- Capitolo Trentatre (parte 2) -
Non riuscivo a tenere gli occhi su Noah, era un ammasso di slalom, salti, percorsi, incroci fra loro. Da dove ero in alto il primo tragitto non potevo vederlo, avevo davanti a me solo un pezzo della loro sfida, quello finale. Vidi la moto di Noah che cercava di tenere il passo con il ragazzo vestito di rosso che aveva davanti, che continuava a tagliargli la strada speronandolo.
«Chi è quello?»
«Quello con la tuta rossa?»
Annui con lo sguardo rivolto verso il biondo.
«Quello è Red, non lo abbiamo mai visto dal vivo, viene e va sempre con il casco in testa. È un tipo a posto, ma sempre in cerca di guai. Sai, è stato lui a sceglierti, forse perché sembravi l'unica troppo vestita in un ammasso di corpi nudi.»
Vidi Red speronare ancora una volta Noah e mi infiammai.
«Ehi, che fa quell'idiota?»
«Nulla che non sia consentito. Qui è concesso tutto.»
«Tutto?»
«Ragazza, ma da dove vieni? Sembri cadere dalle nuvole.»
«Scusa, è la prima volta qui.»
«Fammi capire bene. È la prima volta che vieni qui e la prima volta che fai da premio?»
«Emh... Sì?»
«Dio ragazza. Non sei di qui, vero?»
«Si nota?»
«Un pochino. A parte quello che mi hai detto. Sono anche i tuoi vestiti a parlare per te.»
La guardai di sbieco con freddezza e tornai alla gara.
Non amavo chi sparava sentenze gratuite solo sull'apparenza.
Da quando una persona poteva essere giudicata per come si vestiva?
Non bastavano l'atteggiamento e i tatuaggi a essere motivo di pregiudizi sulle persone o ora anche gli abiti?
«Non ti sto giudicando, credimi, ma guardati intorno. Noti felpe o pantaloni Adidas indossati da qualcuno? O per di più code sfatte? Qui si vive allo sbando, non parlo di Berkeley, ma parlo del bunker. Minigonne, top e capelli perfetti sono essenzial per le ragazze.Vogliono sentirsi belle per una sera e apprezzate da maschioni alfa.» Mi voltai e la guardai nei suoi pozzi neri. Il sorriso continuava a leggiare sulle sue labbra, come se fosse dipinto. L'espressione di sincerità che aveva, era come un vestito cucito addosso. Non mi stava giudicando, ma solo constatando il vero.
Ero fuori luogo, e oltre ad esserlo, mi sentivo proprio così.
Shaki era talmente affabile come persona che sembrava Charlie. Riusciva a trasmettermi una serenità che provavo nel confidarmi solo con lei.
«Diciamo che non è il luogo in cui farei colazione ogni giorno, e nemmeno il luogo in cui passerei le mie giornate.»
«Oh tranquilla, molte delle ragazze che vedi la pensavano proprio come te, ma lo studio e lo stress di questa università molte volte portano a volersi sentire libere anche solo per una sera.» Disse continuando a guardare ogni tanto giù verso la corsa.
«Dai Carter!!!!»
La sentii urlare di punto in bianco e mi girai di scatto.
Noah o Carter come veniva chiamato, stava affrontando l'ultimo cerchio di fuoco per recuperare l'ultima chiave. Il rosso le aveva già tutte e si avvicinava alla grande salita che con un salto avrebbe portato a me.
Dio fa che non vinca, non lui, ti prego non lui.
Vidi Noah riuscire a prendere l'ultimo fiocco con la quinta chiave e nello stesso istante il pilota in rosso fermarsi e rallentare.
«Adesso salterà per venire qui, quindi preparati.»
«Ma cosa dovrei fare?»
«Nulla, seguirlo una volta che aprirà.»
«Oh mio Dio. Non riuscirà mai a farlo. Si farà male, è totalmente pazzo!!!»
Shaki si mise le mani sulla bocca e poi nei capelli, ma riuscii a vederla solo con la coda dell'occhio.
Mi ero girata già alla prima parola e il presentimento che avevo avuto appena avevo messo piede all'interno del bunker si rivelò con tutta la sua potenza.
Chiusi gli occhi per poi riaprirli subito.
Avevano ragione quando dicevano che era il migliore, perché il suo portamento e la sua guida erano da vero re, ma la pazzia era tutta un'altra storia.
Il mio cuore andò di pari passo alle immagini che si susseguivano a rallentatore di fronte a me.
Le sensazioni che avevo avuto quella sera non erano positive ed ora si stavano rivelando per quello che erano, presagi di morte.
La pazzia che vidi nei movimenti di Noah fu qualcosa che non avevo mai visto, voleva vincere il premio o magari voleva vincere perché in fondo era lui il migliore.
Il rosso che frenava e rallentava per procedere ad accelerare per la salita, e Noah che sbucava dietro accelerando e spingendo la moto a tutto gas per saltare.
Non sapevo come funzionasse quella salita, ma sicuramente se Red aveva frenato per accelerare ed eseguire il salto, anche lui avrebbe dovuto farlo.
Chiusi gli occhi e strinsi le mani a preghiera.
Fa che arrivi sano e salvo.
«Ty ma che fai? Apri gli occhi, ti perderai la parte più bella.»
Di scatto le diedi retta e vidi quello che non volevo vedere.
Noah con tutta la moto in accelerazione, riuscì a saltare con la sua due ruote, riuscendo anche ad allungarsi su di essa.
