Dalla Casa degli Specchi a quella degli Orrori
Le luci della casa degli specchi gettavano un alone rossastro sul volto corrugato di Esme.
Perché tutta quella gente?
La faccia della ragazza era così aggrottata che pareva un foglietto di carta appallottolato.
Non aveva nessun senso.
Non riusciva a spiegarselo. Perché c'erano dei bambini? Da dove erano saltati fuori? A meno che quel luna park non fosse così famoso da richiamare tutta la contrada, non c'era modo di giustificare l'improvvisa presenza di quelle frotte di famiglie.
Magari se n'erano rimasti tutti a casa fino a quel momento, rintanati dei loro cantucci bui al riparo dal caldo estivo. Possibile, ma poco probabile.
Sentì un pianto disperato detonare da qualche parte fra i visceri della casa degli specchi.
Esme abbandonò le spalle e buttò la testa all'indietro sconfortata: no, non di nuovo.
Rimase in quella posizione per qualche istante, a fissare le stelle schiacciate contro il cielo scuro. Confrontate al fulgore rubizzo del luna park, non sembravano così luminose.
"Ne è rimasto incastrato un altro" disse Lourdes dalla biglietteria illuminata. Il suo volto butterato e sciolto dalla noia cozzava ferocemente con la facciata dalla variopinta allegria che lo incorniciava.
Esme sospirò e assentì rassegnata. Avevano aperto da appena una ventina di minuti, ma quello era il terzo bambino che doveva andare a recuperare nel labirinto di specchi.
Si allontanò dalla biglietteria, passando rasente alla parete arancio della casa. Fece passare le dita sulla superficie liscia e sporca. Arrivò all'entrata con i polpastrelli grigi di polvere.
Quella che doveva essere la madre del disperso allungava il collo magro verso l'interno, non troppo preoccupata per la sorte del figlio. Fra i pannelli riflettenti riecheggiava un'insopportabile nenia di singhiozzi inconsolabili.
La madre apparentemente sorda alla pena della sua prole non fu, però, insensibile alla presenza di Esme. La ragazza fu trapassata infatti da uno sguardo affilato di circospezione e diffida.
Cos'avevano tutti da guardarla così? Quella donna non era la prima a osservarla arricciando il naso e stritolandola con gli occhi. Anche i bambini la fissavano a bocca aperta, prima di stringersi timorosi alle gambe dell'accompagnatore di turno.
Non a tutti potevano piacere i suoi capelli tinti, ma le sembrava che si stesse un po' esagerando.
Forse stava solo diventando paranoica.
Si addentrò nella casa degli specchi tanto ingorda di bambini. Le luci al neon sul soffitto alto coloravano l'aria ora di rosa, ora di verde.
Perché la gente faceva entrare lì i propri figli da soli? Solo per non pagare un altro biglietto?
Seguì il pianto ormai smorzato e privo di speranze.
Individuò in poco tempo la piccola figura da cui proveniva. Si muoveva deformata e tremolante fra i pannelli traslucidi, una triste chiazzetta verde menta che vagava persa nel suo purgatorio privato. Un'espiazione per cui aveva pure pagato la bellezza di tre euro.
Esme si inoltrò in quell'intestino cangiante, senza fretta. I suoi riflessi le scivolavano accanto, le venivano incontro e la seguivano sugli specchi puliti. Un esercito di sagome in pigiama lilla.
Si compiacque guardando quegli infiniti rettangoli riflettenti: un intero pomeriggio passato a strofinarli aveva dato i suoi frutti.
Camminava sicura in quel dedalo, sfaccettato e luccicante come un diamante e mutevole come una pozza d'acqua. Del resto, non perdersi e non andare a sbattere era un gioco da ragazzi: bastava prestare attenzione alle attaccature a terra degli specchi.
Raggiunse il disperso nel giro di pochi minuti. Aveva su per giù sette anni, i capelli scompigliati e una bolla di muco sotto la narice.
Esme si avvicinò fino a essere sufficientemente vicina da toccargli la spalla. Gli diede due lievi pacche sulla maglietta verde.
Il bambino si girò e con lui i suoi afflitti riflessi. La fissarono dritta in faccia, gli occhi lacrimosi e spaventati.
La ragazza gli sorrise con tutta la dolcezza di cui era capace, non era molta, ma sembrò bastare.
Si avviarono quindi insieme verso l'uscita. Il bambino, che non la smetteva di tirare su con il naso, aggrappato ai suoi pantaloncini.
Quando uscirono da quella trappola di specchi la madre si affrettò a riappropriarsi del figlio. Squadrò Esme senza un'ombra di riconoscenza sul volto. Per contro, il bambino scosse la mano umida di lacrime e moccio in un timido gesto di saluto. La ragazza lo ricambiò, prima di tornare alla biglietteria.
Non ebbe nemmeno il tempo di fermare le gambe che le si rovesciò addosso un altro compito.
"Vai a controllare il tiro a segno" le disse infatti Lourdes, intenta a strappare l'ennesimo biglietto, "C'è un insolito fermento".
