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44. (PARTE PRIMA)

Gli alberi di mezzana e di maestra vennero sostituiti per intero con i fusi presi dal galeone e levigati a dovere. Quello di trinchetto, troppo rovinato, era in dirittura di completamento: Bergrem aveva sistemato il fuso maggiore originale perché vi venisse innestato sopra un nuovo albero di gabbia in legno di kapok con funi ricavate dalla palma endemica Coccothrinax proctorii. Il carpentiere aveva scelto la specie vagando di persona nella foresta di George Town. I suoi aiuti avevano pronto l'albero di velaccio e ogni notte uno di loro dormiva nel magazzino per sorvegliarlo.

Il signor Lennox aveva dato il suo benestare al trasporto del galeone da Gun Bay a George Town. Era riuscito persino a vendere le colubrine a un capitano collezionista di Guadalupa che le trovava belle.

Non era stato facile trainare il veliero con il Northern Star e le scialuppe, anche se una volta tolti gli oggetti contenuti e inservibili, riparata la chiglia con placche di rame provvisorie e levata l'acqua dal gavone e dalla sentina, il galeone era poco più di una zattera.

«Mi auguro che non sia come sollevare una barca di carta che è stata troppo ammollo» aveva osservato Patel durante le operazioni.

Ora, nella gazzarra da cantiere sulla pirocorvetta monca, uno dei fanti del Forte George – grosso come se fosse stato un animale da competizione forzato nei pasti – salì la biscaglina e rimase in attesa per individuare il capitano con la velocità degli occhi di un passero. Fermò un marinaio che gli transitava davanti con una scatola di scalpelli e gli chiese di passare parola per Avery.

Sommer venne raggiunto dal capitano, che lo portò in cabina. Urlavano per sovrastare il martellamento e i dialoghi della ciurma.

«Scusate se sono potuto venire solo oggi!»

«Ho sentito dire che vi intendete di fulminato di mercurio e acido picrico!»

«Acido nitrico!»

«Non sono la stessa cosa?»

«Pericolosi uguale, signore, dannosi anche! Però l'acido picrico non si può far detonare!»

«Vi ho portato giù, ma sarebbe meglio farvi vedere il cannoncino e l'arpone per capire con cosa avrete a che fare! Se non doveste capirci niente, non angustiatevi!»

Tornati in coperta, Sommer si accosciò per valutare il metallo, il meccanismo di sgancio a molle in contro tensione e la camera che conteneva il rampone.

«Si carica come un cannone. Nelle intenzioni, la punta, questa, dovrebbe infilarsi nella carne della preda, all'incirca per otto pollici. Le alette laterali si aprono, si fissano e fanno esplodere il proiettile liberando schegge.»

«Ingegnoso. Però è chiaro che non è detonato.»

«Ho il progetto, se voleste vederlo.»

«Preferisco toccare con mano. I progetti sembrano tutti funzionanti, ma soprattutto con i prototipi nove volte su dieci c'è qualcosa che non va. Ho sentito dire che le balene colpite da questo genere di rampone affondano subito.»

«Questa non la sapevo. Il farabutto che me l'ha venduto ha pensato bene di tacere sui particolari.»

«È così. Molti balenieri hanno rinunciato perché non potevano recuperare le balene e sono tornati al vecchio metodo. Forse, però, quello che volete catturare voi galleggerà.»

«Quindi se dovesse esplodere perderei l'aggancio? Voglio dire, l'altra volta abbiamo potuto recuperare l'asta legata alla fune.»

«Eh, se la punta si stacca perdete l'asta, sì.»

«Non si può ovviare al problema?»

«Posso provare, ma devo vedere bene com'è messo.»

Con l'aiuto di Avery, il fante tolse l'arpone, lo appoggiò e lo valutò. Intorno si udivano il cigolio di aste e bozzelli e la pialla discreta del carpentiere, dal momento che con un grido il capitano aveva intimato il silenzio ai lavoratori.

«È la prima volta che tocco una cosa del genere, ma ne avevo sentito parlare nelle isole Fær Øer. Hanno all'estremità questa specie di grande proiettile di ferro che si stacca.»

«Lasciate fare a me, è un affare pericoloso. Ho dovuto esercitarmi, la persona a cui l'ho commissionato mi ha mostrato come montarlo e staccarlo. Ho altre tre munizioni.» Sganciato, Avery soppesò lo scrigno di metallo: non osava scuoterlo per capire se contenesse le sostanze utili all'esplosione.

