attorno a loro.
A un certo punto Felix, di punto in bianco, mormorò: "Stare in un posto e non voler essere da nessun'altra parte, essere con una persona e non voler stare con nessun altro. Il momento che stai vivendo ti basta. Ti è mai capitato?" Girò il capo verso di lui, stranamente serio.
Alexander sentiva le mani sudate e percepiva il cuore martellargli nel petto, ma gli pareva provenisse da un posto molto lontano da lui.
"Sì," bisbigliò, "A-adesso."
I loro sguardi si allacciarono stretti insieme, le pupille di Felix - forse per la poca luce - avevano fagocitato quasi tutta l'iride. Alexander si accorse si essere arrossito e arrossì ancora di più.

Si era spinto troppo oltre? Forse si sarebbe solo dovuto limitare ad annuire come faceva sempre.
"Ecco... io..." provò quindi ad aggiungere, ma lo fece a voce così smorzata che Felix dovette avvicinare ancora di più il proprio volto al suo.
E, come quando un oggetto sull'orlo del tavolo scopre la forza di gravità o due magneti opposti raggiungono il punto di non ritorno, successe quel che doveva succedere. Il mondo indietreggiò di un passo e il resto della frase si perse in un bacio.

Fu un bacio breve, goffo e umidiccio, un po' come l'esistenza umana del resto. Ma Alexander, che non aveva mai permesso a nessuno di avvicinarglisi così tanto e non era mai stato bravo con quello che si chiama affetto, era sicuro di non aver mai sperimentato una cosa così bella. L'impacciata bellezza di quel momento gli indugiò sulle labbra mentre si allontanavano da quelle di Felix e gli si annidò stabilmente in fondo ai ventricoli del cuore.

La Terra tornò a girare sul proprio asse, il tempo a consumare il mondo e il bagno a essere un bagno. I due ragazzi si guardarono senza far nulla per reprimere i rispettivi, maldestri sorrisi.

"Be'," sospirò alla fine Felix, grattandosi il naso con studiata disinvoltura, "Se tutto questo dovesse essere un film, non sarebbe fra quelli che di solito guardo."
Alexander ridacchiò, in pace come non credeva di essere mai stato. Si ricordava bene la conversazione al motel e di come Felix gli avesse confidato di non guardare mai i film che finivano bene. Alexander sorrise di stupita felicità nella luce lattescente, lui mai avrebbe pensato di poter essere il lieto fine di qualcuno.

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