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Il perfido ghigno del Bruco Mela

Strano a dirsi: era stanco.
Lui, Felix, che si considerava una dannata fonte inesauribile di energia e di tic nervosi, sarebbe stato disposto ad amputarsi una di quelle due gambe doloranti pur di infilarsi nel letto.

All'inizio ne fu sorpreso. Tuttavia, pensando a tutto quello che gli avevano fatto fare, si rendeva conto che c'era ben poco da stupirsi.
Non aveva idea di quanto potesse aver lavorato. Sicuramente troppo.
Il momento in cui aveva bevuto il caffè, che anche con tre cucchiaiate di zucchero era riuscito comunque a rimanere amaro, e sbafato quei dolcetti appiccicosi, gli sembrava un miraggio lontano. 

D'altra parte, avevano passato tutto il resto della mattina a contare e catalogare i premi per il tiro a segno.
Era, quindi, rimasto per ore in un inferno di peluche vecchi e visibilmente scadenti. Ne aveva respirato l' odore polveroso a tal punto che sentiva come se una patina di polvere si fosse depositata anche sui suoi polmoni.
Aveva combattuto contro scimmie color rosa evidenziatore, deformi pecorelle dal pelo di una stopposa ruvidità, strani esseri in poliestere scadente, che potevano essere cavalli come cani, e orsetti strabici, che solo a guardarli sembravano poter favorire la comparsa di un brutto eczema.

"Credetemi, con il favore della notte e la giusta luce, paiono essere stati appena confezionati nell'officina di Babbo Natale" aveva commentato Sen, che, oltre ad essere la donna identificata superficialmente come "quella forse giapponese", a quanto pare, era anche quella che si occupava del tiro a segno.
Be', "occuparsi" non era un termine esatto, dato che gli unici muscoli che si era degnata di muovere erano stati quelli per scavallare e riaccavallare le gambe.

Felix ricordò, più con lo stomaco ormai vuoto che con la mente, di come avessero avuto a malapena il tempo di pranzare. Nient'altro che due ridicoli panini con la coppa a testa. E, come se non bastasse, le fette di pane erano rafferme.

Non sapeva quanto tempo fosse passato da allora, né dove cavolo fossero finiti gli altri.
Del resto, dopo quel misero spuntino che il ragazzo si rifiutava di chiamare pasto, li avevano divisi e lui non aveva avuto molto tempo di ispezionare l'area per cercarli.

Finì di avvitare l'ennesima vite.
E che diamine, gli pareva di avvitare viti da tutta la sua vita, pensò, ridacchiando distrattamente per quello sciocco gioco di parole.
Si passò il dorso della mano sulla fronte per impedire che il sudore gli grondasse negli occhi.
Assurdo che facesse sempre così caldo.

Si alzò per sgranchirsi la schiena. Un piede gli si era addormentato e ora formicolava pungente dentro la scarpa. Sembrava che un milione di sottilissimi aghi gli stessero pungolando la pianta del piede. Odiava quando succedeva. Era come avere gli arti immersi in ciò che si vede quando la televisione è sintonizzata su un canale morto. Mosse un po' le dita nel tentativo di riacquistare sensibilità.

Il resto del corpo, dopotutto, non era messo tanto meglio: sulle ginocchia gli era rimasta impressa l'impronta dentellata della ghiaia e, ovviamente, gli dolevano tutti i muscoli.
Chissà quanto diavolo gli avrebbero fatto male il giorno dopo. Li avrebbe avuti tutti irrigiditi e impossibili da utilizzare. Scosse la testa rassegnato.

Daigoro, a pochi metri di distanza, fece cadere per l'ennesima volta la chiave inglese. Un forte clangore metallico riecheggiò nell'immoto calore dell'aria.
Felix sobbalzò.
Sarà stata la decima volta che succedeva. Eppure, il ragazzo pensava non si sarebbe mai abituato a quell'affilato frastuono che esplodeva senza preavviso quando il vecchio perdeva il controllo delle sue dita. Cristo, gli feriva i timpani.
"Artrite" gli era stato spiegato con asciutta noncuranza la prima volta.

A parte quel seccante effetto collaterale, Felix si stava trovando bene con il vecchio, Daigoro. Indossava ancora la stessa identica tuta da lavoro con cui l'avevano visto il giorno  prima, costellata dalle stesse identiche macchie di olio negli stessi identici posti. Si trattava di una logora salopette da lavoro color antracite, per la precisione. Il ragazzo non aveva mai visto nessuno indossare nel mondo vero un abbigliamento del genere. Prima di allora, pensava fosse solo un'invenzione delle sitcom anni Ottanta o dei registi porno.

Il vecchio, nel mentre, stava lucidando le rotaie lentamente e con silenziosa premura.
La faccia incartapecorita era quella tipica di una persona che, non interessandosi del giudizio degli altri, non sente alcuna necessità di giudicare a sua volta. Una di quelle persone che si limitano ad alzare le spalle con neutrale accettazione anche quando ammetti di infilarti regolarmente le dita nel naso o di non lavarti le mani dopo essere andato in bagno. Entrambe cose, per inciso, che Felix faceva ed era disposto a confessare senza alcuna vergogna.

Sotto lo sguardo attento dell'uomo, il ragazzo si era spaccato la schiena per tutto il pomeriggio. Aveva sollevato pesanti pezzi di rotaie arroventate dal caldo estivo, riproduzioni in scala dai colori sgargianti e artificiali di binari del treno. Aveva girato bulloni durissimi con quel maledetto sole che gli batteva incandescente sulla nuca priva di difese. Si era arrampicato su soppalchi ballerini, le cui scalette d'acciaio strillavano metalliche ad ogni passo. Condiviso una bottiglia di acqua calda e acquitrinosa con quel vecchio, che, per quanto simpatico, rimaneva comunque uno sconosciuto.
Tutto quello, tutta quell'immane fatica, solo per costruire un fottutissimo Bruco Mela. 

