41. La Verità
Sebastiano guidava sotto le indicazioni di Léon.
Era perplesso, il biondo poteva vederlo dal modo in cui lo guardava ogni volta che gli diceva di svoltare a destra o a sinistra.
In effetti avrebbe fatto prima a dirgli di proseguire per casa sua e avvertirlo che avrebbe dovuto svoltare nella via che faceva angolo con quella della sua abitazione; tuttavia, in quel momento, quella per lui non era la strada che avrebbe potuto portarli a casa.
Quello era semplicemente il percorso che gli avrebbe mostrato la parte del suo passato che considerava più dolorosa.
Il cielo era tornato sereno e, nonostante fossero solo a metà febbraio, fuori non era troppo freddo.
Bene, pensò Léon, così oggi la porteranno a fare una passeggiata all'aria aperta.
Seba svoltò nella strada indicatagli dal biondo, che ricevette un'altra occhiata stranita dal più piccolo.
Era una viuzza interna, il cartello all'inizio avvisava che non ci fosse nient'altro al suo termine.
Lisa avrebbe dovuto fare un'altra segnalazione al comune per chiedere di asfaltarla... Ogni volta che Léon la percorreva, gli sembrava di fare delle piccole montagne russe.
L'imponente cancello in ferro battuto iniziò a intravedersi dopo l'ennesima curva, e con esso anche tutta la recinzione in muratura.
«Cos'è? Un'abitazione privata?» chiese Sebastiano.
«Sì.»
«E chi ci abita?»
«Tra poco lo scoprirai.»
Continuarono in silenzio e quando arrivarono davanti all'entrata Léon aprì il finestrino, mostrando alla telecamera di sicurezza il suo volto, il lasciapassare per potersi addentrare in quella proprietà.
Il viale alberato era curato come sempre, ma il francese non ci fece più di tanto caso; d'altronde pagavano fior di soldi per poter mantenere tutto in ordine.
«Ecco, fermati qui» disse quando arrivarono nello spiazzo di fronte alla villa.
Scese dall'auto, Sebastiano lo seguì in silenzio mentre si addentrava nell'enorme giardino sul retro.
Ed eccola lì, la splendida donna che aveva il suo stesso sangue nelle vene.
I lunghi capelli erano sciolti e liberi di svolazzare col vento che li accarezzava, proprio come faceva lui da bambino, quando ancora era tutto normale.
Andò a sedersi su una delle panchine del giardino, e con lo sguardo invitò Seba a fare lo stesso.
Lei passeggiava tranquilla insieme ad una delle infermiere, la testa puntata al cielo e lo sguardo perso di una bambina.
Il sorriso sulle labbra era sempre lo stesso, erano gli occhi ad essere diversi.
Non c'era più quella luce di un tempo... Ora sembravano vacui, vuoti.
La sua mamma era come uno di quei bellissimi vasi orientali: perfettamente decorata fuori, ma vuota dentro.
Si girò appena verso Seba e lo vide con le sopracciglia leggermente aggrottate per la confusione.
Bene, era arrivato il momento di parlare, dunque.
Stava per farlo, ma la mano del più piccolo sulla sua lo sorprese così tanto, che le parole gli morirono in bocca ancora una volta.
«Non c'è bisogno che... Insomma, se vuoi possiamo andare via.»
Ma come faceva Sebastiano a capirlo così? Questa cosa lo spaventava a morte. Ogni volta se ne usciva fuori con una di quelle frasi che sembravano averlo letto dentro, come se Léon non fosse altro che un libro alla sua mercé, pronto per essere sfogliato da lui ogni volta che voleva.
Fece un respiro profondo e riportò gli occhi su sua madre.
Non si poteva tornare indietro, non più.
«È mia mamma» disse soltanto.
La voce gli era uscita un po' più strozzata di quanto volesse. Si era ripetuto, in macchina, che avrebbe dovuto trattenersi, parlare di tutto come se fosse una cosa che non aveva più il minimo impatto sulla sua vita, ma si rendeva conto in quel momento che non era proprio una cosa fattibile.
