1: L'inizio dell'Inferno e del Paradiso
Ero una bambina. Soltanto una bambina di tre anni, eppure ricordo ogni cosa in modo talmente nitido che a volte mi fa male. Anzi, non a volte. È un dolore costante.
Io e i miei eravamo andati al Mare, era una bellissima giornata, almeno finché il cielo non fu coperto da una coltre di nubi.
In quel momento ebbi paura. Paura di perdere tutto.
Stringevo forte le mani dei miei genitori, le stringevo come ancore di salvezza, poi la mano di mia madre fu brutalmente strappata dalla mia stretta e l'autrice della nostra separazione definitiva fu un'onda, più alta e forte di tutte le altre.
"NO, MAMMA!" gridai con tutto il fiato che avevo in gola, allungando il braccio verso di lei per afferrarla, ma i miei tentativi si dimostrarono del tutto vani.
La vidi sparire tra i flutti ed i miei occhi si colmarono di lacrime. Lacrime di una bambina che nonostante la sua tenera età aveva capito tutto. Lacrime di una bambina che sapeva di aver perso per sempre la mamma.
"Amore mio!" mi disse mio padre tirandomi fuori dall'acqua il più in fretta possibile. "Non voglio perdere anche te, amore, non voglio!" E mentre piangeva e parlava mi stringeva al suo petto come se io fossi il più prezioso dei gioielli, il più delicato dei cristalli. Lui mi voleva bene, nonostante fosse stata colpa mia se ora la mamma non c'era più. Sì, colpa mia, perché io avevo il desiderio di andare al Mare.
"Scusa papà!" dissi piangendo.
"No, amore mio! Tu non hai colpa, non lo sapevi, non lo potevi sapere! Papà ti vuole bene, piccola!"
Ci allontanammo da lì, ma dopo neanche cinque minuti arrivarono gli assistenti sociali, e dato che il mio costume era stracciato a causa delle onde loro credettero che lui mi avesse fatto del male, falsità resa veritiera dal fatto che piangevo... come una disperata.
Mi portarono via subito e mi mandarono in un collegio. Beh, chiamarlo collegio sarebbe un complimento!
Struttura piena di lacrime, di grida di bambini e ragazzi, di colpi di mano e di arnesi fatti per maltrattare gli altri, con la scusa del dare l'esempio per una cosa o insegnare a qualcuno a non farne un'altra. Colpi che tormentano la mia mente anche adesso, nonostante il tempo trascorso.
I miei incubi furono interrotti dalla voce gentile di Miss Mary, l'unica adulta a salvarsi da quello squallore fatto di esseri umani che provano piacere nel torturarne altre.
"Diana, Diana, svegliati!" disse dolcemente scuotendomi per un braccio e spostando i miei capelli ricci dalla mia fronte imperlata di sudore a causa dell'agitazione.
"Miss Mary..."
Sentii la sua mano fresca sfiorare il mio viso. Il mio corpo s'infiammava ogni notte, puntualmente, a causa degli incubi.
"Hai fatto di nuovo lo stesso sogno, vero?" mi chiese con voce preoccupata.
"Sì, Miss Mary." risposi.
Mi ero abituata a non annuire dato che un cenno d'assenso in quel posto non era considerato una risposta, bensì un motivo valido per un ceffone.
""Ascoltami bene Diana Gonzales, qui ti conviene essere molto, molto obbediente o ne pagherai le conseguenze!"
Lo sguardo della direttrice era truce, i suoi occhi sembravano in attesa di un mio passo falso. E io, che ero nel mondo da poco, non avrei potuto immaginare quali meccanismi malvagi componessero ogni parte della sua mente. Non dissi nulla, ero terrorizzata dalle parole che aveva detto.
"MI HAI SENTITA?" urlò sbattendo quello che credo fosse un frustino sulla sua scrivania.
