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Di nuovo Natale

Quando prese coscienza di sé, era già il tramonto. Aveva nevicato per tutto il giorno, e la notte precedente, e le strade di Milano erano rivestite di una spessa coltre, per la quale uomini e bestie si aggiravano infreddoliti in cerca di ristoro. Egli, il duca, di ristoro ne possedeva in abbondanza. Sicuro sul trono più ambito, capo indiscusso del più potente e ricco ducato, marito innamorato d'una moglie innamorata, padre d'una prole numerosa e in salute, invidiato da tutti, da tutti stimato, poteva non a torto reputarsi l'uomo più felice non già solo d'Italia, ma del mondo.

Uscito dai propri appartamenti privati, si imbatté subito in una sfilza ininterrotta di servitori carichi di piatti, di tavole, di festoni, che a guisa di formiche avanzava nell'una e nell'altra direzione, inchinandosi ossequiosa al suo passare. Egli procedeva con scioltezza per quelle stanze, che avrebbe saputo riconoscere a occhi chiusi, tanti anni vi aveva speso, da fanciullo, da uomo, tanto l'aveva amate, desiderate, e infine possedute.

Una luce potente prorompé dalla sala, sul cui uscio si affacciò infine. Era la luce di cento doppieri e cento, pendenti dalle pareti, dalle tavole, dal soffitto. Era la luce che ardeva per la quantità di braci, di camini, di fiaccole, che si rifletteva nelle mille posate d'argento lucidissimo, nell'infinità di perle che adornavano i capelli e le vesti delle dame, negli splendidissimi gioielli, negli ori che arricchivano i colli loro, come quelli dei loro uomini. Era la luce della ricchezza, dell'eleganza, del benessere che la migliore parte dell'aristocrazia lombarda s'era compiaciuta di sfoggiare in occasione del Santo Natale.

Passato che fu il primo abbaglio, il duca fece scorrere attorno lo sguardo, e vide radunata inanzi a sé tutta la propria corte. I suoi segretari, i ministri, gli ambasciatori, i condottieri, tutti lì coi figli e le fresche consorti. Il bellissimo Galeazzo, in testa a tutti, sorrideva con una scossa al capo di riccioli fronduti, stretta al suo braccio la giovanissima Bianca, prossima a divenire sua sposa. Accanto la schiera possente dei Sanseverino, come in assetto: il maggiore Gian Francesco, che poggiava paternamente la mano sulla spalla del più giovane Giulio; l'iracondo Fracasso, aggrappato al pomo della spada, zittiva col suo sguardo ferino un'impertinenza del fratello Antonmaria, cui Federico cercava di porre rimedio, mentre i giovani Alessandro e Annibale accompagnavano la madre, la vedova Lucrezia Malavolti.

C'erano il giovane Marchesino, suo segretario, e i due fratelli Ambrogio e Bernardino da Corte. Il caro Biagino Crivelli, in compagnia del contino di Melzo, suo nipote, di Cristoforo di Calabria e Giovanni da Casale. E poi più avanti, insieme al fidato Ambrogio da Rosate, il tesoriere Antonio Landriani, Bergonzio Botta, Francesco Brivio e il capitano Ettore Fioramonte. C'era persino l'ambasciatore Giacomo Trotti, venuto in compagnia della nipote.

Per un attimo si guardò i palmi delle mani, come incredulo. Sentiva in cuore una strana contentezza, che non sapeva spiegare. Come di uno che si trovi a gustare un cibo, un profumo, per la cui assenza aveva sofferto a lungo. Ogni incertezza si dissolse quando altre mani si unirono alle sue: mani piccoline, grassotte, ma agili come saette. Erano le mani della sua Beatrice.

« Vieni, marito mio, è giunto il tempo! ». La voce dolcissima, un cinguettio quasi, trasudante letizia, alimentò nel suo petto una fiamma che giammai aveva smesso d'ardere, fin dal giorno primo che aveva riposato gli occhi nei suoi.

« Il tempo? » ripeté egli con un sorriso lievemente confuso.

« Ma sì, sì! Il tempo di ardere il ciocco, ti stavamo aspettando! »

Con le braccia tese in avanti, che lo tirava all'interno della sala, sempre ridendo, sempre scherzando, Beatrice era un sole, né egli riusciva a comprendere come potessero alcuni non giudicarla bella, se per lui era bellissima, con quelle guanciotte tonde che avrebbe baciato per ore, le labbra rubiconde, due occhi neri e vivi e splendenti come diamanti, e un corpicino formoso da bambola che sapeva mettere sapientemente in risalto. Era il ritratto dell'allegria e della giovinezza ed egli non comprendeva come avrebbe mai potuto vivere senza di lei. Ella aveva dato senso alla sua vita vuota, quando non viveva che per piaceri effimeri e vani, godimenti senza scopo, senza sapere a chi avrebbe un dì giovato il sacrificio di tante ricchezze, di tanto potere accumulato col tradimento e col sangue. Adesso sapeva per chi combatteva, e si batteva per lei, perché a lei rimanesse infine l'impero che stavano insieme edificando, e ai figlioli loro.