Specialmente con Sebastiano.
Il castano non disse nulla, si limitò a intrecciare le dita alle sue, mentre col pollice disegnava chissà cosa sulla sua pelle, probabilmente con l'intento di calmarlo, di dargli quel briciolo di coraggio che gli serviva per continuare.
«Mio padre è morto tanto tempo fa, io avevo solo quattro anni. Me lo ricordo benissimo, però. Ho in testa tutte le volte che mi ha portato a giocare al parco, o quando mi veniva a prendere all'asilo. Oppure quando la domenica andavamo a fare i picnic in giro per le campagne... Era un papà fantastico.»
La presa di Sebastiano si strinse un po' di più attorno alla sua mano e, dopo un altro respiro, Léon continuò a raccontare un po' del suo dolore.
«Pensa che era venuto in Italia per fare una vacanza coi suoi amici... Poi ha incontrato mia mamma e ha deciso di portarsela in Francia, perché aveva capito che era la donna della sua vita. Quando è morto, mamma è stata davvero male. Io me li ricordo quando litigavano, ma quasi sempre duravano cinque minuti e poi scoppiavano a ridere. È stato un grande amore, anche se lei ha dovuto combattere molto contro la famiglia nella quale era entrata.»
«Perché?»
Léon sorrise al pensiero di quei due vecchi malfidati dei suoi nonni paterni. Se solo avessero dato una minima chance a sua madre, non avrebbero di certo osato nemmeno pensare certe cattiverie.
«Perché mio padre era ricchissimo, e loro erano convinti che mia mamma fosse una sorta di arrampicatrice sociale che puntava solo ai soldi e a fare la bella vita. Figurati che, invece, ha smesso di lavorare solo quando era incinta di ormai otto mesi, e ha ricominciato poco dopo aver avuto me.»
«Che lavoro faceva?»
«Suonava in un'orchestra sinfonica.»
«Violinista?»
«Violinista» confermò Léon, accennando un breve sorriso prima di riprendere, «Comunque devo dire che se l'è cavata davvero bene come mamma single... Non mi ha mai fatto mancare niente e, anche se papà ci aveva lasciato un mucchio di soldi, lei ha sempre fatto i conti con quello che era il suo stipendio. Era una specie di roccia, lei.»
Un'altra piccola stretta, un altro piccolo incentivo a proseguire, mentre Seba, in silenzio, accoglieva tutto il dolore che la sua voce tirava fuori, ricordo dopo ricordo.
«Più o meno verso gli otto anni ho iniziato a vederla anche come donna, non solo come mamma. Avevo in classe alcuni compagni con genitori divorziati e risposati, e tutto sommato felici, così ho iniziato a farle capire che per me poteva iniziare a uscire ogni tanto, a conoscere persone nuove... Insomma, non avrei avuto niente in contrario se avesse incontrato un altro uomo.»
Un altro uomo, sì. Qualcuno che le facesse tornare a brillare gli occhi, qualcuno che si prendesse cura anche di lui.
«E così ha fatto... Era giovane e bellissima, sapevo che non avrebbe faticato a trovare un compagno. Dopo qualche mese mi ha fatto conoscere Antoine, ma io sapevo già che stava uscendo con qualcuno. Aveva ricominciato a truccarsi, a curare i capelli e a vestirsi elegante. E sorrideva, sorrideva spesso.»
Anche Sebastiano sorrise, ignaro di come sarebbe proseguita quella storia.
«Antoine è stato un secondo papà meraviglioso. Era attento, veniva a tutti i miei saggi di violino e, ogni volta che la mamma aveva un concerto da qualche parte fuori città, noi andavamo a vederla insieme e le portavamo un mazzo di fiori. Si è trasferito a casa nostra dopo un anno.»
«Quindi Isabelle è figlia di questo Antoine?»
