33. (PARTE SECONDA)
La botteguccia aveva un'insegna sopra una porta di kapok la cui estremità inferiore era graffiata, forse da cani o gatti affamati. Prima di entrare, Kozlov guardò dalla finestra lasciata aperta, l'unica a lato della porta, e vide un interno con alcuni manichini – a destra i maschi e a sinistra le femmine – e sullo sfondo un bancone sgombro degli oggetti che pensava potessero essere utili a un sarto.
Bussò; una voce soffocata dall'interno lo pregò di accomodarsi, la porta era aperta. Kozlov spinse l'anta forzando una vecchia maniglia di ottone che, scaldata dal sole, emanava una puzza dolciastra di metallo.
Il sarto uscì dal camerino, che era uno spazio scavato nella parete poco più grande dello spogliatoio degli ufficiali nel quadrato. «Buongiorno. Signor D'Asprano, per servirvi. Cosa posso fare per voi?» La voce pesante marcava la erre e usciva da sotto il folto dei baffi.
Kozlov sapeva che i migliori fra i sarti erano italiani. Come avrebbe fatto un qualsiasi uomo in un ambiente ostile, lasciò vagare uno sguardo che non comunicò nulla, né interesse né agitazione. Pareva che stesse prendendo le misure all'intera stanza.
«Mi chiamo Kozlov, appartengo alla pirocorvetta Oblivion, secondo ufficiale. Avrei bisogno di un abito. Un abito femminile con le maniche lunghe.»
Dal tono, il sarto capì che era un comando cortese. Non serviva spesso gli ufficiali, non aveva stoffe di pregio che si potevano trovare in altri paesi. Aveva imparato che i marinai navigavano in ogni angolo del mondo conosciuto e vuotavano i borselli altrove. Nessuno di un certo rango acquistava in una bottega di un'isola sperduta e funestata dagli uragani; i soli a frequentarla erano marinai semplici che non avevano quattrini da dilapidare per un regalo alla meretrice di turno o a una ragazza di cui volevano i favori ma che non avrebbero rivisto dopo averla spolpata.
Beh, pensò in italiano, mi è capitata una fortuna. «Però, signore» avvertì, annusando l'inesperienza dell'ufficiale, «non ho nessun abito a maniche lunghe. Se ne volete uno dovrò prepararlo dopo che avrete acquistato la stoffa.»
«Ne ho bisogno per domani mattina, al più tardi.»
«Anche se lavorassi da adesso a domani mattina, ammesso di chiudere bottega, non riuscirei a terminarlo o se lo terminassi sarebbe poco più di uno straccio. E non credo vogliate spendere invano il denaro.»
D'Asprano finì di analizzare Kozlov: postura militare e non si era presentato come capitano. Calcolò quanto il cliente avrebbe potuto sborsare e non fu una cifra da togliergli il respiro e il sonno. Lo valutò: lavoro preciso e ben fatto, niente di approssimativo, abito cucito su misure specifiche con colori e stoffa specifiche. Quel cliente non avrebbe accettato nessun suggerimento e alcuna modifica all'idea che gli si agitava dentro la testa.
«Mi dispiace. Forse potete provare con la signora Ferguson, posso scrivervi l'indirizzo. Raccoglie abiti da chi non li usa più e da chi è costretto a sbarazzarsene.»
Morti e debitori, rifletté Kozlov, e considerò l'abito bianco indosso al manichino. Maniche corte, grandiose e gonfie, una gonna voluminosa con diversi metri di stoffa a sorreggerla. Gli parve pesante solo guardandola. «Che stoffa è?» chiese, ed indicò il manichino.
«Cotone, lo stesso della vostra camicia.»
Kozlov fissò l'abito senza vederlo e pensò alle necessità e ai possibili capricci della Sirena. Non si sarebbe accontentata di una stoffa da cameriera, non si accontentavano le russe dei villaggi quando si rivolgevano ai giovanotti che le corteggiavano. Forse lei non aveva idea di cosa fosse un modello alla moda o della differenza fra un tessuto pregiato e uno dozzinale. Indossava una retina da pescatore fra i capelli.
Che ha pietre incastonate e non sono sassi. «Quali sono le stoffe migliori per una donna?»
«Raso, damasco, broccato, seta.»
«Conosco la seta, è ricavata dal filato dei bachi.»
«Non ho abiti di seta. Ne possiedo alcuni di raso, ma bisognerebbe capire se possono essere adatti. Cercate un abito da sera o da giorno?»
«Da giorno.»
«La signora lo deve indossare nei prossimi giorni o lo dovete portare con voi in Europa? Se sì, posso chiedervi per quale occasione è destinato?»
«È per una visita e lo indosserà domani. Voglio dire che è necessario per il clima dei Caraibi.»
«Date retta a me, il lino è di gran lunga la soluzione migliore.»
D'Asprano andò verso una porta laterale, l'aprì, restò nella stanza attigua qualche minuto a rovistare senza dire niente, un cane o un gatto in un mucchio di immondizia. Kozlov si avvicinò all'abito di cotone sul manichino; si passava la trama fra le dita valutando una cosa che non sapeva valutare. Non era comunque dissimile dalla sua camicia, il sarto se ne intendeva. La kosovorotka proveniva dalla fiera industriale del 1829, regalo di suo padre per quando fosse cresciuto, e Kozlov la utilizzava con parsimonia.
