La stanza vuota
La verità è che finalmente avevo l'occasione di andare a dormire a un'ora decente per svegliarmi, di conseguenza, a un'ora decente, e invece improvvisamente ho sentito il bisogno di vomitare.
Non è un bisogno che ho sentito stasera per la prima volta dopo tanto tempo, mi sembrano mesi che ho bisogno di vomitare, e ci sono momenti in cui penso costantemente a quello. Certo, metaforicamente.
É un pensiero fisso. A volte non riesco a pensare ad altro. A volte sto così male che penso a come vomitare fuori tutto, come tirare fuori tutto quello che implode dentro di me.
Come ora, che mi sono seduta e sono rimasta in silenzio, ferma, e sentivo solo la sensazione del mio respiro, non il suo rumore, la sensazione di respirare. Nella mia testa c'erano fiumi di parole, totalmente casuali, e poi fuori respiravo.
E in quel momento avevo gli occhi lucidi e io ero incredibilmente lucida. Con lo sguardo fisso alla parete, ai lati un indistinto riflesso delle polaroid appese al soffitto, che pendono e si muovono, anche se nessuno le ha toccate o guardate. Ma l'aria comunque c'è, e io sto respirando.
Mi sono sentita di nuovo vuota, ma non come se qualcuno mi avesse sgonfiato, semplicemente come se avessi tolto il mio velo di Maya e avessi scoperto che sotto non c'è nulla, o meglio, c'è il nulla.
Come sempre quel velo si toglie senza dire niente a nessuno, senza avvisare, non risponde alle richieste altrui figuriamoci soddisfarle. A volte si entra in una stanza senza rendersi conto di come si è aperta la porta, se è stata usata una chiave e, in caso, quale.
Allo stesso modo io vengo catapultata nel mio vuoto perché sono entrata in quella stanza, è successo qualcosa, c'è stata una chiave, che mi ha buttata in quella stanza. In quella stanza vuota.
Ma quando si è vuoti non si può vomitare, forse si può sentirne il bisogno. Non si può fare niente, nemmeno piangere.
Si rimane in quella stanza vuota, nella quale non si sa come si è entrati e dalla quale non si sa come uscirne.
Se davvero è un velo di Maya quello che nasconde la stanza, allora non c'è nessuna uscita ma solo un'attesa, un'attesa che quel velo torni a coprire la stanza colmandone il suo vuoto.
E funziona davvero così: si attende. Si aspetta che passi.
Il limbo tra i due mondi è il pianto. Mi sembra di essere rimasta bloccata sulla soglia di quella porta, di aver visto quel velo sopra di me, per giorni, per mesi. Continuamente in un ciclo eterno fatto di sonno e coscienza. Fuori, dentro.
Non so cosa sia peggio, forse per una volta è peggio stare nel mezzo, soprattutto quando la condizione di limbo perdura e non mostra data di scadenza.
Ma in questo momento non sono sulla soglia, sono dentro. Quando sono dentro alla stanza i pensieri perdono le parole, i rumori perdono il suono, la vista perde significato e le immagini diventano opere surrealiste. Il tatto, che fa da ancora tra l'uomo e il suo mondo, non esiste più; perché ogni tipo di contatto viene perso.
Ogni certezza, nella stanza, viene a meno. Si è consci solo di due cose: del vuoto e di star pensando, ma senza parole.
Quando sono nella stanza penso a ciò che quella stanza mi sta togliendo, ciò che ha fatto sì che io mi trovassi lì: la perdita di contatto. Con qualsiasi cosa ci fosse intorno a me.
Quando sono nella stanza so che voglio uscirne e, proprio come farei in un sogno, cerco di svegliarmi (paradossalmente di riaddormentarmi).
Da soli non si può trovare un tipo di contatto che possa considerarsi "piacevole". Non si fa nemmeno una selezione del tipo di contatto che si vuole. Perché in quel momento l'importante è trovarne uno che ci faccia uscire dalla stanza, non importa di che tipo sia.
E allora i miei pensieri, disarmati delle parole, si concentrano su quell'unico tipo di contatto che mi sembra in grado di riportarmi fuori, forse senza successo.
È vago.
Forse si capisce troppo bene, forse non si è capito niente. Forse è meglio se si pensa di aver capito qualcosa ma non se ne ha la certezza, perché di solito in quelle situazioni si vede il proprio riflesso e le parole diventano uno specchio d'acqua utile a sé stessi.
Sicuramente diventa un testo versatile, ed è meglio così. Non si dovrebbe mai esporre tutto troppo chiaramente, si dovrebbe dare uno specchio d'acqua che sia in grado di riflettere qualche particolare di sé stessi. E se i testi possono essere diversi tra loro è perché tutti offrono un punto di vista diverso.
E se non combaciano le immagini è meglio, anzi, è giusto. Non devono mai combaciare, mai essere uguali, altrimenti non si tratta più di uno specchio d'acqua ma di un normale specchio.
Uno specchio d'acqua non mostra mai lo stesso riflesso, ma cambia, continuamente. La vita è un continuo movimento di cui ne contempliamo l'eternità. Uno specchio non è che un istante di qualcosa la cui essenza è una serie divergente di elementi, non ha alcun valore.
Nella stanza vuota mi perdo e faccio finta di uscirne.
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