"Cosa diavolo hai da guardare ora?" sibilò Felix, rivolto alla faccia beffarda del bruco, steso nella ghiaia nebbiosa. Cristo, quanto lo odiava. Perché ficcare un grugno simile al treno di una montagna russa?
Gli occhi tardi e guerci, il sorriso idiota dai grossi denti distanti. Da quando i bruchi avevano i denti? A cosa accidenti gli sarebbero potuti mai servire?
Più lo guardava, più diventava irritabile. Ne consegue, che, per un sadico gioco della psiche umana, non riusciva a staccargli gli occhi di dosso.

"Nella polvere, quello è il tuo posto, lurida faccia di merda" bisbigliò fra i denti il ragazzo, mentre si sventolava con i lembi della camicia zuppa di sudore. Zaffate di umanità gli sferzarono il volto e solleticarono acri le narici.
Quanto diamine aveva sudato. E quanto cazzo puzzava.
Certo, aveva valutato di togliersi la camicia e lavorare a torso nudo, come i bellocci con i muscoli oliati dei video musicali o dei film per adolescenti in calore. Tuttavia, si rendeva conto che c'erano troppe insanabili differenze fisiche fra lui e loro e alla fine aveva lasciato perdere.

Sentiva gocce calde di quel disgustoso liquido corporeo sgusciargli, con fastidiosa lentezza, fra le scapole e giù, lungo la colonna vertebrale.
Non ricordava di aver mai sudato tanto.

Tuttavia, sebbene l'afa non sembrasse propensa a dissiparsi, il sole pareva essersi impietosito e si intuiva fosse finalmente deciso a togliere il disturbo.
Forse aveva sentito anche lui la puzza di sudore che certamente doveva arrivare fin lassù, pensò Felix, che si sentiva avvolto in una pungente nube profumata di cipolle fritte.

Approfittò di quel momento di pausa per guardarsi un po' in giro.
Il sole ormai tiepido allungava i suoi raggi paglierini sulle attrazioni in costruzione. L'aria iniziava a farsi meno densa e respirare era tornato ad essere una funzione semplice.
Be', non era stato l'unico ad aver lavorato, valutò Felix, notando i progressi fatti nel luna park.
Qualcuno doveva aver passato una mano di lucido sulle navicelle della ruota panoramica, che ora dondolavano scintillanti sotto il sole morente. Si stavano esibendo in un giro di prova. Lo scheletro d'acciaio dell'enorme giostra ruotava su sé stesso con un rantolo tenue.

Da qualche parte esplose una risata rauca. Felix ne seguì il suono.
Proveniva dalla casa degli specchi dove, appoggiata contro la facciata decorata in modo parecchio kitsch, c'era Sen. Stava ascoltando con sfacciato divertimento quello che il ragazzo intuì essere Leandro. Chissà cosa diavolo aveva di così divertente da raccontare.
In quel momento, vide una chiazza lilla uscire dall'entrata scura dell'attrazione. Era Esme. La ragazza si schermò gli occhi con le mani, prima di pulirsele sul pigiama. Anche da quella distanza, non era difficile intuire che avesse lasciato delle nebulose ditate di sporco nero sul tessuto chiaro. Se non altro, lei aveva avuto la fortuna di non dover lavorare sotto il sole cocente per tutto il pomeriggio.

Daigoro fece cadere nuovamente la chiave inglese. Cristo.
Felix stava per tornare a sfogare le proprie frustrazioni su quell'irragionevolmente tanto detestato Bruco Mela, quando intravide Alexander.
Stava seguendo, stringendosi le braccia al petto, un tale in canottiera verde acqua. Djando forse, provò a ricordare Felix, oppure Ejiul. No, Ejiul era una donna. Cristo.
Non era mai stato bravo a imprimere i nomi nella memoria. O le facce. O qualsiasi altra cosa, in effetti. Ci rinunciò.

Alexander e il tale si avvicinarono al gabbiotto del tiro a segno. L'uomo si sporse oltre il bancone e riemerse stringendo una bottiglia d'acqua nella mano. La tese al ragazzo, che, nel mentre, aveva iniziato a tormentarsi una ciocca di capelli scuri e imperlati di sudore.
Felix lo guardò afferrare esitante la bottiglia e muovere le labbra in qualcosa che doveva essere un "grazie". Si portò l'acqua alla bocca e cominciò a bere. Il pomo d'Adamo si muoveva su e giù, scivolando sotto la pelle candida del collo.
Come poteva un ammasso di cartilagine tiroidea essere tanto magnetico?

"Vai pure dal tuo amico, per oggi avete finito".
Felix si riscosse e si sforzò si scollare lo sguardo. Guardò Daigoro, ostentando noncuranza.
Il vecchio gli rivolse un sorriso dall'artificiale perfezione.
"Fra poco dovrebbe anche essere pronta la cena".
Aveva sentito bene? Avevano finito? Era quasi pronta la cena? Sperò non fosse un effetto del troppo caldo.
Borbottò, in risposta, qualcosa di inintelleggibile persino per lui.

Alexander aveva ripassato la bottiglia all'uomo e ora si stava asciugando le labbra con un indice.

Felix ispirò una grande boccata d'aria con l'unico scopo di raccogliere materiale per un grosso sbuffo.
La faceva facile il vecchio. Lui non odorava di pizza alla marinara e soffritto.

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