D'Asprano tornò con diversi modelli fra le braccia. Erano più o meno simili. Li adagiò con ordine sul bancone: il primo giallo, il secondo rosa, il terzo bianco, il quarto di un azzurro molto tenue. Il sarto colse la direzione dello sguardo di Kozlov.
«Sì, il migliore è quello di lino azzurro.» Lo sollevò dal bancone e stirò le braccia verso il soffitto per stendere l'abito e lo tenne dritto davanti a sé schermandosi dalla testa ai piedi.
Kozlov guardò la gonna. «Non ne avete uno lungo qui in basso?»
«Vorreste una gonna con lo strascico?»
«No, però preferirei che fosse più lungo. Potete tirarlo su un'altra volta?» Non l'ho mai vista per intero, come posso sapere quanti piedi e pollici è alta? Avrei dovuto chiederlo, ammesso che per lei le misure abbiano qualche valore. Poi: È nuda, è sempre stata nuda. «Non lo so.»
Il sarto percepì la nota sconsolata nella voce. «È sempre così,» disse, «quando si fa un regalo. Non avete un ritratto a figura intera?»
Kozlov scosse la testa. Apprezzava l'abito azzurro per la sobrietà: le righe bianche discrete, lo scollo non troppo profondo, i bottoni perlacei, la gonna ampia anche se forse non abbastanza lunga. «Prendo questo.»
Il sarto ascoltò la risolutezza e non osò contraddire il cliente: meglio del signor Kozlov nessuno poteva sapere a chi fosse destinato. L'abito era per una donna formosa e il sarto si domandò se fosse alta. L'ufficiale aveva guardato quello azzurro e aveva ignorato gli altri, e lui era sicuro che non l'avesse fatto senza pensare bene. Piegò l'abito e prese una scatola larga da sotto il bancone. Accomodò con cura la stoffa sotto gli occhi mobili del russo.
«Vorrei un paio di guanti bianchi, dal momento che non avete abiti con le maniche lunghe.»
D'Asprano analizzò l'espressione dell'ufficiale per cercare di capire quale tipo di ragione muovesse una richiesta ostinata. Forse cicatrici da sifilide o qualche altro problema della pelle o irsutismo, come la povera donna con la barba che aveva visto sulla nave che lo portava nelle Indie Occidentali. «Come desiderate.» Tornò nella stanza attigua e prese i guanti, li portò alla scatola e li posò sopra l'abito.
«Che cos'altro serve?» domandò Kozlov.
«Cosa intendete?»
«La biancheria.»
Ah, un'indigena. Molti uomini non riuscivano a resistere all'odore e all'aspetto esotico delle isolane. «Sono necessari una chemise, il corsetto e una sottogonna, almeno.» Le indigene non sopportavano troppi strati. «Ve li procuro. Attendete qui.»
Attendete, meditò Kozlov, come gli aveva detto la Sirena. «E un cappello, per cortesia» gridò. «Bianco o azzurro, se possibile.»
Il sarto richiuse la scatola con aria felice e infiocchettò la cappelliera. «Altro?»
«No, vi ringrazio. Quanto vi devo?»
Kozlov pagò senza espressione il prezzo che il sarto calcolò in una colonna fra le righe di un'agenda con la copertina di pelle. Lasciò la mancia nel resto che non volle indietro. «Ho un favore da chiedervi. Potreste tenere da parte l'abito e il cappello fino a che non sarò tornato da un'altra commissione?»
«Li lascerò nell'altra stanza, signor Kozlov. Se tardate, dopo mezzogiorno, diciamo, dovrete attendere. Di solito riapro per le quattro e mezza.»
Kozlov godette della breve leggerezza per un dovere compiuto e si avviò alla porta con il suo passo di soldato. La aprì e si trovò davanti MacMourrog e Casambus.
Il primo ufficiale s'intimorì e indietreggiò. «Siete voi» disse, prima di sollevare la testa e leggere l'insegna.
«Ho sentito stamane che eravate tornati.»
«Sì, ci hanno richiamato.»
«Guai?»
«Un mucchio, Kozlov, non potete nemmeno immaginare. E abbiamo perduto Sullivan.»
«Mi addolora sentirlo.»
MacMourrog guardò di nuovo l'insegna.
«Vi lascio passare» disse il russo e si scansò.
Casambus fece il saluto con la nocca. Abbassò gli occhi sulle scarpe senza parlare.
«State bene?» chiese il primo ufficiale. Aveva una voce esitante.
«Sì, sto meglio.»
«Siete di fretta?»
«Devo lasciarvi per una commissione. Tornerò all'ospedale per pranzo, per ascoltare il racconto.» Kozlov si inchinò appena per non sollecitare le suture.
MacMourrog guardò le spalle voltate e la camminata del russo, e si domandò dove fosse diretto e perché indossasse abiti civili e non si fosse rasato. Dentro di sé fu lieto che la conversazione non fosse proseguita. Non intendeva anticipare la sua derisione pubblica, men che meno vedere l'effetto della notizia negli occhi severi del secondo ufficiale.
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