Beatrice si staccò da lui per compiere una piccola, bizzosa giravolta; la gonna di seta dorata si enfiava, sospinta dal turbine dell'aria; il lunghissimo coazzone stretto in nastri di perle tondissime, e tanto lungo che quasi sfiorava il pavimento, ammaliava col suo movimento ondulatorio. Abituata da sempre a comandare, e a obbedire mai, ella batteva le mani, incitava i musici a dar fiato agli strumenti nelle accese melodie, e trascinava le donzelle in una danza vorticosa, senza fine, che fine ebbe solo per consentire al duca di porre il ciocco ad ardere sul fuoco, e così dare nuovo principio alla festa.

Cantarono, danzarono, banchettarono fino a sentirsi dolere le pance, intrattenuti dai lazzi del sempre gioviale Mariolo che porgeva risate per tutti. Ludovico al posto d'onore, col calice di vino in una mano, e nell'altra il viso della consorte, che non smetteva un momento di baciare, era tanto felice da temere di morirne, e ben si poteva scorgere sul margine del ciglio una lacrimuzza come rugiada brillare.

Si giunse così all'atto ultimo della serata, estremo sprazzo di giovialità condivisa prima che ciascun uomo si ritirasse nel suo diletto privato, a congiungersi amorosamente con le rispettive donne. Si udì suonare la nona. Dal fondo della sala comparvero a coppie servitori recanti lunghe tavole sulle quali, in vassoi d'argento ornati da vischi e centrini, facevano bella mostra di sé certi pani dolci farciti di uvetta e altri canditi, che nessuno aveva invero mai veduto, il primo e il più grosso dei quali fu condotto al duca Ludovico.

« Cos'è? » domandò questi rivolto alla moglie, frattanto che lo scalco trinciava una fetta sotto al suo naso. « Un'altra delle tue diavolerie? »

« Tu », rispose la moglie, con un sorriso soddisfatto: « Tu assaggia e basta ». Raccolse tra le dita la fetta e l'accostò alle labbra sottili del marito, il quale non esitò a dare il primo morso. Una sinfonia di sapori si sprigionò allora nel suo palato: la morbidezza del pane unita alla dolcezza dell'uva, cui faceva guerra l'aspro pizzicorio degli agrumi e dei cedri canditi, l'essenza stessa dell'arancia; una reinvenzione del tradizionale pane dolce lombardo, arricchito di lievito, miele e uva secca, che da ultimo giungeva a dare degno completamento al quadro idilliaco della serata.

Sollevò gli occhi dal dolce per posarli sul volto amatissimo della sposa, ch'era lì avanti a lui e sorrideva, e solo avrebbe voluto esprimerle la propria contentezza, ringraziarla per quella sorpresa, e dirle quanto l'amava, ma tante erano l'emozioni provate, e tanto forti insieme, che non riuscì a parlare. Era questo il giorno più bello della sua esistenza? Più bello del giorno in cui s'erano sposati? Di quando l'aveva finalmente persuasa a unirsi a lui, o ancora di quando aveva preso in braccio il primo biondissimo frutto del loro amore, l'erede agognato? Più bello del giorno in cui era divenuto duca di Milano? Non lo sapeva, era felice e basta.

Allungò una mano per sfiorare ancora una volta, l'ultima volta, l'amorosa sua guancia, e però l'immagine s'increspò come in uno specchio d'acqua. Egli non comprese, ma il cuore gli si raggelò nel petto. Si guardò attorno: ogni cosa era immobile, i sorrisi dei convitati pietrificati in maschere raccapriccianti, bocche dalle quali non usciva più alcun suono, dita che pizzicavano corde di mute viole. Persino la fiamma s'era fermata, sulla cima delle ormai fredde candele.

Gli si fece buio all'improvviso. Solo allora comprese. In preda a un'angoscia tremenda si volse a cercare nuovamente la moglie, come quell'unica cosa che avrebbe voluto trascinare con sé dall'altra parte, costretto com'era a tornarvi, poiché nulla di quanto aveva posseduto in vita gli pesava di dover lasciare, come di dover lasciare lei. Non vi riuscì: il profilo bellissimo della sua amata scivolò insieme al resto nell'ombra, liquefacendosi, deformandosi, svuotandosi, fino a fondersi col teschio che riposava tra le pareti della piccola nicchia, la quale sovrastava il suo letto.

Ecco, comprese, e una lacrima rigò la guancia scavata del vecchio che era divenuto, pietoso avanzo d'una morte che ancora tardava a venire. Comprese il gioco crudele del destino a suo danno, a lui che aveva creduto avverarsi il sogno vagheggiato in dieci anni d'incessanti preghiere, senza tregua rivolte a un cielo che sempre gli era rimasto muto. Un'illusione, anch'essa dissoltasi nell'abisso del ricordo. Né v'è maggior dolore che rammentarsi del tempo felice nella miseria.