Annuii semplicemente, troppo spaventata per parlare, sia dal suo urlo che dal rumore provocato da quell'aggeggio. Uno schiaffo mi segnò il viso e mi fece cadere a terra. Ero una bambina minuta, quindi bastò lo schiaffo a gettarmi per terra.
"QUANDO TI FACCIO UNA DOMANDA PRETENDO CHE TU MI RISPONDA CON LE PAROLE E NON CON UN CENNO DELLA TESTA! TU HAI LA BOCCA PER PARLARE, FUNZIONANTE PER DI PIÙ, QUINDI USALA, MA NON PER FARE L'IMPERTINENTE! È CHIARO?"
"Sì..." sussurrai tra le lacrime. "S-sì s-si-signora... direttrice"..."
"Diana, tesoro, non restare lì impalata!" disse Miss Mary.
Mi affrettai a dirigermi verso il bagno, lavando a dovere il mio corpo, colpito anche il giorno prima da uno di quegli arnesi e da quelle mani. Mi sentivo sporca quando mi capitava, come se mi avessero strofinato della melma addosso. L'acqua, però, era un toccasana per me. Miss Mary mi chiamava prima del tempo previsto apposta per darmi tutto il tempo di prepararmi psicologicamente alla giornata che mi aspettava.
Passai un bel po' di tempo nella vasca, poi uscii, mi asciugai e corsi a vestirmi. Una volta pronta scesi di sotto insieme a Miss Mary.
"Diana, oggi arriverà un ragazzo nuovo." disse Miss Mary.
Da una parte speravo di cuore che lui fosse uno degli "eletti", gli Intoccabili, ma al contempo mi auguravo che non fosse un presuntuoso come la maggioranza dei componenti di quell'elite: erano loro che, il più delle volte, mi mettevano nei guai. Non che ci volesse moläo, in quel collegio, per finire nei guai!
Stavo andando nella sala per la colazione quando due ragazzi mi gettarono a terra.
"Ehi, stupida!" disse Santiago, un ragazzo tanto bello quanto crudele, uguale al suo amico.
"Ma tu guarda!"
Quello era l'altro: Romano.
Entrambi facevano parte dell'elite degli Intoccabili, quindi a loro tutto, ma proprio tutto, era concesso.
"Che... che cosa volete da me?" balbettai.
"Vogliamo giocare un po'."
"V-vi supplico, la-lasciatemi."
"Tu non sei nessuno, quindi è inutile che ci supplichi!" mi schernì Romano.
Mi sollevarono di peso da terra e sentii delle unghie graffiarmi proprio in viso.
Pochi attimi dopo mi arrivò uno schiaffo, poi un altro e un altro ancora!
"LASCIATELA!" sentii qualcuno gridare.
I due mi gettarono brutalmente per terra e sentii la testa dolente come mai prima.
Il ragazzo che mi aveva aiutata s'inginocchiò accanto a me e sentii il suo sguardo sul mio viso.
"Ti fa molto male?" mi chiese con dolcezza, sfiorandomi una guancia.
"Io... io..." balbettai.
Lui continuò ad accarezzarmi il viso, cosa che nessuno, esclusa Miss Mary, aveva mai fatto.
"Va meglio?" mi chiese.
Annuii, poi ricordai lo schiaffo della direttrice e risposi: "Sì, va molto meglio."
"Sei sicura? Sembri nervosa" disse lui, sempre con dolcezza.
"N-non è nulla" balbettai.
Lui mi aiutò ad alzarmi e pulirmi, poi controllò le mie ferite e disse: "Poverina... chissà quante volte ti è successo!"
"N-non importa" balbettai. "Ti ringrazio."
"Figurati! Io non sopporto la violenza, mi fa una rabbia!" disse il ragazzo tendendomi la mano per aiutarmi ad alzarmi.
"Beh... allora sei capitato nel posto peggiore" dissi con un velo di tristezza nella voce.
"Cosa? Perché? Cosa fanno qui dentro?" chiese allarmato.