«Sì, sarebbe la mia sorellastra, ma per me è una sorella a tutti gli effetti, le voglio un bene dell'anima.»
«Si vede, e lei ne vuole a te. Avete un legame bellissimo» affermò, ancora col sorriso sulle labbra.
«Già... Mia mamma ha avuto me che era giovanissima, aveva solo ventun anni. A trentatré è nata lei, e io me ne sono innamorato subito. Aveva questi occhietti vispi già da piccola, e quando la tenevo in braccio io si calmava sempre. Mamma e Antoine dicevano che c'era qualcosa nella mia voce che la faceva rilassare. I primi mesi la mettevano nel lettone con me, perché ero l'unico che riusciva a far dormire quella piccola peste.»
Nonostante tutto, Léon ricordava con piacere tutti quei momenti, tutti gli attimi vissuti prima che gli altarini venissero scoperti.
Era come se la sua vita fosse stata divisa in compartimenti stagni: c'era lo scomparto "Prima del caos" e quello "Dopo del caos".
Quello che stava nel mezzo, invece, era solo un pezzo di vita che avrebbe voluto cancellare.
«Dev'essere stata dura vedersi portare via le attenzioni di punto in bianco» osservò Sebastiano, che ora sembrava essersi rilassato rispetto all'inizio.
Già, quella storia, presa così alla lontana, poteva anche sembrare una di quelle col lieto fine.
«Per niente... Antoine e la mamma sono stati due genitori impeccabili. Ovviamente Isabelle portava via del tempo, ma avevo dodici anni quando è nata, ero già in grado di capire che un neonato ha bisogno di attenzioni. In più loro due sono stati bravi a darne anche a me. Non mi sono mai sentito messo da parte, o in secondo piano.»
«Meglio così. Mio fratello ancora mi rinfaccia che avrebbe preferito avere i nostri genitori tutti per sé» scherzò il castano.
Léon sorrise appena, mentre i ricordi degli ultimi anni si facevano strada pian piano nella sua mente, pronti ad essere sputato fuori.
«E Antoine dov'è? Vive qui con tua mamma? Perché voi non state a casa con loro?»
Quante domande... Era così difficile rispondere quando sentiva il tormento graffiargli la gola.
«In realtà no, non fa più parte delle nostre vite.»
Seba spalancò gli occhi.
Già, doveva essere assurdo, dopo tutte le belle parole che Léon aveva speso su di lui, pensare che fosse sparito così, nel nulla.
«Sai, poco dopo aver compiuto diciotto anni è successa una cosa che non ho mai raccontato a nessuno» confessò abbassando la testa, mentre le mani iniziavano a sudargli e il cuore nel petto sembrava battere a una velocità troppo elevata.
Ora che ci pensava, a parte il suo psicologo, Seba era il primo con cui aveva deciso di aprirsi. Tutti gli altri che sapevano di lui, avevano letto la notizia sui giornali ed erano risaliti alla sua identità, nonostante avessero cercato di mantenere la privacy il più possibile.
«Che cosa?» chiese il castano, la voce carica di apprensione e gli occhi che cercavano i suoi, diventati ormai sfuggenti.
«Dovevo rientrare da una serata con gli amici, eravamo in un pub a Parigi, così ho chiamato mia mamma per chiederle di venirmi a prendere. Ci siamo messi d'accordo e l'ho avvisata che mi sarei incamminato verso casa nel frattempo. Era una cosa che facevo sempre, sia di giorno che di notte. Solo che ad un certo punto, mentre costeggiavo una strada poco trafficata, un furgoncino mi si è affiancato. Sembrava un film, cazzo, è sceso un tipo incappucciato, mi ha messo un fazzoletto puzzolente sul naso e mi ha sbattuto dentro» aveva cercato di parlare il più in fretta possibile.
Aveva come l'idea che se ci avesse messo più tempo, avrebbe fatto ancora più male.