Dopo diversi minuti in cui tastò e annusò, Sommer disse: «È possibile smontare il cannoncino e portarlo a terra? Vorrei lavorarci su, aprire il proiettile e analizzare la mistura. Se trovo il guaio, lo risolvo e voi avrete un'arma utile. Altrimenti potreste farlo fondere e usarlo per altro.»

«Quanto vi ci vorrà?»

«Ho detto al Comandante che se potevo fare qualcosa l'avrei fatta. Forse una o due settimane.»

...................................

Il cinque febbraio, il capitano Moffett ricevette i dispacci del Forte insieme a una lettera e ai documenti redatti da Avery. Nella lettera si spiegava in dettaglio la ragione per cui la pirocorvetta di Sua Maestà Oblivion era rimasta sull'isola con gli altri mercantili e, qualora il tempo si fosse protratto oltre maggio – una data che Avery considerò accettabile – si richiedeva l'invio di altre forze della flotta britannica per difendere l'isola dai ribelli. La faccenda del mostro occupò un paragrafo. Il viaggio di MacMourrog a Cuba e in Giamaica mezzo foglio.

Avery guardò il brigantino che levava l'àncora e prendeva abbrivio con il vento a fil di ruota, una brezza da nord che pregò non funestasse la traversata. Rimpianse che il progresso non avesse inventato aggeggi che potessero avvertirlo quando Moffett sarebbe stato fuori dalla corrente dei Caraibi, con le Antille alle spalle.

Kozlov torchiava al posto del capitano la ciurma, rea di stare imitando gli indigeni. «Pochi mesi sulla terraferma e non siete più capaci di uscir fuori dalla vostra pelle!»

I marinai si scambiarono occhiate, era una considerazione mai udita.

«Che avete detto, signor Kozlov?» chiese Avery senza voltarsi.

Kozlov si rese conto che nel marasma di pensieri aveva riesumato un modo di dire russo. Si limitò a delle scuse e a ripetere il comando.

«È una cosa vostra, eh? L'ho capito dalla pronuncia, per un attimo avete perso l'accento inglese.» Avery registrò il cedimento del secondo ufficiale e passò a valutare dove la pirocorvetta, abbattuta in carena, mostrava l'opera viva.

La nave era legata da sartie di carena, date di volta sugli incappellaggi dei fusti di maestra e di mezzana, sottoposte a una forza di trazione tale da inclinarla. Le sartie erano fissate, dalla parte opposta a quella di traino, a travi robuste che sporgevano fuori bordo, collocate nella portelliera bassa. Gli addetti, seduti sui bansighi, grattavano via gli organismi marini che avevano colonizzato la carena.

Avery salutò il secondo ufficiale, gli disse che aveva una faccenda da sbrigare e si avviò in direzione dei campi di canna da zucchero. Imboccò la strada che portava alla magione dei King, dove i lavoratori si muovevano in un'operosità di formiche e preparavano le talee radicate che avrebbero piantato a marzo. Dopodiché sarebbe incominciata l'irrigazione naturale della stagione umida. Ammesso che il clima non protraesse la sua follia.

A volte capita, pensò Avery. Quando eruttano i vulcani o succede qualcosa lassù. Tirò indietro la testa e osservò un cielo d'un azzurro denso in cui transitavano cirri bianchi. Speriamo che il gregge s'allontani. Bolton diceva che accumuli di nubi alte indicavano l'arrivo di un fronte caldo e precipitazioni.

Il capitano tirò fuori dal taschino l'orologio. Non aveva l'uniforme, indossava panciotto, camicia, calzoni e un cappello di paglia. Di solito a quest'ora dovrebbe uscire dopo il riposo pomeridiano. Rimase in piedi a lato del sentiero, visibile agli indigeni.

Alcuni guardarono il bianco attendere qualcuno o qualcosa, senza soffermarsi troppo su di lui. Passò mezz'ora.

L'amore è una malattia che ha delle recrudescenze. Ecco cos'è. Fintanto che uno se lo gode scoppia di salute. È quando accade una disgrazia che l'intero organismo viene avvelenato dal male. È una budella scoppiata, te la rimettono a posto e stai bene finché non compi di nuovo lo sforzo ed eccola che esce di nuovo, identica a prima.

