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Il Quartier Generale degli Stronzi

Leandro li guidò attraverso il corridoio stretto, aprì quella pacchianata che era la porta d'ingresso e li condusse fuori dalla casa. Tutto questo avendo ben cura di mantenere un irritantissimo cipiglio canzonatorio.
Doveva sapere bene che la sua apparizione era stata una cosa piuttosto gratuita, presuntuosamente d'effetto e inaspettata nel senso più sgradevole del termine. E il fatto che se ne beasse fece in modo che una certa dose di fastidio prendesse a friggere nel petto di Felix, facendogli ronzare il costato di energia nevrotica.

Perché, fra tutti, doveva risaltare fuori proprio quello lì?, si chiese digrignando i denti. E perché diamine avevano acconsentito a seguirlo? Solo per ricevere delle dannatissime spiegazioni che nessuno voleva davvero sentire? Sarebbero state solo un mucchio di stronzate, pensava con convinzione, stronzate che gli avrebbero intasato il cervello e che comunque, nel giro di poco, si sarebbe dimenticato senza alcun rimpianto. Soffiò stizzoso dell'aria dal naso.

Fuori dalla casa il sole era quasi allo zenit, le loro ombre nette e pateticamente piccole.
I grilli cantavano a squarciagola da qualche parte in quell'inutile prato mentre loro quattro seguivano Leandro sul vialetto ghiaioso.
Il cielo sputava sui loro volti blande folate di vento dal rinnovato calore. Felix sentiva il sudore solleticargli le ascelle.

"Mi scusi! Mi può ripetere dove stiamo andando?" domandò Samantha, dando per chissà quale occulto motivo del lei a Leandro. "Non è stato molto chiaro, sa?"
L'uomo, senza prendersi nemmeno la briga di voltarsi, sventolò la mano e disse: "Dal grande capo, signori. Come vi ho detto, al suo quartier generale".
"Seh," sbottò Felix, che ne aveva piene le tasche dell'atteggiamento supponente di quell'uomo, "Al quartier generale degli stronzi."
Leandro, seppur con evidente sforzò, lo ignorò.

Percorsero gli ultimi metri del vialetto assolato sprofondati in un silenzio ostile. Esme aveva un'espressione concentrata e fissava indagatrice ogni movimento di Leandro, mentre Samantha stringeva il secchio che aveva trovato in bagno con entrambe le braccia.
Alexander avanzava con chiaro disagio, i muscoli tesi e il corpo tanto compassato che pareva muoversi senza piegare le ginocchia. Le labbra erano contratte e gli occhi traboccanti di angoscia.
Felix, che camminava strascicando i piedi in modo deliberatamente rumoroso, smise di pizzicarsi la pelle del collo solo per dare una gomitata complice al compagno. Vederlo così abbattuto metteva di pessimo umore pure lui.
Quando ebbe la sua attenzione, fece il gesto della pistola con la mano destra e - mentre Leandro armeggiava per aprire il cancello - si portò indice e medio sotto il mento, rovesciando le pupille e fingendo di spararsi. Sul viso di Alexander, la sfuggente ombra di un sorriso dissipò quella densa della preoccupazione.
Felix sogghignò a sua volta, rendendosi conto che per veder ridere il compagno era disposto a comportarsi come il più squallido dei burloni.

Leandro dischiuse il cancello, che doveva essere stato oliato da poco a giudicare dalla silenziosa fluidità con cui si aprì, e con un gesto colmo di affettazione intimò loro di uscire.
Sembrava una sorta di mandriano intento a gestire il suo bestiame riottoso, osservò Felix, cosicché una nuova ondata di irritazione lo investì nel rendersi conto di essersi autoparagonato ad una vacca da latte. Leandro richiuse il cancello trafficando con una chiave ferrosa e ridicolmente grossa, che doveva senz'altro pesare almeno quanto l'enorme inferriata che apriva. Dopodiché si girò verso di loro e riprese a fare strada, organizzando i propri passi in lunghe e flemmatiche falcate.
"Fra una decina di minuti dovremmo essere a destinazione," li informò, mentre le sue braccia si esibivano in un'ampia danza per portargli una sigaretta all'angolo della bocca. "Se pensate di scappare, fate pure. Non mi metterò certo a sudare per fermarvi, ci tengo che lo sappiate."
"Oh! Che gentile!" apprezzò Samantha. Felix non riuscì a stabilire se fosse ironica o se lo intendesse sinceramente.