Esme assentì accigliata e aguzzò lo sguardo nella direzione in cui ricordava essere il baracchino.
Be', effettivamente qualcosa che non andava c'era: assiepate attorno al tiro a segno si scorgevano qualcosa come venti persone.
La ragazza non aveva particolari competenze in quell'ambito, ma dubitava fosse una cosa normale.
Salutò quindi Lourdes con un cenno della mano e si avviò.
Decise di fare il giro largo: in linea d'aria era più lungo, ma c'erano meno ostacoli.
Si lasciò alle spalle la casa degli specchi e sorpassò i chioschi del cibo, senza prestarci troppa attenzione.
Sentì un odore seducente di frittelle e zucchero filato.
La picchiettante musica dance della pista degli autoscontri sfumò presto in quella da carillon allucinato che proveniva dal carosello. Sui cavalli color vaniglia, paradossalmente statici nel loro perpetuo girare, c'era seduto qualche bambino dalle dita collose e la faccia impolverata di zucchero.
Il tutto sembrava parte di un set dei Playmobil a tema "serata al Luna Park", solo che lì non c'era il rischio di ingerire piccole parti e soffocare. Anche se il fatto che a due cavalli mancasse un orecchio e a uno la coda faceva pensare diversamente.
Esme passò accanto alla casa degli orrori. Era evidente che era stata dipinta di fresco.
Sulla biglietteria si estendeva l'enorme faccia di un comprensibilmente cadaverico conte Dracula. Il bavero del mantello sfiorava a malapena gli zigomi impossibilmente alti e spigolosi, le labbra grigie erano spalancate a esibire i canini ancora gocciolanti di sangue rosso vivo.
Esme scosse la testa alla vista di quell'inesattezza: i vampiri, secondo la tradizione, azzannano la giugulare, una vena. Il sangue sarebbe dovuto quindi essere quello scuro e venoso, non quello acceso e arterioso.
Che errore imperdonabile, ridacchiò fra sé la ragazza.
Nella biglietteria si intravedeva il profilo di Ejiul, i capelli neri le ricadevano in ampie volute sulla schiena scoperta, mentre lei armeggiava con delle monetine.
Dalla casa, fra una bestemmia e una risata, si poteva udire anche qualche rado urlo. Tuttavia, Esme non avrebbe saputo dire se fossero grida vere o preregistrate.
I volti imperturbabili e vagamente seccati della coppia di padre e figlia che uscì in quel momento la fecero, però, propendere per la seconda opzione.
Un soffio di vento tiepido scosse le ragnatele finte che penzolavano dal tettuccio.
In quel momento, la musica di acute risatine di strega, violini scordati e tuoni roboanti cessò un istante. Esme nell'improvviso silenzio distinse un vago e concitato parlottio. Non proveniva dall'interno della casa.
Un suono stridente seguito da una baritonale risata malefica sancì la ripartenza della registrazione.
La ragazza si sforzò di non perdere il chiacchiericcio. Le pareva di riconoscere quelle voci.
Tese le orecchie e chiuse gli occhi per concentrarsi meglio sulle informazioni uditive. Sembravano provenire dal retro.
Si incamminò, quindi, avviandosi verso la parte posteriore della struttura dalla voluta fatiscenza. Le voci si fecero più vicine. Passò rasente al lato corto della casa, strisciando cauta sulla gigantesca e verdognola faccia di un ottuso mostro di Frankestein. Lì la pittura era vecchia e scrostata.
"Dobbiamo dirglielo" sussurrò un'inviperita voce femminile nell'oscurità dietro l'angolo.
Esme mosse piano i piedi. Doveva stare attenta a non far scricchiolare la ghiaia se voleva continuare a origliare.
"Non lo so, Sen".
Era la voce di Vadoma.
La ragazza pensò non fosse prudente sporgere la testa, quindi si limitò ad appiattirsi il più possibile contro la parete polverosa. Tese le orecchie più che poté.
"Questa cosa non è giusta né per noi né per loro e tu lo sai bene".
Una pausa. I rumori del luna park arrivavano ovattati.
"Non pensare che io ne sia felice, Sen. Tuttavia, non facciamo noi le regole".
Di cosa cosa stavano parlando? Perché lì dietro poi?
"Ma non per questo dobbiamo rispettarle. Buon dio, Vadoma, non dobbiamo stare al loro gioco".
"Non so se abbiamo scelta. Ti ricordo che quell'infido registra tutti i respiri che facciamo".
Esme era confusa. Chi erano tutti quei loro? Non si trattava forse di loro quattro?
Cosa mai avrebbero dovuto sapere? Che Vadoma sapesse cosa ci facevano lì?
"Me lo ricordo fin troppo bene e ti assicuro che sono stanca di fare la gallina con lui solo per assicurarmi che se ne stia buono".
Fare la gallina? Con chi è che Sen faceva la gallina?
D'un tratto, sentì l'aria alle sue spalle farsi pesante. C'era qualcuno.
