35. Incubi
Da qualche giorno Sebastiano si stava chiedendo cosa fosse ciò che lo legava a Léon.
Ci aveva pensato spesso, aveva provato a valutare ogni sfaccettatura di quel rapporto nato così, all'improvviso, tra un sorriso e un ghigno.
Si era fatto molte domande, aveva cercato di scavare dentro di sé per trovare una risposta che lo soddisfacesse, eppure brancolava ancora nel buio.
Era il sesso, aveva pensato a un certo punto, l'intrigante idea della novità, del diverso... Poi aveva scartato quella possibilità. È vero, il sesso con Léon era qualcosa che lui non avrebbe mai nemmeno potuto immaginare prima, gli regalava emozioni nuove ogni volta, ad ogni carezza e ad ogni sospiro, ma non era solo quello.
Aveva accettato tutto con molta serenità, non era entrato nel panico per aver intrapreso, a diciotto anni, una relazione con un ragazzo, e questa cosa un po' lo destabilizzava.
Sicuramente il fatto che il suo migliore amico fosse gay lo aveva aiutato ad abbattere tutti i pregiudizi di cui la società ancora pullula, ma si chiedeva se fosse normale non farsi alcuna domanda in merito.
Quello che lo preoccupava era piuttosto la reazione che avrebbero potuto avere i suoi amici e la sua famiglia, ma lui in cuor suo era tranquillo; certo, i sensi di colpa nei confronti della sua ragazza gli stavano macchiando gli occhi, diventati sempre più cupi quando era con lei, ed era ben cosciente che avrebbe dovuto prendere una posizione, prima o poi.
Ma oltre al malessere percepito dal nascondere una cosa così grande alle persone che amava, lui stava bene.
Quando era con Léon stava bene.
Come avrebbe potuto catalogare quell'emozione? Sempre che di catalogazione si potesse parlare... Seba era sempre stato convinto che nei sentimenti non esistessero etichette da appiccicare, quelle le teneva per gli oggetti.
Eppure sentiva dentro di sé la necessità di dare un nome a quello che c'era tra loro due, come se farlo lo potesse aiutare in qualche modo a sentirsi meno in balia del mare, quando era con lui.
Perché era così che si sentiva: un naufrago su un materassino durante un maremoto.
Nessun appiglio intorno, nessuna terra all'orizzonte a cui mirare, solamente lui e la marea di emozioni che gli si infrangevano nello stomaco come onde sugli scogli.
Gli piaceva, adorava perdersi nei dettagli di Léon... Cercare di capire il suo stato d'animo solo attraverso la sfumatura del colore delle iridi; provare a indovinare se lo aveva divertito solo dal movimento con cui aggrottava le sopracciglia; afferrare quanto fosse di buon umore solo dall'intonazione della voce.
Lo aveva studiato tanto in quei mesi di conoscenza e, senza nemmeno rendersene conto, aveva imparato a conoscerlo meglio di quanto credesse.
C'era ancora una parte di lui a cui non gli era consentito l'accesso, eppure sapeva bene che avrebbe potuto aspettare che Léon si fidasse di lui tanto da raccontagli del suo passato.
Tutto quello che avevano fatto, che si erano detti fino a quel momento, era stato dettato dall'istinto.
Era istinto quello che li aveva portati a fare l'amore in una camera d'albergo, a Berlino.
Era istinto quello che lo aveva spinto ad andare da lui dopo poco più di un'ora che si erano salutati, al ritorno dalla gita.
Era istinto quello che lo aveva spinto a tenergli la mano nel buio della sala poche ore prima, la sera di San Valentino, con la sua ragazza di fianco e gli amici vicini.
Ed era stato istinto anche quello che lo aveva portato ad accettare la sua proposta di passare la notte da lui, di ritorno dal cinema.
«Dormi a destra o a sinistra?»
La domanda del francese lo aveva riscosso dai suoi pensieri, riportandolo in una realtà fatta di dubbi e sorrisi.
«Destra.»
Léon gli sorrise e si sdraiò in quella sinistra, subito seguito da Seba che si girò su un fianco per poterlo guardare.
Aveva portato una mano dietro la nuca, le ciglia sfioravano leggere la guancia e l'espressione beata in volto di chi è completamente rilassato.
Era raro vederlo così; Léon sembrava sempre preda di qualche pensiero che non lo faceva stare tranquillo, aveva sempre una strana malinconia negli occhi, come una sorta di irrequietezza che rincorreva ogni suo sorriso.
Non era mai solo felice, c'era sempre anche altro in lui.
Il biondo cercò a tastoni la mano di Sebastiano e quando la trovò la intrecciò con la sua, un gesto che scaldò il cuore del più piccolo.
Forse, pensandoci bene, non aveva bisogno di dare un nome a quello che erano. Si sarebbe fatto bastare il modo in cui lo faceva sentire stare al suo fianco semplicemente così, sdraiati su un letto uno accanto all'altro.
Non era un pianto, era una sorta di nenia straziante quella che svegliò Seba nel bel mezzo della notte.
Le lucine sulla testata del letto di Léon erano ancora accese e lui poté vedere il suo viso madido di sudore, contratto in una smorfia che non era naturale assumere durante il sonno.
Si muoveva agitato, scattava con la testa come a scacciare un qualcosa che Seba non poteva conoscere e aveva i palmi serrati in pugni che gli facevano sbiancare le nocche.
Un lamento prolungato e qualche parola confusa lo convinsero a scuotere Léon per una spalla nell'intento di svegliarlo, di porre fine a quello che aveva tutta l'aria di essere un incubo.