La sigaretta di Leandro era una di quelle aromatizzate alla vaniglia.
Felix le odiava dal profondo del cuore.
L'odore acre e allo stesso tempo stucchevole che si levava a ogni boccata gli pungeva le narici in modo così fastidioso da mettergli voglia di strapparsi il naso.

Camminavano seguendo Leandro come bravi bambini e rimanendogli di qualche passo indietro. La brezza estiva agitava le maniche morbide della camicia color zafferano dell'uomo e increspava in onde leggere lo spiegazzato tessuto bianco dei suoi pantaloni. Quell'accostamento di colori lo faceva assomigliare a un gigantesco sorbetto al limone.
Gettò il mozzicone in un cestino della spazzatura e si fece scivolare le mani affusolate nelle tasche larghe.
Si atteggiava anche come un noioso capo scout intento a riportare alla base gli adepti ribelli che si erano persi nel bosco, rifletté Felix seccato.

La strada era soleggiata, monotona e costeggiata da siepi fatte di interscambiabili foglioline verde scuro.
Sembrava non voler finire mai.

Che palle.

Per spezzare quel piattume, Felix si infilò una mano in tasca e prese uno dei lecca-lecca. Lo scartò con dita nervose e avendo premura di gettare la cartaccia per terra.
Contemplò per un istante i raggi del sole che si riflettevano in tanti piccoli puntini su quella lucida lastra di zucchero rosso. Non sembrava uno di quelli dalla qualità eccelsa e Felix l'avrebbe preferito alla Coca-Cola, tuttavia non era nella condizione di poter fare lo schizzinoso. Dunque, continuando a lamentarsi mentalmente, se lo cacciò in bocca con un gesto rapido. Qualunque fosse la marca, essa non ci aveva messo la minima passione né nella ricetta né nella realizzazione. Lo zucchero, infatti, era plasticoso e quel sentore di fragola era l'aroma più artificiale che Felix avesse mai assaggiato, ma almeno non aveva alcuna presunzione di essere altrimenti.

Assaporando quel dolcetto che sapeva più di cancro al pancreas e ipertensione cardiaca che di fragola, Felix si rese conto che stavano ora avanzando su uno smilzo marciapiede dalle pretenziose e sciocche mattonelle azzurre. Ma perché diamine fare un marciapiede di quel colore?, si chiese. Forse perché faceva un bel contrasto con la cacca di cane che ci si sarebbe accumulata sopra o con il nero lustro delle blatte?

"Oddio!" esclamò d'un tratto Samantha, facendo quasi cadere il secchio accomodato fra le sue braccia. "Qui è dove mi sono svegliata! Guardate! Oddio, oddio! Proprio lì! Fra quelle margherite!"
Saltellava da un piede all'altro con gli occhi luccicanti di felicità. "Ci potete credere? Sembra passato così tanto tempo, no, anzi, sembra ieri! Oddio, non so decidere."
Leandro aveva rallentato il passo, ma si ostinava a non degnarli di alcuna attenzione e le esclamazioni di Samantha sembravano rimbalzargli addosso, per ricolpire con nuova forza i timpani di Felix.
"Che emozione! Oddio! Ero proprio lì! Però, cavolo, è un vero peccato che le margherite non siano più spiattellate, speravo tanto che il prato avesse ancora la mia forma!"

Di bene in meglio, pensò tagliente Felix, a quanto pareva Esme si era svegliata in una deliziosa villetta in stile coloniale e Samantha in un soffice prato di fiori. E lui - ma perché si sorprendeva? - lui ovviamente si era svegliato nel pattume. Certo, gli sembrava giusto.

Se fino a quel momento non era sicuro di voler mettere piede in quel fantomatico "quartier generale" di merda, ora gli prudevano le mani da quanto aveva voglia di entrarci.
No, non voglia, bisogno. Aveva proprio l'urgenza di guardare in faccia chiunque fosse stato il bastardo ad avere il coraggio di pensare "ma sì, questo qui, be', se ne starà bene nella spazzatura" e rigurgitargli addosso tutto il proprio legittimo dissenso.

Alexander lo distrasse dai suoi iracondi propositi. "Avete... Avete visto?" chiese infatti, indicando incerto una mastodontica struttura che torreggiava poco più avanti, protetta dalle siepi fitte.
Felix alzò la testa e fece una smorfia: pareva una sottospecie di centrale elettrica, anche se, dopo un'occhiata più attenta, dovette riconoscere che in realtà non era nemmeno poi così grande.
A giudicare dall'immacolata pittura blu oltremare che ne rivestiva ogni superficie, doveva essere nuova, o per lo meno ristrutturata di fresco. L'unica cosa a non essere smaltata di quella specifica tonalità era la ciminiera, che, in un tenue acquamarina, svettava nel cielo in cui sembrava volersi confondere. Dalla sua bocca non usciva nemmeno uno sbuffo di fumo.
Felix era perfettamente conscio di non avere alcuna competenza in materia, ma non ci voleva un esperto per capire che quel posto, più che produrre energia, doveva consumarla e basta.