La luce tremolava con la polvere. Se fosse stato un anno ordinario, Avery sarebbe stato a casa, magari in mezzo a una nevicata, a guardare i campi brulli e Morecambe Bay. Non faceva molto quando non era in servizio, a parte comportarsi da gentiluomo. A volte, nel tempo che lo separava da settembre, accettava altri incarichi a latitudini piacevoli, la costa occidentale dell'Africa o il Mediterraneo. Ma guadagnava bene con il servizio sulla tratta dei Caraibi e poteva permettersi di oziare.

Chissà a quanto ammonta la rendita di Lennox.

Un ciuffolotto nero volò sopra la testa del capitano. Dal sentiero erano adesso visibili due figure. La più alta indossava un abito bianco, l'altra nero.

Avery si levò il cappello.

Lenore non riuscì ad arrestare il tremito delle labbra. Salutò il capitano con una riverenza e ricevette un inchino.

«Vostro padre è in casa?»

«No. È andato dal Governatore. Mi è parso di capire che ci sarà una riunione straordinaria per decidere il calendario delle coltivazioni. Mio padre teme il clima.» E vuole chiudere le faccende prima di andarsene.

«Andate in città?»

«Non so. Camminerò fino a quando non mi stanco. Rupert sta facendo esercitare i soldati.»

Veniva dalla costa, Avery, e aveva udito i cannoni del Forte George. Tiri imbarazzanti che precipitavano al di qua della barriera. E mentre scuoteva la testa per i grassi topi di cambusa con le divise scarlatte che ci mettevano un'eternità a ricaricare fra una bordata e l'altra, aveva incrociato il signor King in carrozza. «Vi secca se ne approfitto per accompagnarvi? Sono costretto a tornare in città.»

Lenore riprese a camminare. Avery le stava dietro e regolava il passo, le mani allacciate.

«Non serve che mi seguiate» disse lei.

Avery le si affiancò. Proseguirono per un lungo tratto. Dulcina, disinteressata ai due, guardava i suoi parenti che sistemavano le talee.

Lenore smise di avanzare. Si levò il cappello. «Dulce. Torna indietro e va' a prendere il parasole. Il cappello mi sta facendo venire l'emicrania.»

Dulcina non pensò a lasciare l'uomo con i capelli neri, che tempo addietro era entrato nella baracca a tuonare nello stesso modo in cui tuonavano i bianchi ogni santo giorno che il Signore mandava sulla terra, da solo con la padrona. Obbedì. Con il passo indolente e l'abito nero di cameriera ripercorse il sentiero.

Lenore sollevò il viso che il sole illuminava. La capigliatura che il cappello aveva arruffato lasciava fuggire ciuffi biondi che il vento da est usava per frustarle il viso. Lei e Avery rimasero soli dentro il ventre dei campi di canna da zucchero. Non intendevano sprecare parole, il dicibile era stato proferito due anni prima senza fraintendimenti.

Lei pensava alla fornicatrice di Satana che era diventata, contro ogni previsione materna. Si vide per la lussuriosa che era, che voleva un'eterna copula con l'uomo che le stava davanti. Dentro il fuoco o dentro l'acqua non importava. La parola eterna le sembrò ridicola. Si sarebbe contentata di un'ora. Un'ora in cui il serpente dell'Eden, venuto attraverso i cancelli aperti della villa di suo padre, l'avrebbe avvolta morsicandole il seno e il sesso. Potevano venire anche tutti i rospi dell'isola.

Lenore allungò il braccio, senza staccare gli occhi dal viso di Avery, e posò la mano dove aveva imparato che agli uomini piaceva. Senza guanto, la pelle contro la stoffa. «Ecco cosa voglio» scandì. «Se non potete esaudirmi, andatevene con la vostra falsa richiesta di perdono o con qualunque ragione vi abbia portato qui. Non m'interessa nient'altro.»

«Nemmeno di svergognarvi di fronte alla società?»

«Non è la società che deve assolvermi, capitano.»

«Conoscete quel luogo che chiamano la Stanza della Sirena, la piattaforma che non si allaga mai? Stasera quando sarà buio. Potete uscire di casa senza dire dove andate?» Avery richiuse la bocca e fece sbattere i denti. Ricordò le mattine in cui Lennox crollava di sonno e ascoltava una minima parte delle spiegazioni sull'utilizzo oculato dei pochi cannoni che il Forte possedeva. «Vi aspetterò. A voi la scelta se venire o meno.»

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