16. (PARTE PRIMA)
Il primo umano che Nettuno vide, appena approdò sulla costa nord-occidentale di Zante, fu un pastore di pecore che agitava in un movimento circolare il bastone e sollecitava gli ovini ad arrampicarsi su un tratto impervio disseminato di arbusti e olivi.
Le colline in lontananza erano avvolte dalla foschia dei pomeriggi afosi, vuote di particolari. I centri abitati parevano muoversi con gli esseri che vi si affollavano dentro: muli, cavalli, uomini in maniche di camicia che conducevano carretti e donne vestite di scuro a presidiare ogni uscio.
Il Dio del Mare osservò la porzione d'isola nello stesso modo in cui avrebbe guardato un alveare selvatico e i movimenti delle api. Alla vista si presentarono i segni delle guerre recenti e le famose gabbie di ferro di cui aveva parlato la figlia, dove i britannici rinchiudevano i corpi dei rivoltosi dopo aver raso al suolo le loro case.
«Non è diversa da Grand Cayman. Laddove a ovest le abitazioni sono violate dai segni del clima, qui a est lo sono dall'ingegno di guerra.»
Il Signore dei Venti, che seguiva in quota il dio delle acque, aveva narrato degli stupri ottomani, russi, francesi e inglesi. A Nettuno non interessavano le beghe umane, erano troppe e frequenti e della stessa sostanza dei capricci dei suoi figli. Non le comprendeva né si sforzava di farlo. Per lui era come assistere agli scontri per il cibo o per l'accoppiamento nell'oceano, vincitori e vinti, vivi e morti, ritornati e scomparsi. A volte sfiorava l'idea di assennatezza che le vicende del mondo si portavano dietro – la preservazione della specie, la risposta a un torto, la gelosia – e non poteva negare che persino lui ripeteva un meccanismo simile nelle punizioni agli squali pazzi o ai calamari abissali. Con gli anni si era imposto di ridurre gli interventi per assumere la dignità dell'osservatore imparziale, la forma pura di divinità a cui ambire.
Il braccio con il tridente scosse lo Ionio. Il Dio del Mare doveva badare a nascondere la figura imponente in una cala riparata; l'intensa attività navale non gli permetteva lunghe sortite in superficie, a meno di attendere il crepuscolo. Di notte sapeva di non avere molto tempo, non con i pescatori che uscivano in barca. Decise pertanto di attendere in una delle grotte blu aperte nel ventre delle scogliere occidentali.
Non passò molto che le specie marine dell'isola percepissero la sua presenza e andassero in processione a rendergli il saluto. Le tartarughe marine Caretta caretta e le foche monache furono le prime a raggiungerlo, seguite dalle meduse con l'aspetto di un uovo cucinato e dalle cernie brune. Nettuno fu lieto che le ostilità fra le tartarughe e le meduse fossero state messe da parte per il cerimoniale di accoglienza e ascoltò i sussurri delle stelle marine rosse che tappezzavano il fondale roccioso. Siccome, al pari della figlia che rimproverava, non era un tritone paziente, chiamò a raccolta le foche, i suoi animali preferiti, e chiese di portare un messaggio agli uccelli per il Greco.
Le foche si allontanarono a colpi di pinne con il loro nuoto ondulatorio, uscirono nel sole e guardarono verso l'alto con le teste grigie e lisce, gli occhi rugiadosi e tondi e i baffi bianchi che stillavano acqua. Mimetizzato sulle rocce, trovarono un succiacapre e gli inoltrarono il messaggio; l'uccello, intontito dalla luce e dal calore, non si mosse, una macchia più scura del materiale che occupava.
Le foche continuarono a latrare al succiacapre. Poi videro alcune berte maggiori, intente a cacciare, e coi versi da cane ne richiamarono l'attenzione. Le berte replicarono con un grido di voce quasi umana, bambini intenti a raccontarsi la giornata, e promisero di recarsi a Zacinto, la città. Con le ali strette e allungate si gettarono in mucchio sulla corrente eolica; oltrepassarono il cuore forestale dell'isola, il picco ricoperto di erba e fiori raggiunto dalle pecore e dal pastore, e discesero sulla costa sopra la città della forma di arco con le case stipate dai tetti di tegole; sorvolarono la chiesa e le palme e giunsero nella foresta dove il Greco abitava durante l'estate. Lo chiamarono, insistendo.
Adesso che era una brezza di terra ci si poteva ragionare, pensarono gli uccelli ma, se Nettuno si era scomodato per raggiungere l'isola, il guaio riguardava la mancanza della harpazein, colei che ghermiva. Le berte non volevano che la Sirena Alata tornasse a tormentarle e gli altri uccelli si beavano della mancanza della padrona.
Il Greco si alzò e fuoriuscì dalle cime degli alberi. Nel movimento, scosse i rami e sollevò l'arsura polverosa di sentieri nel cui mezzo crescevano serpenti d'erba. «Dovreste essere inoperose, non avvertite il pomeriggio? Ve ne andate in giro a strillare sulla terra quando il vostro posto è sul mare» disse alle berte con voce languida.
Le berte consegnarono il messaggio.
Il Greco si mosse in una raffica che ostentò il turbamento. Durò poco, sbatté le foglie e i fiori e l'aria tornò quieta. «Stanotte» disse prima di sprofondare di nuovo fra i cedri e i fichi.
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