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2 - l'imputato

Mentre superava la cornice del camino, avvertì sulle spalle gli sguardi di tutti.
Non era mai stato facile essere se stesso, ma dopo la fine della guerra lo era diventato ancora meno.
Era l'ambiguità a fare la differenza.
Si era sentito etichettare come uomo nero dapprima, poi come mangiamorte, come assassino, come traditore, ed in fine come eroe.
Solo che sull'ultima versione non tutti si trovavano d'accordo.
O meglio, non che non fossero d'accordo sull'attribuirgli un cuore, ma era arrivato a capire che il vero problema stava nella mimetizzazione.
E lui, come eroe, era stato davvero irriconoscibile.
Così come per altro continuava ad esserlo.
All'inizio erano solo voci, poi erano diventate chiacchiere, ed in ultimo articoli di giornale.

"Chi è veramente Severus Piton? Spia eroica o solo ex mangiamorte troppo impaurito per continuare a servire il male?"

Lui non aveva mai dato peso agli sguardi, se lo avesse fatto sarebbe imploso molto tempo prima, addirittura durante l'infanzia.
Non sarebbe sopravvissuto alla sua stessa esistenza.
Ma alle rotture di coglioni dava peso, a quelle sì, lo dava eccome.
E la citazione in giudizio poteva tranquillamente annoverarsi tra le più grandi rotture di coglioni che potessero capitargli.
Perché lui, l'imputato, lo sapeva fare.
E lo sapeva fare anche bene.
Ma era abituato a risolverla con qualche cruciatus inflitta da un pazzo criminale, con una perversa dimostrazione di fedeltà e con una quantità incalcolabile di macchie in più sulla coscienza.
Non era pronto a dover giustificare a parole le sue azioni.
Per il semplice fatto che forse non esistevano parole in grado di descrivere in quanti minuscoli pezzi può venire disintegrata un'anima, quando ci si trova a dover uccidere un innocente solo per salvaguardare una causa giusta.
Già, perché forse lui ci era sempre stato immerso fino al collo, nel giusto, ma era e restava un assassino.
E questo nessuna assoluzione avrebbe mai potuto scrostarglielo di dosso.
Perché continuava ad essere la sua stessa coscienza il tribunale più difficile da cui dover scappare.
E così si era ritrovato quella mattina, avvolto nelle sue solite vesti nere che non facevano che allontanare il resto del mondo, ogni volta un po' di più, a percorrere con lo sguardo carico di fiamme gelate il corridoio di un ministero che sembrava non avere niente di meglio da fare che osservare il suo passaggio.
Aveva raggiunto gli ascensori con passo sicuro, incurante dei brusii e delle occhiate cariche di curiosità e di sospetto, aveva schiacciato con stizza qualche tasto e si era ritrovato solo come un cane davanti alla porta dell'aula stracolma di uomini e donne impettiti del Wizengamot, pronti a giudicarlo per i suoi crimini di guerra.
Se lo avessero spedito in prigione, a marcire in una cella di Azkaban, forse sarebbe riuscito finalmente a far pace con la sua coscienza.
Forse avrebbe finalmente potuto chiedere perdono in silenzio, senza doversi per forza travestire da uomo senza cuore.
Forse quella citazione in giudizio non era poi così negativa come se l'era figurata.
Forse aveva un senso, uno scopo.

- "Allora è pronto, professore?"

Chiuse gli occhi per un istante, maledicendo il momento in cui si era illuso di poter affrontare i suoi fantasmi in pace, una volta per tutte.

- "Vattene Granger! Nei sette anni in cui mi hai girato intorno non hai imparato a comprendere che un mio "no" si porta dietro tutto il suo significato più letterale?"

Si sforzò di aprire le palpebre, ricacciando indietro quel principio di umanità che aveva cominciato a farglisi strada nel petto, accarezzato dall'idea di poter finalmente essere punito per i suoi crimini.
Scoccò ad Hermione un'occhiata carica di fiamme gelate, le stesse fiamme che aveva passato la vita ad alimentare, a rendere infallibili.
La osservò indietreggiare di un passo, abbassare la testa verso un pavimento di piastrelle color smeraldo che riflettevano l'immobilita irreale delle fiaccole, poi fare un respiro profondo, gonfiando il petto sottile coperto da una camicia di seta.