«Léon...» la voce di Seba era costernata, e nel breve attimo in cui il francese trovò il coraggio di guardarlo, vide sul suo volto una smorfia che non seppe neppure decifrare. Era rabbia mista a dolore, più qualcosa che in quel momento gli sfuggiva.
«Mi sono svegliato qualche ora dopo, credo, in una sorta di seminterrato. Era fine ottobre, e là sotto faceva un freddo cane. C'era una specie di infiltrazione, e ricordo che sentivo un gocciolare perenne che dava quasi alla testa. Dio, credevo di impazzire là dentro» fece un respiro più profondo degli altri, incamerando l'aria con la bocca, come se fosse appena riemerso da un'apnea.
«Mi ha tenuto là sotto, nudo come un verme, con un solo pasto al giorno per due settimane.»
Il ricordo di quei quattordici giorni era vivo nella mente di Léon come se fosse successo solo il giorno prima. La perenne sensazione di essere osservato, il freddo che gli penetrava le ossa, l'umiliazione di essere completamente nudo.
Era tutto lì, davanti ai suoi occhi e nella sua mente.
«Dopo cinque giorni mi è stato recapitato il violino. C'era questa voce, camuffata probabilmente da un fazzoletto sulla bocca, che mi ordinava di suonare. Ma io ero stanco morto, la notte non riuscivo a dormire perché avevo paura a chiudere gli occhi, e il cibo che mi portavano era sempre pochissimo. Così, quando mi rifiutavo di suonare, lui suonava me.»
Si ricordava perfettamente la posizione che quel verme assumeva: si metteva a sedere sull'unica sedia presente in quel tugurio, con le gambe aperte, e lo faceva inginocchiare davanti a lui; col petto che aderiva alla sua schiena gli alzava un braccio e suonava sulla sua pelle come fosse stato un violino.
"Sai suonare così bene, perché non suoni per me?" chiedeva quando lui non aveva le forze per reggere lo strumento, con quella voce strascicata e carica di squallida eccitazione che gli faceva accapponare la pelle ogni volta.
E così era diventato lui stesso un violino.
Gli sembrava ancora di sentire l'archetto sfregare sul corpo, creando tagli e abrasioni che si erano cicatrizzate solo in superficie, ma sanguinavano dentro.
Le ferite esterne erano il danno minore di quel corpo devastato.
Aveva avuto il terrore di quello strumento minuscolo per tantissimo tempo, e ancora oggi prenderlo tra le mani risultava estremamente faticoso, certe volte.
E pensare che lo amava così tanto, prima di tutto quello.
Léon strinse i pugni andando a conficcare le unghie nel palmo, nella speranza che il dolore fisico lenisse un po' quello che sentiva dentro.
Ricordava ancora la notte in cui scoprì la verità.
Quell'uomo era arrivato verso sera, come sempre, e lo aveva obbligato a suonare.
Era stato scaraventato giù dalla sedia con un calcio, l'impatto col pavimento era stato così forte che lui per un attimo aveva avuto la vista appannata.
Quella sera non fu come tutte le altre, l'uomo afferrò il violino e lo fece sedere sulle sue gambe, mentre con le mani guidava le sue.
Gli sembrava di essere un burattino, a Léon, sentiva muovere le braccia, sostenute dall'altro, eppure non era padrone di nessun gesto.
Aveva sentito chiaramente l'erezione dell'uomo premere contro di lui e aveva pregato Dio che non andasse oltre, che gli lasciasse almeno quel briciolo di dignità.
Mentre lasciava che il suo rapitore suonasse con mani che non gli appartenevano, sentì il respiro di quell'essere repellente farsi pesante sul suo collo. Ormai ansimava, mentre con quella lurida bocca lasciava scie di baci infetti.
"Lo sai, tu e la mamma suonate talmente tanto che qualcosa ho imparato anch'io".
Fu quella la volta in cui comprese tutto. Ricordava bene che aveva spalancato gli occhi e si era irrigidito di colpo, consapevole di ciò che quella frase volesse dire.