Esme, qualche metro distante, attirò la loro attenzione sgranchendosi la gola e picchiettò una nocca su un cartello vicino a lei. Raggiunsero lei e il cartello.
Quest'ultimo era rettangolare, nuovo di zecca e sulla superficie rifrangente era riportata ancora quella dannatissima sigla. M.I.R.A., di cui Felix però aveva già provveduto a rimuoverne il significato.
"Oh! Allora è questo il quartier generale?" domandò Samantha, pronunciando le ultime due parole in un'imitazione del tono di Leandro che Felix dovette riconoscere essere piuttosto divertente.
"Penso di sì," convenne Alexander.

Cosa sentivano le sue orecchie? Era dunque quello il postaccio?
Felix, animato da una nuova ondata di sentimento sovversivo, si tolse il lecca-lecca dalla bocca: era ormai ben lontano dall'essere a forma di cuore e luccicava nel suo involucro di saliva.
Perfetto, proprio quello che ci voleva.
Utilizzando quindi il potente collante offerto dalla micidiale combinazione di zucchero e bava, Felix spiattellò il lecca-lecca contro il cartello, dove rimase grottescamente appiccicato.
Una crosta rosso fragola di edulcorati, additivi alimentari e saliva incollata al loro caro segnale.
Il ragazzo contemplò orgoglioso la propria istallazione artistica d'ispirazione dadaista e si godette i sorrisi di iconoclastico divertimento sui volti degli amici.

"Io sto entrando," li avvertì Leandro, che se ne stava lievemente spazientito in prossimità di un varco fra le siepi. Felix alzò gli occhi al cielo e lo raggiunse con fare battagliero, preceduto dagli amici.
Fra le aiuole punteggiate di gelsomini pregni d'odore, si estendeva un solido cancello. Questa volta era uno di quelli scorrevoli in acciaio zincato, che nel clima incandescente dell'estate scottano anche solo a guardarli.
Leandro premette quello che doveva essere il citofono e per qualche istante si sentì solo l'elettricità statica formicolare nell'altoparlante. Alla fine un acuto biiip stilettò l'aria e il cancello iniziò ad aprirsi con meccanica lentezza. 

La centrale elettrica incombeva davanti a loro ed era così immobile e azzimata nella sua vernice blu che a Felix venne spontaneo paragonarla a uno di quei modellini dal costo esagerato per bambini o per patiti del collezionismo, che in fin dei conti è dire un po' la stessa cosa.
"Secondo voi qui fanno gli esperimenti?" si interessò Samantha, ancora abbracciata al secchio come se si trattasse di un cuscino o un grosso peluche.
Alexander incrinò le labbra. "Temo che non sia da escludere" disse lapidario.
"Non avete un po' paura di cosa potremmo scoprire?" riprese a chiedere con insistenza la ragazza. "Cioè, magari viene fuori che tutto questo è un sogno, oppure che... oddio, che voi siete delle proiezioni della mia mente!" Si coprì la bocca con una mano.
"Sì, ti piacerebbe," le rispose secco Felix, che era piuttosto convinto di esistere e lo innervosiva un po' il fatto che qualcuno potesse metterlo in dubbio.

"Io sto entrando," ribadì Leandro, dondolandosi alquanto risentito sulle scarpe in cuoio sciupato.
Per uno che non aveva intenzione di sudare per mantenerli in riga, si stava dando molto da fare, pensò sprezzante Felix.
Esme fece spallucce e si avviò. Gli altri tre fecero lo stesso.
Percorsero un vialetto fatto di sampietrini azzurri che zigzagava in un prato falciato alla perfezione. Sotto lo stormire delle foglie si poteva avvertire il pigro ronzio dell'edificio.
Leandro li condusse a una squadrata struttura centrale, aprì uno spesso portone che si affacciava fra due folte piante di ficus e li fece entrare.

Samantha proruppe nell'immancabile "oh" e Alexander si fece sfuggire un suono strozzato. 
Anche Felix per un vertiginoso secondo si sentì piccolo e spaesato. La struttura in cui erano entrati, dopotutto, era piuttosto spiazzante.