« Signor duca...? »

Il vecchio si volse, nell'udire l'antico richiamo. Era di nuovo Natale, lo era anche per lui come per il mondo là fuori, ma in quella cella non conosceva ristoro. Dov'erano gli altri? Dov'era la sua ricca, felice, festevole corte? S'erano tutti rifatti una vita, o erano ben presto trapassati; egli solo, abominevole larva, si trascinava ancora in quella turpe esistenza, né vivo né morto, intrappolato. Sotto la volta dipinta di stelle rosse e gialle, anelito di liberazione, tra le quattro pareti ossessivamente solcate da scritte e da segni malinconiosi e guasti, il suo fido servitore, il suo ultimo amico, l'osservava impensierito. Era Pier Francesco Pontremoli, uno dei tre soli cortigiani d'un tempo che avesse deciso di condividere con lui le pene della prigionia. Anch'egli però, Ludovico ne era certo, contava ormai le ore che lo separavano dalla sua morte, e per conseguenza dalla libertà.

Con uno stanco rotear d'occhi tornò a scrutare la nicchia. Non sapeva di chi fosse quel teschio. Stava lì quando era venuto e lì sarebbe rimasto quando che se ne fosse andato. Non osava chiederne la rimozione, ma non ne sopportava più puranco la vista: contemplare il fondo di quelle orbite vuote, della cavità privata del naso, pensare che quelle ossa sporgenti avevano ospitato la morbidezza delle guance, il rossore delle labbra, che sangue vivo scorreva un tempo sotto quelle ossa, non faceva che rammentargli come a quello stato dovesse essere ormai ridotta anche la sua Beatrice, né poteva sopportare l'immaturo corrompersi di tanta bellezza in una piccola fossa.

« Signor duca? » ripeté lo sconsolato servitore.

« Non chiamarmi così », lo ammonì infine il vecchio, con un'amarezza che rifletteva l'afflizione dell'anima. « Non sono più un duca, ma l'ombra di quello che fui ». Si rizzò a sedere sul giaciglio che di pietre, non di piume, pareva fatto, e che pur lasciava sempre più raramente ormai, abbattuto com'era dalla malinconia, divorato dalla gotta.

Pier Francesco, che teneva aperto sulle ginocchia il libro della Commedia del Dante, e credendo in buona fede che il malumore del duca fosse provocato dal non aver udito, a causa dell'imprevisto sonno, quella lettura che sola era di sollievo alla sua anima, provò a domandare: « Desiderate che vi legga un canto del Paradiso, o quell'ultimo del Purgatorio che più vi piace? »

Ludovico scosse la testa bianca, e sempre più rada; un gorgoglio lugubre fuoriuscì dalla sua gola, all'atto di rispondere: « Non è più tempo per ciò che mi rendeva felice ». Lo tormentava financo il ricordo di quante volte si fosse fermato a udire quelle letture, al fianco della sua amata, quand'era duca e non cattivo, in salute e non malato, osannato da tutti e non da tutti dimenticato, quando con ragione si reputava l'uomo più felice di questo mondo. Ormai ogni pietra, ogni graffito, ogni minimo granellino di polvere di quella cella gli parlava di lei, di sé, di ciò che erano stati, né lo poteva più sopportare. Quasi con rabbia rivoltò le spesse e ampie pagine del libro, che si serrarono in un sinistro boato. « È giunto il tempo del rimpianto ormai ».

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Spazio autore:

Nel presentarvi questa breve novella, che desideravo scrivere da almeno cinque anni, ma che rimandavo a ogni Natale (mi sono decisa infine l'anno scorso), non ho fatto anticipazioni proprio per non rovinarvi la sorpresa. Non serve ripetere quanto Ludovico amasse la moglie, non fino a qual punto avesse legato la propria esistenza a quella di lei, non quante e quanto grandi pazzie fece in seguito alla sua morte, quante dolci e commoventi parole, quanti gesti e quanti pianti. Con l'anima finì di vivere in quello stesso 2 gennaio 1497 che gli portò via la sua consorte, col corpo si trascinò ancora, prima recluso, poi rinchiuso, fino al 1508, quando si spense in una tetra prigione del castello di Loches, dove l'antico avversario Luigi XII l'aveva condotto in catene. Mi è piaciuto rammentarlo così, con questo contrasto tra l'immensa felicità di prima, quando possedeva tutto, e l'incommensurabile miseria di poi, quando non gli rimaneva altro che il ricordo. Nella sua cella, quale ultimo desiderio, aveva chiesto di portare una copia della Divina Commedia di Dante, della quale la moglie Beatrice era stata appassionatissima, e le cui terzine possono scorgersi ancora oggi incise sulle pareti della sua cella, seppur corrose dal tempo.

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