Tu e la mamma.
Era Antoine.
Era stato lui a rapirlo, a fargli tutto quel male.
Erano sue le gambe sulle quali era seduto.
Era suo il respiro che strusciava come un serpente sulla sua pelle.
Erano suoi quei baci ruvidi che gli stavano lacerando la pelle.
Non doveva essere così un bacio.
Il bacio era un atto d'amore.
Due labbra candide che si posavano in una qualsiasi parte del corpo per donare amore, non ribrezzo.
E invece quell'uomo lo stava facendo nel modo sbagliato.
Stava leccando la sua pelle, avido di un piacere che raggiunse poco dopo, nei propri pantaloni, mentre ancora si strusciava sul suo corpo nudo.
Era Antoine, e Léon non riusciva a crederci.
Lo stesso uomo che si era preso cura di lui negli ultimi dieci anni.
Quello che lo aveva aiutato coi compiti, con le interrogazioni, con l'accettare sé stesso quando aveva capito di essere omosessuale.
Era stato così comprensivo, quella volta.
Aveva riservato per lui solo parole belle, parole di conforto cariche di affetto, che probabilmente nascondevano intenzioni poco nobili.
E quando Léon aveva avuto il coraggio di chiedere perché, con la voce spezzata da quella nuova consapevolezza, la risposta era stata talmente squallida che gli aveva fatto desiderare di morire lì, all'istante.
"Non fare il finto tonto, lo sai anche tu come ci guardiamo io e te. Dovevo aspettare che fossi maggiorenne, non potevo rischiare che qualcuno mi accusasse di aver approfittato di un minore. Ma adesso sei grande, Léon, adesso possiamo fare tutto quello che vogliamo, siamo liberi. Ora devo andare a casa, perché mamma e Isabelle mi aspettano, ma domani torno, e ti scoperò così forte che non desidererai nessun'altro in vita tua."
Léon si era buttato in avanti e aveva rigettato quel poco che aveva nello stomaco.
Antoine non aveva avuto nemmeno la decenza di pulirlo, si era abbassato su di lui e gli aveva lasciato un bacio sulla tempia, poi lo aveva abbandonato lì, sul pavimento sporco del suo stesso vomito.
Era riuscito nel suo intento, dovette ammettere a sé stesso Léon: non era più riuscito a provare alcun tipo di desiderio nei due anni successivi, se non quello di sparire dalla faccia della terra, di morire per alleviare quel dolore sordo che lo accompagnava giorno dopo giorno.
Poi era arrivato quel ragazzo dagli occhi d'ambra, e il suo mondo si era capovolto di nuovo.
«Léon» Seba afferrò il suo viso con urgenza e lo costrinse a tornare con gli occhi nei suoi «Ti ha- lui ti ha...»
Léon scosse la testa in senso di diniego.
«No, non mi ha mai violentato, se era questo a cui pensavi. Ma ho scoperto che quello non è l'unico modo per rovinare una persona.»
Ed era vero, quel rifiuto tossico non aveva fatto in tempo a mettere in atto il suo piano.
Il giorno dopo Léon era stato ritrovato e liberato.
Aveva passato giornate intere in ospedale, sotto le cure mediche e i controlli dei migliori dottori.
Sua madre era arrivata di corsa, ricordava ancora gli occhi sbarrati di incredulità e dolore che aveva quando lo vide su quel lettino d'ospedale.
E dietro di lei c'era Antoine.
Antoine che fingeva di piangere di felicità, e lui che si era rinchiuso in un mutismo dovuto allo shock e al dolore inflitto da quell'ammasso di merda che era il suo patrigno.
Aveva trovato la forza di parlare solo dopo una settimana, quando i medici lo avevano avvisato che poteva essere dimesso, ma che avrebbe dovuto iniziare un percorso terapeutico con uno psicologo per superare il trauma.