- "Sì, e ho anche imparato a fregarmene.
Di lei, e anche della sua cattiveria forzata..."

Avvertì una traccia di tensione attraversare la voce di quell'insopportabile ragazzina, insieme ad un desiderio ferreo di non lasciarla intuire.
La porta si spalancò in quel momento, privandolo del sottile e vellutato piacere che gli avrebbe generato l'ennesima battuta sarcastica, e cogliendolo così, frastornato da una realtà che lentamente stava cominciando ad assumere contorni più tangibili, impreparato a confessare quelli che erano stati i diciotto anni più contestabili della sua vita.
L'aula di un tribunale magico dall'aria sinistra era gremita di figure lugubri, infilate a forza in tuniche dai colori cupi, volte a generare un sordido terrore in chiunque avesse dovuto affrontare quell'inquisizione solenne.
In chiunque, tranne che in lui, che era stato abituato a ben altro e che, adesso, annoverava poche cose al mondo che ancora potessero fargli paura.
Perché, a pensarci bene, gli era impossibile scappare dall'unica cosa che continuava a fargliene davvero, paura.
Il chiudere le palpebre.
Abbandonarsi all'oscurità, lasciando che un passato scandito da volti senza nome gli puntasse il dito contro, in un'accusa da cui non sarebbe mai più stato in grado di scappare.
Pensava questo, Severus Piton, mentre con un passo deciso superava la porta di rovere spessa due palmi di un tribunale nascosto nelle viscere del mondo.
Pensava questo, mentre con gli ultimi brandelli di un orgoglio andato in fumo molti anni prima, cercava di alzare la testa e di guardare negli occhi i rappresentanti di una legge impreparata ad affrontare il racconto della sua vita.
E pensava questo anche quando, con la coda dell'occhio, vide la Granger sistemarglisi in piedi di fianco, e rispondere per lui alla domanda che una vecchia strega dal volto incartapecorito gli stava rivolgendo.

- "Professor Piton, vedo dalle sulle sue carte che aveva espresso il desiderio di difendersi da solo...
La signorina accanto a lei...?"

- "Sono Hermione Granger, ma questo voi già lo sapete.
Il professore ha cambiato idea, sarò io a gestire la sua difesa di fronte a questa Corte!"

Un moto di rabbia omicida gli si impossessò delle dita, in un formicolio che gli importunò fino all'ultimo centimetro delle braccia, tese in uno sforzo quasi insopportabile nel tentativo di non estrarre la bacchetta e puntargliela alla gola.
Se avesse potuto farlo, avrebbe urlato a quell'insopportabile ragazzina saccente di prendere la sua maledetta ventiquattr'ore di pelle e di andarsi a nascondere nel posto più remoto della terra, così che gli fosse stato impossibile trovarla e maledirla con tutte le parole taglienti che in quel momento gli ronzavano nella testa ad un ritmo che quasi gli fece venire la nausea.
Ma se c'era una cosa, una soltanto, che lo mandava in bestia più ancora di quella ragazzina, era l'idea di fare la figura dell'imbecille incapace di scrollarsela di dosso, di fronte a un branco di vecchi pomposi venuti da mezza Inghilterra apposta per giudicarlo.
Trangugiò a stento una saliva che gli parve fatta di acido muriatico, prima di concedersi una delle sue migliori interpretazioni e di fingersi accondiscendente verso il giovane avvocato pieno di sogni e brillanti progetti che gli stava ben piantata accanto.
Un sorriso appena accennato uscì dalle sue labbra, seguito da un fulmineo cenno del capo, che sanciva il permesso di cominciare ad affrontare il suo incubo.
Una rapida occhiata dei presenti, un fruscio indistinto di carte, e poi eccola, la domanda che temeva ormai da quasi tutta la vita.
Una delle poche a cui non era mai riuscito a dare una risposta.
Molto semplicemente perché non aveva mai trovato la forza per affrontarla.

- "Allora, professore...lei quanti uomini ha ucciso...?"

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