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2.


Il fracasso di una taverna all'ora di cena non intaccava la foggia glaciale dei russi. I minatori di Ayr vi si erano riversati in massa al crepuscolo, greggi nere dal ventre di una delle città minerarie graziate dalla sovrabbondanza di carbone. Una città inglobata nella Regione Nera.

I minatori avevano facce, braccia e gambe sporche – le polveri a coprire il pallore – e gli stivali producevano uno sconquasso di impronte farinose. Ruminavano come bestie, veloci e metodici, i pasticci di carne e salmone che la taverna offriva, con i due garzoni dell'oste impegnati a trovare posti e stipare le squadre.

Il rituale si rinnovava ogni sera: se a mezzogiorno il salone era quasi vuoto, occupato da sporadici pecorai di pecoroni dal muso nero, dal pastore di anime umane e dai commercianti che non volevano tornare a casa, al vespro le bocche quadrate nelle colline vomitavano carretti di legno e umani rigidi come burattini che, non soddisfatti dei pasticci che mangiavano sottoterra durante la pausa, raggiungevano la taverna per quelli sfornati dalla moglie del signor Wilson.

I bambini-carretto, imitatori di adulti, stavano chinati sui piatti con le schiene gobbe. I pony e i muli, resi lignei dalla fatica, rimanevano nelle gallerie a farsi divorare dalla silicosi.

Il raduno non era dissimile dalla chiamata a mensa della Marina britannica al rullo di Roastbeef of Old England, eccettuata la maniacale ossessione dei marinai per la pulizia. Ma entrambe le razze pretendevano di occupare i posti che erano loro da una vita, da quando qualcuno li aveva mandati a lavorare, sedili immutabili segnati dalla superstizione e dall'abitudine.

Kozlov provò per i minatori la pena blanda, non meno sincera, degli anni dello sviluppo industriale, conscio della necessità del sacrificio e dell'inevitabilità del dovere. Si guardò la camicia bianca di cotone sotto la giacca nera e notò che aveva aloni grigi, la polvere che seguiva i minatori ovunque andassero. Gli era sufficiente voltare la testa e vedeva le tracce del carbone che restavano sotto le unghie e fra le pieghe delle rughe degli avventori. Fu costretto a pensare alla limpidezza del lago Bajkal dove, fino a qualche settimana prima, aveva trascorso la licenza in una fine di primavera fresca e umida a lui congeniale.

Seduto al tavolo vicino al bancone e pressato da uomini che guardavano i suoi abiti di damerino domandandosi da quale posto venisse con quell'accento particolare e il viso smorto, fissò per un attimo il contenuto della ciotola. Era noto che nessuno sapesse cosa c'era dentro ai pasticci. Non lo sapevano a Londra, dove i venditori ambulanti campavano di un commercio florido, e non l'avrebbero saputo di certo nello sperduto nord scozzese. Per quanto ne sapeva lui, i discendenti degli Scoti potevano aver ficcato dentro la sfoglia croccante carne di sirena.

«Signor Kozlov» disse l'oste con la parlata gutturale. «Potreste stringervi un poco? Paddy reclama il suo posto in fondo alla fila.»

L'oste imparava i nomi per merito di una memoria allenata dall'analfabetismo: ricordare era sopravvivere. E avrebbe rammentato il russo di Petropavlovsk – un nome che non era da paese di cristiani, secondo la sua logica – anche in punto di morte per via della sua aria esotica e perbene, dei modi signorili e dello sguardo che pochi uomini avevano, un miscuglio di ordine e scelleratezza, la scelleratezza buona dei creduloni, la stessa che lo aveva divertito la sera in cui aveva ingannato il nuovo venuto con la leggenda dei blue men*.

Sapeva altresì che Kozlov non si sarebbe trattenuto oltre il tempo stabilito – «una camera per tre giorni, finché non arriva il trasporto per le Ebridi Occidentali.» Gli uomini come quello straniero, ligi al dovere fino alla follia, portavano a termine i compiti affidati. E il russo di Petropavlovsk doveva cercare un tizio di nome Brayden Avery per conto dell'Ammiragliato.

Kozlov si strinse come si sarebbe stretta un'acciuga fra salmoni poderosi in una sovraffollata rete a strascico. Avvertiva i gomiti nelle costole. Teneva il busto eretto, una postura naturale, di modo da riuscire a ispezionare l'intera taverna e gli avventori ingobbiti.

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Ma il ragazzino incaricato di avvertirlo dell'arrivo della nave non era entrato nella taverna e, dopo cena, al russo era toccato di salire di nuovo nella sua stanzetta con nello stomaco la birra scura che servivano, compatta da fargli parere di aver inghiottito il liquido con l'intero boccale di vetro, e nell'animo una ridda di sentimenti contrastanti.

Non fosse stato per gli ordini ricevuti e che non avevano ammesso rimostranze, Kozlov non si sarebbe spinto fra le isole con una mappa approssimativa e le indicazioni di MacMourrog. Si spogliò e piegò gli abiti per appoggiarli allo schienale della sedia rivolta verso la finestra. Si accostò per avere una visuale del mare e di parte della terra, una visione apocalittica come ne aveva viste in alcuni quadri del Giudizio. A sinistra si estendeva un mare nero orlato di spuma, che di giorno aveva il colore e la compattezza dei lapislazzuli; a destra le colline martoriate dagli scavi, con alcune fornaci che sfiatavano fumo e spargevano l'olezzo del calcare carbonifero e le voci lontane di uomini sfatti.