Aveva iniziato a pensare a cosa potesse voler dire, per lui, tornare a casa con quell'uomo.
Quanto ci avrebbe messo a realizzare il suo piano?
Quanto tempo sarebbe passato prima che rimanessero da soli, senza sua madre?
E così aveva buttato fuori la verità.
Una bomba scoppiata in quella stanza dalle pareti asettiche, che aveva lasciato detriti di dolore e rammarico dietro di sé.
E devastazione.
La sua vita, insieme a quelle di sua mamma e di Isabelle, erano state rase al suolo.
BOOM.
Erano bastate tre parole per rompere tutto in mille pezzi.
"È stato Antoine", e le schegge avevano colpito tutti quanti, come impazzite, lasciando cicatrici su ognuno di loro.
Seba si buttò su di lui, strinse le braccia così forte intorno al suo corpo, che per un momento Léon sentì come se una delle sue crepe fosse stata risanata.
Una su mille, certo, ma era pur sempre una piccola conquista.
Aveva un buon odore, Sebastiano, di quelli che ti fanno sentire di aver trovato la casa giusta in cui abitare.
Sì, ci avrebbe abitato volentieri in quelle braccia.
Si staccò piano e gli posò un lungo bacio sulla fronte, uno di quelli che si danno ai bambini che si sono appena fatti la bua.
Era così tenero quando voleva, così premuroso, che Léon si ritrovò a chiedersi cosa avrebbe fatto se non avesse più potuto averlo nella sua vita.
Ma quella era la sua solita vena pessimista, lo sapeva.
Entrambi erano consapevoli di quanto importanti fossero l'uno per l'altro, eppure la paura di perdere l'unica persona che era riuscita a farlo tornare a sorridere, lo terrorizzava a morte.
«Chi ti ha trovato?»
Léon tornò con lo sguardo al suolo.
«La polizia. Mia mamma di nascosto da tutti è andata a sporgere denuncia e ha collaborato con loro.»
«Perché di nascosto?»
«Perché il motivo per cui mi hanno rapito, o almeno quello "ufficiale", era ottenere un riscatto. Hanno chiesto cinque milioni di euro per la mia liberazione, e ovviamente nessuno doveva saperne niente. Quando ho parlato, quando ho detto che era stato Antoine ad architettare tutto il piano, ad avermi rinchiuso per due settimane, ad aver intagliato il mio corpo come un pezzo di legno, a mia mamma è venuto un esaurimento nervoso. Non riconosce più né me né Isabelle, vive in un mondo tutto suo, sembra una bambina. Quando ho compiuto diciotto anni ho avuto accesso ad un conto corrente che mio padre aveva lasciato per me. Ho iniziato ad usare quei soldi per lei, l'ho portata dai medici migliori di tutta la Francia, ma più o meno hanno dato tutti la stessa risposta: il senso di colpa per non essersi accorta di che uomo avesse messo in casa è così forte, che lei non lo accetterà mai. Ha preferito cancellare tutto piuttosto che affrontare la situazione. Dio, non sai quanto la invidio a volte.»
Ed era vero. Léon si era ritrovato tante volte a invidiare lo stato di distacco totale in cui viveva sua madre.
Lei non ricordava nulla, non sapeva cos'aveva dovuto subire il figlio, quanto difficile fosse stato anche solo cercare di uscire da quel buio che l'aveva trascinato giù.
Nei primi periodi dopo la liberazione non si fidava di nessuno, nemmeno di sua sorella o di sua zia.
Il suo psicologo era nient'altro che qualcuno che avrebbe sferrato l'ennesima coltellata appena girate le spalle.
I suoi amici erano stati tutti messi in discussione.
Persino il suo ragazzo era diventato qualcuno di cui diffidare.
Chi poteva dire di conoscere, Léon, se non si era mai accorto di quale mostro abitasse in casa sua e avesse preso il posto di suo padre? Nessuno, ecco chi.