"Ti sei persa, Esme?". Questa volta la voce era dietro di lei. La ragazza si irrigidì. Era quella di Leandro.
Che tempismo, si disse, mordendosi la lingua.
Prese un profondo respiro. Si girò piano e si costrinse ad assumere un'espressione di spaesata ingenuità.
Leandro la guardava dall'alto dei suoi zigomi affilati.
"Qui non troverai il tiro a segno" le disse, mentre con un ampio gesto del braccio estraeva dalla tasca una tabacchiera turchese. I bracciali d'oro gli tintinnarono sul polso.
Esme assentì pensierosa e finse un rumoroso colpo di tosse.
D'altra parte, se davvero Vadoma e Sen stavano parlando di Leandro come aveva ragione di credere, era bene che sapessero di non essere sole.
Le voci che avevano continuato a borbottare fino a quel momento si zittirono. Bingo.
La ragazza strinse gli occhi, fissando il luna park così da far intendere di star effettivamente cercando il tiro a segno.
"Ti ci accompagno io" le annunciò perentorio Leandro prima di infilarsi una sigaretta fra le labbra. Non aveva il tono di una gentile proposta, bensì di un insindacabile ordine. La ragazza forzò un sorriso di fasulla gratitudine.
Si incamminarono l'uno di fianco all'altro in silenzio, rigettandosi nel tumulto caotico e lampeggiante.
Esme procedeva stringendo i pugni con forza. Le unghie le premevano acuminate nei palmi sudati.
Cosa nascondeva Leandro? Non poteva essere un caso che l'avesse allontanata così bruscamente. Sperò che non avesse captato il discorso delle due donne.
Passarono accanto al Bruco Mela.
I bambini alzavano le braccia annoiati a ogni inibita discesa.
Cosa ci facevano di preciso in quel posto? Forse era ora di pensarci seriamente.
Degli improvvisi schiamazzi la distolsero dai suoi preoccupati pensieri.
Erano arrivati al tiro a segno.
"Madre di Dio, cosa sta succedendo?" esclamò a quel punto Leandro ad occhi sbarrati, gettando a terra il mozzicone di sigaretta ancora acceso.
Il bancone a malapena si vedeva tante erano le persone affollategli intorno. L'agglomerato di gente era percorso da sotterranei borbottii a tratti indignati, a tratti eccitati.
Esme e Leandro si fecero strada a suon di spintoni e "permesso" fra bambini e adulti equivalentemente rumorosi e trepidanti. Raggiunsero il baracchino.
"Oh! Ciao, Esme!" proruppe una vivace Samantha da dietro il bancone.
Esme la guardò sorpresa: la ragazza se ne stava perfettamente a suo agio in mezzo a dozzine di pupazzi, le luci al led che le illuminavano il volto accaldato e sorridente.
"Per lei e sua figlia, signora, quattro euro" stava dicendo rivolta a una donna in canottiera indaco e i capelli a spazzola. Samantha tese il palmo per ricevere le monetine.
"Per voi invece..." storse la bocca in un'espressione pensierosa, "...facciamo otto". Una seconda donna con uno spelacchiato golfino grigio iniziò a borbottare delle lamentele, mentre suo figlio ripeteva con voce stridula "voglio giocare, mamma", indicando insistentemente le pistole.
"Mi vuoi spiegare cosa sta succedendo?" intervenne Leandro, appoggiando le mani sul bancone e sporgendosi inebetito verso la ragazza. Qualcuno urto Esme da dietro, qualcuno di parecchio sudato.
Samantha guardò candidamente Leandro:" Oh nulla, è tutto sotto controllo come puoi vede..." La sua attenzione si spostò su un uomo dal viso paffuto e i capelli ramati che si era appena avvicinato: "Per lei, signore, sono due euro".
Esme, schiacciata fra la folla e il bancone duro, temeva di iniziare a capire quello che stava avvenendo.
Alle sue spalle la gente inveiva e scuoteva le braccia come fosse al mercato del pesce.
Una bambina dal labbro leporino e le trecce bionde esplose in un pianto assordante perché non aveva colpito nemmeno una lattina. Le frequenze che raggiungeva erano così acute che poco ci mancava diventassero ultrasuoni.
Esme non aveva idea di come fosse e se ci fosse un inferno, ma se lo immaginava più o meno in quel modo.
"Non è così che dovrebbe funzionare" stava dicendo Leandro, ormai costretto a gridare per farsi sentire, "Con che diavolo di criterio stai stabilendo i prezzi?".
Samantha lo fissò quasi offesa da quella domanda che sembrò apparirle molto sciocca.
Dopodiché, si strinse nelle spalle come se la risposta fosse scontata:"Be', nessuno mi ha detto il costo e quindi io faccio pagare poco la gente simpatica e tanto chi mi sta antipatico".
Leandro sbiancò e parve sul punto di avere un mancamento.
Esme fissò prima Samantha, pimpante e appagata nel suo piccolo regno di peluche, e poi Leandro, terreo ed esterrefatto.
E no, non poté fare a meno di scoppiare in una fragorosa risata.
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