"N-no, scusami, non fanno nulla di particolare."
Ricordai che la direttrice diceva sempre ai ragazzi che non dovevano parlare di nulla di quello che accadeva tra le mura di quel collegio. Quella era la sola regola che valeva anche per gli Intoccabili.
Lui mi appoggiò delicatamente un braccio sulla schiena, ma io mi scossi per il dolore.
"Che cos'hai?" chiese ritraendo il braccio come se si fosse appena scottato.
"Niente, io..."
Lui non dovette credere ad una sola parola di quello che dicevo, infatti sollevò un po' la mia maglietta e sentii il suo sguardo sulla mia schiena.
"Cosa sono queste ferite? Chi è stato?" mi chiese. "E non te le haono nemmeno medicate! Può essere pericoloso!" Il suo tono era più che alterato e per un attimo mi mise paura.
Infatti quei mostri agivano sempre così: venivano, ti prendevano, ti colpivano fino allo sfinimento, ti cacciavano e non si prendevano la briga di medicarti le ferite che loro stessi ti avevano inferto.
Ebbi quasi paura che anche lui mi colpisse, non ne potevo davvero più delle botte.
"Non ti farò alcun male!" mi disse, capendo evidentemente cosa pensavo.
"DIANA GONZALES!" mi chiamò Miss Vanessa. "SEI IN RITARDO, MUOVITI!"
"M-mi per-do-ni Miss Vanessa" balbettai, presa dal terrore.
"Signorina, non se la prenda con lei, è stata colpa mia! Io l'ho trattenuta" disse il ragazzo nuovo.
"Lei è?" chiese Miss Vanessa, assumendo un atteggiamento del tutto differente da quello di pochi istanti prima.
Non c'era dubbio: lui era uno degli Intoccabili.
"Daniél Fernandez" rispose lui.
"Ah, ho capito. Prego, mi segua, le mostro la sala adibita alla colazione" disse Miss Vanessa.
Lui era gentile come persona, ne ero convinta, ma Miss Vanessa forse faceva buon viso a cattivo gioco "o magari potrei togliere questo forse."
Io me ne andai in quella specie di sala correndo, presi un bicchiere di latte e attesi la fine della colazione.
"Non mangi niente?" domandò Miss Felicita che, detto tra noi, di felice non aveva nulla.
"N-non ho molto appetito" balbettai, dicendolo più a me stessa che a lei.
Mi accorsi che mi stava arrivando uno schiaffo, ma non mi mossi. Ne avevo prese così tante che quasi non sentivo più dolore. La cosa strana è che non arrivò alcuno schiaffo e quando alzai lo sguardo notai che il ragazzo nuovo guardava la scena con un'espressione di rabbia dipinta sul volto. Si avvicinò a me, mi sollevò il viso e mi guardò con molta dolcezza.
"Diana, giusto?" chiese.
"Sì, mi chiamo Diana." risposi con un sorriso.
Forse quello era il primo sorriso sincero della mia vita dopo tredici anni fatti solo di tristezza e rassegnazione.
RASSEGNAZIONE.
La parola che più detestavo, quella che mi era venuta in odio dal primo giorno in cui ero entrata in quell'inferno... eppure l'unica.
L'unica parola che poteva salvare me e gli altri Anonimi.
Ebbene sì, lì dentro c'erano due classi sociali: gli Anonimi, come me, ai quali si poteva imporre qualunque castigo, loro non avevano diritto di replica e la loro condizione era come quella degli schiavi, e la classe degli Intoccabili: la classe superiore, quelli che non dovevano essere neanche sfiorati dagli "educatori", quelli che potevano fare di noi quello che diavolo gli pareva, e molti di loro erano delle bestie, peggio di quelli che lavoravano al collegio. Io ero abituata ai castighi che infliggevano agli Anonimi, ma non per questo mi erano indifferenti. Tutt'altro: non provavo che rabbia verso gli insegnanti e la direttrice. A volte pensavo che se avessi potuto farlo li avrei denunciati uno ad uno e li avrei molto più volentieri messi alla prova con la legge del Contrappasso di cui parla Dante nella Divina Commedia. Ma no, non potevo pensare cose del genere, sarebbe stata soltanto una cattiveria e io non avevo la benché minima intenzione di diventare come loro!