«Léon,» Seba lo richiamò a sé afferrandogli il viso dolcemente e puntando gli occhi nei suoi, «Io non posso neanche immaginare quello che hai passato e che ancora stai passando» si fermò un attimo, la voce spezzata dalle lacrime che stava cercando di trattenere senza successo, e le dita che piano gli accarezzavano il volto «Ma tu hai Isabelle. Davvero vorresti dimenticarti di lei?»
Il francese accennò un piccolo sorriso pensando a quanto quella piccola peste gli fosse stata d'aiuto in quei due anni così tormentati.
Entrava nella sua stanza con l'energia di un uragano e non usciva finché non aveva visto almeno un sorrisetto sulle sue labbra.
Era meravigliosa quella bambina, e non sapeva nulla.
Non avrebbe mai dovuto sapere nulla.
L'avrebbe protetta ad ogni costo, l'avrebbe aiutata a conservare solo i ricordi belli che lei aveva del padre, e avrebbe tenuto per sé tutto lo schifo che in realtà faceva quell'essere.
Scosse appena il capo per dire che no, non avrebbe mai voluto dimenticarla.
«E tua zia fa una torta di mele fantastica. T'immagini che vita di merda senza ricordarsi di quella torta?» cercò di ridere, Sebastiano, ma quegli occhi pieni di lacrime facevano pensare non ne avesse poi tanta voglia.
No, neanche sua zia era una persona che avrebbe mai voluto dimenticare. Era stata una perfetta amica in quegli anni, si era trasferita in Francia ed era andata a vivere con lui e Isabelle.
Aveva mollato casa e lavoro per occuparsi di loro, e mai una volta lo aveva spinto a raccontare cosa gli fosse successo.
La polizia l'aveva messa al corrente di tutto solo dopo qualche mese, col consenso di Léon, e quello che più aveva ammirato in lei, era che non aveva cambiato il suo modo di guardarlo.
Non c'era mai pena nei suoi occhi, o rifiuto. C'erano solo amore incondizionato e comprensione, per tutte le volte in cui Léon si comportava come un pazzo, o si svegliava durante la notte urlando.
Era stata lei a proporre di tornare in Italia, di andare via da quella città che poteva essere solo una costante ombra sul già disastrato futuro che lo attendeva.
Era stata lei a preoccuparsi di trovare due case vicine: una in cui abitare con lui e Isabelle, e una in cui far abitare sua madre.
Sempre lei si era occupata di trovare infermiere che, a turno, si occupassero di lei ventiquattr'ore su ventiquattro, e dottori che potessero farle visite ogni settimana.
Léon riportò gli occhi in quelli di Sebastiano.
Se avesse potuto scegliere di dimenticare tutto, avrebbe significato scordarsi anche di lui, dell'unica persona che aveva rianimato quel cuore che credeva ormai morto; l'unico che lo aveva fatto tornare a ridere di pancia, e non solo con le labbra curvate all'insù.
«E tu?» gli chiese in un attimo di coraggio. Aveva bisogno di sentire una conferma da parte di Seba, ché i gesti sono importanti, ma anche le parole hanno il loro peso.
«Io cosa?»
«Posso mettere anche te nelle cose per cui non vale la pena cancellare tutto?»
Seba sorrise, stavolta ci riuscì davvero, e lo attirò a sé catturando le sue labbra in un bacio quasi disperato.
«Ne sarei onorato.»
Spazio S.
Buonasera a voi, meraviglie ❤️
So che oggi non era previsto nessun aggiornamento, ma questo... Questo è IL capitolo.
Quello che ci fa capire come mai Léon porti sempre dentro agli occhi quella tempesta.
Quello che apre una piccola finestra sul suo passato, facendoci comprendere molto anche del suo presente...
È uno dei capitoli a cui sono più affezionata, e quello che mi ha fatto più male scrivere 💔
Ci aggiorniamo domani, sperando di tornare tra righe un po' più allegre 💞
Buonanotte a voi
Un bacio, S.
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