«Léon... Ehi, svegliati, stai sognando» cercava di parlare a bassa voce per non spaventarlo, ma più lo scuoteva, più il lamento nella voce dell'altro cresceva.
«Ehi, calmati...»
Léon spalancò gli occhi all'improvviso, il respiro affannato e gli occhi persi in qualche luogo lontano da quella camera; si voltò di scatto verso Sebastiano, che ebbe la sensazione di essere messo a fuoco solo dopo alcuni secondi.
«Scusa, non volevo svegliarti» disse passandosi una mano sul viso ancora accartocciato in un'espressione sofferente.
«Vado a prenderti un po' d'acqua» si propose il più piccolo, che venne prontamente fermato dalla mano che gli aveva artigliato il braccio.
«No, solo... Stai qui, okay? Non andare via.»
C'era una supplica nel tono di voce di Léon, come se avesse il terrore di rimanere solo coi suoi pensieri, o i suoi ricordi.
Seba annuì appena, si stese di nuovo accanto a lui e lo trascinò tra le sue braccia, dove il francese parve ritrovare un po' di calma.
«Sei fradicio, perché cazzo ti ostini a dormire con queste maglie pesanti?»
«È cotone, non è pesante.»
«Ma è a maniche lunghe. Avete sempre quaranta gradi qua dentro! Vivevi in Francia, mica ai tropici.»
Léon sbuffò una mezza risata e rimase così, ad occhi chiusi tra le sue braccia.
«Cosa stavi sognando?» azzardò a chiedere.
Aveva mentito.
Poche ore prima aveva pensato di poter aspettare che Léon si sentisse pronto per parlargli di tutto il caos che lui gli vedeva negli occhi, e invece ora si trovava preda di una smania che andava oltre la semplice curiosità.
Voleva conoscere per aiutarlo, non per uno stupido capriccio.
Léon alzò appena la testa per poterlo guardare e Sebastiano vide le iridi supplicarlo di non insistere.
«Chiedimi qualcos'altro. Una cosa qualsiasi.»
Gli occhi appena sgranati sembravano invasi dal terrore di confessare qualcosa che avrebbe potuto cambiare il modo in cui Seba lo guardava.
Era stupido, pensò, nulla di quello che era il suo passato avrebbe potuto scalfire ciò che gli faceva provare nel presente.
«Suonami la tua melodia.»
Le sopracciglia del francese si arcuarono in segno di stupore, e Seba si sorprese quando lo vide alzarsi dal letto e prendere la custodia con dentro lo strumento, proprio accanto alla scrivania.
Léon lo mise in posizione, subito dopo aver fatto qualche movimento per sciogliere un po' i muscoli, e poi, con l'archetto che Seba aveva scelto per lui, iniziò a suonare.
La stanza sembrò riempirsi di tutto ciò che di bello c'è al mondo.
C'era amore nel modo in cui Léon lasciava che le note uscissero da quello strumento così piccolo, eppure così potente.
C'era la meraviglia del suono che pareva rimbalzare da una parete all'altra della stanza, per poi colpire dritto lo stomaco di Sebastiano.
E c'era strazio sul suo volto.
Non aveva più quell'aria serena che gli era rimasta appiccicata la prima volta che lo aveva visto suonare; ora le spalle sembravano essersi irrigidite e le sopracciglia aggrottate facevano sembrare che fosse diventato insopportabile continuare ad eseguire quella melodia.
Sebastiano si alzò dal letto d'istinto e andò a stringere la mano di Léon, quella che teneva l'archetto.
Gli occhi del più grande si spalancarono per lo stupore e Seba ci vide dentro una tempesta di emozioni confuse.
La più grande, quella che prevaleva e che lo preoccupò di più, era la paura.
Léon sembrava terrorizzato, la fronte aveva ricominciato a imperlarsi di sudore e le spalle si alzavano e si abbassavano velocemente, come se respirare gli stesse costando un'immensa fatica.
Seba lo attirò a sé, con delicatezza, e un singhiozzo da parte del più grande gli fece stringere il cuore.
«Scusami» sussurrò ad un volume appena udibile.
Sentì Léon annuire appena sulla sua spalla, il tonfo del violino lasciato cadere a terra e le sue mani che si aggrappavano alla sua canottiera.
Avrebbe trovato un modo per aiutarlo ad affrontare qualsiasi cosa lo stesse terrorizzando, giurò a sé stesso, fosse anche l'ultima cosa al mondo che avrebbe fatto.
Con delicatezza lo spinse verso il letto e lo fece sdraiare per poi stendersi accanto a lui, le braccia attorno alle spalle e le gambe attorcigliate alle sue, quasi volesse fargli da scudo da tutte le cose brutte esistenti.
Léon sembrava così piccolo tra le sue braccia, un bambino che ancora non era pronto ad affrontare le cattiverie del mondo.
Pian piano prese a carezzargli i capelli in un gesto che voleva essere rassicurante, e sentì le sue spalle rilassarsi appena a quei tocchi che tentavano di infondergli una nuova tranquillità.
Dietro le palpebre chiuse, Seba poteva ancora vedere gli occhi agitati di Léon, e immaginò che ora fossero di nuovo mare in tempesta.
Avvicinò le labbra e leggero vi poggiò un bacio sopra, nella speranza di calmare quel turbinio di emozioni che aveva visto qualche minuto prima.
Si addormentò così quella notte, cullato dal respiro dolce di Sebastiano e dalle sue mani che cercavano di accarezzare ogni sua cicatrice.
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