"Ehi!" Mi sentii scuotere delicatamente per una spalla e voltandomi vidi il mio salvatore. "Diana, dobbiamo andare!"
Annuii e lui mi prese per mano, conducendomi verso la fila che mi aveva lasciata indietro.
"È già la terza volta in una giornata che mi salvi la faccia" dissi ridendo.
Lui mi cinse le spalle con un braccio e disse: "Se posso proteggerti così ti terrò vicina tutti i giorni, vedrai! Adesso andiamo, però!"
Arrivammo in classe in perfetto orario, sistemammo ai nostri posti.
La prima ad entrare fu proprio Miss Mary, che insegnava musica e ci trattava con una dolcezza e una tenerezza che in quel posto non si sarebbero mai potute immaginare. Lo faceva soprattutto con me, perché sapeva che gli educatori non mi ritenevano il fiore all'occhiello del collegio e trovavano scuse per punirmi quasi costantemente... beh, lei sì che mi voleva bene!
Miss Mary era la madre che avevo perso da bambina: dolce e buona come lei, e il più delle volte mi difendeva, anche se non sempre i risultati erano quelli sperati.
Quella fu l'unica lezione durante la quale tirai un sospiro di sollievo.
Durante la seconda ora, però, arrivò l'insegnante di arte, che era una delle più severe.
Infatti dopo neanche cinque minuti uno dei miei compagni, Juan, fece involontariamente cadere un barattolo di pittura e il contenuto si riversò interamente sul pavimento, imbrattandolo di rosso. Avendo visto molte volte il sangue colare dai corpi dei miei compagni, colpiti fino allo stremo delle forze, rabbrividii alla vista del rosso sul pavimento.
"IDIOTA!" urlò la professoressa. "ALZATI, SVELTO!"
Juan si alzò con le gambe che gli tremavano, ma leggermente. Lui era sempre stato contrario a quei metodi che più che rigidi sembravano fatti apposta per torturarci... anzi, non sembrava: era così!
"Avanti, faccia quello che deve fare, vecchia arpia!" disse, ricevendo in cambio un sonoro ceffone.
"Molto bene! Sali sulla panca, allora! La razione di legno per te sarà raddoppiata!" lo minacciò.
Vidi l'oggetto che tormentava i miei sogni tra le sue mani e un brivido percorse la mia schiena.
Juan non si avvicinò nemmeno alla panca, piuttosto la colpì con un calcio, facendosi male ma ottenendo in compenso che quella si rovesciasse.
"Perfetto!" gli disse la professoressa. "Razione triplicata!"
Vidi un sorriso diabolico sul suo volto e rabbrividii nuovamente, cercando di trattenere le lacrime.
"P-prof-professoressa... scusi, se mi permette, i-io... vorrei dirle... che..."
La mia voce tremava mentre parlavo.
"Avanti, parla!"
"L-lui... Juan non ha... non ha rovesciato di proposito... il barattolo di pittura, non..."
"Ah, quindi tu lo stai difendendo! Vuoi finire come lui, Diana?"
"Nessuno finirà come nessuno!" scattò Daniél Fernandez, il nostro nuovo compagno. "Le sembra il caso di trattare in questo modo un ragazzo perché ha rovesciato un barattolo di vernice o una ragazza perché ha semplicemente tentato di difenderlo?" Si diresse verso la cattedra togliendole di mano l'oggetto e sorpassò Juan, dirigendosi verso la finestra. Lo vidi cercare un punto in cui non passava nessuno per evitare incidenti, poi lasciò cadere l'arnese.
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