Tanto per cominciare comunicava un forte senso di buio, senso che nemmeno i lunghi lucernari o i freddi pannelli al led riuscivano a dissipare. In secondo luogo, nonostante il perimetro di quella stanza non fosse certo piccolo, essa riusciva comunque ad articolarsi più in altezza che in larghezza. Il soffitto era infatti così alto che per stabilirne con certezza il colore si sarebbero dovute fare almeno quattro rampe di scale, che, per inciso, erano di quelle fatte di acciaio cigolante e ordinato in rudimentali griglie.
L'aria che tirava lì dentro odorava di vernice fresca e materiali plastici nuovi, tuttavia - sarà stato per il senso di oscurità o per quello di frescura - celava come un retrogusto limaccioso che faceva pensare all'atmosfera acquitrinosa che si respira nei boschi. Forse era stata progettata per essere una sala macchine o caldaie, al momento però era quasi del tutto vuota e Felix era certo che, se avesse urlato, un'eco squillante gli avrebbe senz'altro risposto.
In sostanza non era certo un posto in cui lui avrebbe fatto le vacanze.

"Ma quelli non sono i tizi che ci hanno sgridati quando stavamo interrogando l'altro tizio?" sussurrò a quel punto Samantha, indicando l'altro lato di quell'enorme stanza, dove erano piazzate, in modo spartano ma stranamente simmetrico, quattro scrivanie. Le due centrali erano occupate da due omoni costretti su minuscole sedie da ufficio, entrambi impegnati a fissare con occhi assenti i rispettivi computer, ognuno invischiato in un mare di scartoffie.
Una delle paure più grandi di Felix era quella di finire a lavorare in un ufficio.
Polo e cravatta tutti i giorni, i denti macchiati di caffè e un'onnipresente ernia del disco che faceva a gara con una cervicalgia insanabile a chi l'avrebbe portato prima a imbottirsi di analgesici.
Essere condannato a soffrire le pene dell'emicrania mentre fissava imbambolato un monitor troppo luminoso e compilava miliardi di verbali per quella stessa burocrazia che lo strangolava, standogli a cavalcioni sulle spalle.

"Allora? Sono loro?" continuò Samantha, lacerando i drammatici vaneggiamenti anti-borghesi del ragazzo.
Sia Esme che Alexander annuirono, lei senza esitazione lui esitando con evidenza. Felix, invece, non ebbe il tempo di formarsi un'opinione in proposito perché Leandro tornò a incitarli.
"Se i signori si degnano di seguirmi..." disse affettando un atteggiamento ossequioso.

"E che palle," si lasciò sfuggire Felix. Non ne poteva più di essere scorrazzato a destra e a manca come un fottuto barboncino. Tuttavia, sebbene tutta quella situazione gli stesse rompendo proprio le scatole, non poté fare altro che tallonare Leandro su per quelle scale che, dati i gemiti e i cigolii, avrebbero preferito a loro volta essere lasciate in pace.
I loro passi rimbombarono cupi in quel padiglione riecheggiante.

Arrivarono all'ultima rampa di scale ansanti e scontenti.
Il soffitto era grigio scuro, Felix non avrebbe potuto stabilire quale delle cinquanta sfumature. Forse grafite. Il cuore gli ballonzolava nella gola.
Esme aveva passato la mano sul corrimano e ora era intenta a pulirsi il palmo nero di polvere sui pantaloncini, Samantha boccheggiava per la fatica e, con due dita poste sul collo, aveva tutta l'aria di starsi controllando il battito. Alexander, invece, si stava impegnando per contrastare il fiatone e tornare ad una frequenza respiratoria normale. Le labbra dischiuse erano secche e lo sforzo gli aveva imporporato le guance.
"Siamo proprio fuori forma, eh?" osservò ironico Felix, che non rantolava meno degli amici. Quei dannati gradini erano belli alti e Leandro - l'unico a essere perfettamente riposato - li aveva obbligati a percorrerli ad una velocità disumana. Paradossalmente, i suoi due polmoni marci da incallito fumatore avevano retto meglio dei loro otto giovani polmoni sani messi insieme.

"Per bontà divina siamo arrivati e posso finalmente congedarmi da voi," disse l'uomo, enfatizzando sollievo con ogni mezzo della comunicazione non verbale.
E solo in quel momento Felix si rese conto della presenza di una porta, lì sul pianerottolo. Era in legno massiccio tirato a lucido, nel quale si apriva una finestra rettangolare resa con lo stesso vetro piombato della casa. Dal vetro filtrava un'intensa luce calda.

Leandro alzò il braccio destro in un gesto arioso, bussò deciso alla porta e, senza aspettare alcuna risposta, la spalancò.

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