Il russo si accorse, attraverso il respiro, che l'aria della sera era un'aria affaticata, non più trasparente come all'alba. Era satura di suoni, voci, respiri, odori e di tutto ciò che di incorporeo vagava sulla terra. Quando la mente fu nutrita dalla visione, pensò che se non fosse stato per la sciagurata decisione di due anni prima, forse si sarebbero potuti evitare molti disastri.

Non volendo sprecare l'olio della lampada, Kozlov la spense con un soffio che schiarì gli occhi turchesi. Nel buio della notte illune si coricò senza usare il lenzuolo, quasi che la frescura gli fosse di disturbo perché sulla sua pelle era comunque tepore. Aveva dormito in tenda sulle rive del Bajkal, in compagnia di alcuni ingegneri delle ferrovie interessati a esaminare il territorio, e cavalcato di villaggio in villaggio quando gli era giunta la comunicazione a Irkutsk. Irkutsk, insediamento dove anni addietro i cosacchi facevano affari con l'oro e le pellicce di mustelidi e foche endemiche. Il luogo dove era nato in una mattina di Buran, prima che il padre venisse richiamato dall'oceano e si trasferisse in Kamčatka.

Il pensiero della Russia richiamava le figure dei suoi antenati, una genia di ufficiali marittimi: suo padre lo era stato sotto lo zar Alessandro I e aveva combattuto le guerre napoleoniche nella Terza Coalizione al fianco degli inglesi, salvo disgustarsi delle successive manovre politiche e dimettersi dal ruolo per rifugiarsi nelle viscere della Siberia con la moglie e i figli. Suo nonno era morto nella battaglia di Hogland nel corso del conflitto russo-svedese e il suo bisnonno aveva navigato nella prima spedizione di Ivan Ivanoviĉ – l'esploratore conosciuto con il nome di battesimo Vitus Bering.

Io, invece, servo gli inglesi. Il viso del Primo Lord dell'Ammiragliato con le onde di capelli grigi si formò nella mente, contornato dagli echi delle parole.

«Lasciate detto dove vi recate. Potremmo aver bisogno di voi» aveva detto George Eden prima che Kozlov partisse per il Bajkal.

Sette mesi di inattività, di vita sulla terraferma, potevano rovinare un ufficiale. Kozlov ne era conscio, ma il suo senso del dovere valicava la mezza paga con cui sopravviveva.

Nel silenzio della stanza in affitto rimpiangeva d'aver lasciato le nerpa. In estate c'erano molti cuccioli che latravano e si cibavano dei golomyanka, pesci da cui suo padre e suo nonno prima di lui, da autentici siberiani, estraevano un olio per produrre una medicina portentosa. Ne aveva una boccetta nel bagaglio; tempo addietro aveva costretto Avery ad assumerne per i giorni in cui era rimasto a letto. La medicina aveva restituito al capitano la forza di camminare per Grand Cayman e di assistere ai preparativi per il ritorno in patria. Avery gliene era stato grato, almeno prima di covare il sospetto.

Kozlov seguitò a fissare il riquadro della finestra e ascoltò i tarli masticare il legno del mobilio. Se non l'avessero preso per matto, impedendoglielo, avrebbe dormito all'aperto.

I golomyanka erano pesci traslucidi di forma allungata. Chi ne vedeva uno per la prima volta poteva pensare a una creatura soprannaturale. Non avevano squame né vescica natatoria, ma l'occhio nero e gli organi in vista e le pinne come veli. Persino le foche d'acqua dolce erano un'anomalia naturale, eppure le nerpa abitavano da epoche il Bajkal.

La Sirena.

Anche lei non doveva essere di questo mondo, ma esisteva. Se fissava la notte, in Kozlov riaffiorava la marea di capelli scuri che incorniciava un viso pallido e bagnato, con le labbra gonfie e socchiuse, gli occhi neri allungati in cui sclera, iride e pupilla erano tutt'uno, occhi che non lasciavano trasparire nulla, né sorpresa né imbarazzo. Vecchi occhi che erano porte di ferro dietro cui si muovevano storie da custodire.

Doveva aver vissuto secoli, quella creatura, al punto che il corpo di un uomo non era per lei che un orpello osservato infinite volte in ogni sua piega e suo difetto, al pari di un sestante o di un'alga. Dicevano che uccidesse. Lui sapeva che lei aveva ucciso la sacrificata, sapeva che lei l'aveva visto alla prigione spagnola, doveva sapere che lui aveva fermato la scialuppa con i marinai piangenti e il segretario che urlava per origliare il Blues che lei aveva dedicato al capitano.

Il Blues, il canto degli schiavi. Il Blues, la tristezza.

Kozlov si domandò se inventasse parole diverse ogni volta e si scoprì a desiderare di udirle ancora.

Due anni addietro, nei giorni a seguire prima della partenza da Grand Cayman, quasi nessuna delle genti che aveva interpellato aveva osato canticchiare la melodia o riportare un vocabolo. Gli indigeni ne avevano abbastanza, il sacrificio si era compiuto, l'uragano si era placato.

Solo l'uomo con la barba grigia e crespa, incontrato sulla spiaggia mentre cuciva una rete, gli aveva risposto, il suo modo di ringraziare il russo per avergli offerto del rhum nella cantina locale. Gli aveva messo in mano un foglietto, la trascrizione di una parola incisa sulla pelle di una capra, sigillata con un marchio dallo stregone: tanka. Nella lingua wolof africana, gambe.

Kozlov ripeté il rito una volta ancora. «Perché non mi ha ucciso?»

*Creature della mitologia scozzese simili ai tritoni che abitano le acque fra le Ebridi Occidentali e la Scozia, sempre in cerca di marinai da annegare e barche da affondare.

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