Nel momento in cui si avvicinò a noi, vidi la moto scendere sempre di più.
Mentre scendeva pregavo Dio che riuscisse ad arrivare a me per la voglia che avevo di prenderlo a sberle.
Era totalmente spericolato, totalmente fuori di testa.
Tappai gli occhi con le mani per non vedere la sua caduta, ero sicura che sarebbe caduto, non aveva altre possibilità.
Non ce l'avrebbe mai fatta.
Sentii un tonfo e poi un silenzio assordante, a muoversi era solo la mia gabbia.
Sentivo odore di bruciato, di gomma e di pelle bruciata.
Un boato esagerato esplose per tutto il bunker tra applausi e schiamazzi.
Cosa cavolo ridevano e urlavano se Noah era caduto per colpa delle loro stupide gare?
«Ty?»
«Non voglio vedere,» dissi con gli occhi appannati da lacrime mai versate e tirando su con il naso.
«Plucky?»
No, non era possibile.
Tolsi le mani dagli occhi e persi alcuni secondi ad abituarmi di nuovo alla luce, quando focalizzai il suo viso.
Ci guardammo per lunghi istanti, realizzando forse cose che non volevamo nemmeno realizzare.
Avevo avuto paura. Ma una paura talmente grande e totalizzante che mi aveva ridotto il cuore in tanti piccoli aghi appuntiti, che mi aveva fatto vibrare anche il più singolo capello, quella che in vita mia avevo provato solo una volta.
Solo che questa volta la mia paura era strana, abnorme e soffocante.
Io non volevo pensare che perderlo mi avrebbe fatto così male.
Una persona che per me non era nulla, insignificante.
Tra di noi c'era qualcosa.Era palese per entrambi.
Non volevo attaccarmi a lui. Scoprire chi era e magari innamorarmi di lui.
Non volevo tutto questo che mi circondava.
L'attrazione che avevo per lui stava sfociando in altro. Perché mi piaceva, davvero tanto, ma provare tutto questo mi aveva fatto capire una cosa: lui non era per me.
Volevo crescere da sola e volevo combattere le mie angosce.
Ma soprattutto volevo risollevare me stessa, senza bisogno di nessuno. Perché anche Noah un giorno se ne sarebbe andato, come tutti del resto.
Questo era quello che la vita mi aveva fatto capire: che non era il momento di vivermi qualcuno, non era l'amore adesso il mio presente, era il capirmi e risorgere.
«Plucky?» Vidi la carne uscire dai guanti bruciati, vidi la sua faccia rossa dopo che aveva tolto il casco e aperto la gabbia.
Vidi i suoi occhi scrutarmi.
«Shaki lasciaci soli.» concluse cercando di avvicinarmi restando in bilico sulla moto.
«No Shaki, portami giù dalle mie sorelle,» conclusi guardandolo ancora.
Vedevo che non voleva mollare la presa, che aveva bisogno di parlare, vedevo da come mi scrutava. Sospirò e si aggiustò i capelli ormai ridotti uno schifo per il sudore.
«Per favore,» aggiunsi.
Guardai Noah con sguardo supplicante, immaginavo che essendo lui il vincitore aveva vinto me come premio figurativo, quindi lo pregai di lasciarmi andare.
Mi studiò un'ultima volta e poi si voltò verso Shaki: «Vai. Portala dalle sorelle, poi accompagnale all'uscita.»
Ripercorsi il tragitto al contrario, raccattai i miei vestiti che trovai nella stanza e seguii Shaki per raggiungere Celine e Crystal.
Le mie sorelle, che avevano sospettato qualcosa dalla mia faccia, mi avvolsero in un abbraccio.
«Stai bene?» dissero insieme senza nemmeno programmarlo.
Un sorriso sincero affiorò sulla mia bocca.
«Adesso sì, ma voglio andare a casa.»
«Grazie, Shaki.» Guardai la ragazza che mi sorrise a sua volta accarezzandomi la spalla.
«Di nulla, questo è il mio numero; se passi ancora fammi sapere e tieni la tuta, sta meglio a te.» Mi allungò un bigliettino di carta con il suo numero di telefono e dopo una piccola stretta simile a un abbraccio sparì verso la folla.
Guardai mia sorella, ma il suo sguardo non era rivolto verso di me, bensì dietro di me.
Involontariamente mi girai e... boom.
Non so cosa mi fece più schifo: il fatto che la volgarità facesse parte di lui, o lei che si faceva sbattere contro un muro, anche se a impedirlo c'era solo la tuta avvolta sui fianchi di Noah.
Notai l'esatto momento in cui lui vide me.
Ci guardammo ancora per minuti, mentre lui continuava a infilare la lingua in gola alla bionda con il viso d'angelo.
Quando osservai che con gli occhi incollati ancora su di me, una mano di lui afferrava un gluteo della ragazza e una mano di lei si infilava sotto la t-shirt che portava addosso, decisi che poteva bastare.
Sapevo com'era Noah: lo avevo visto in hotel, nell'ascensore, con il livido violaceo sul collo, lo avevo visto alla festa di benvenuto, ma così sfacciatamente mai.
Mi girai di scatto verso Celine e la chiamai, visto che stava parlando con David.
«C, vorrei tornare a casa.» Si girò sentendo la mia voce e analizzando i miei occhi, acconsentì ancora prima che avessi finito la frase.
Avevo bisogno di spegnere i pensieri e soltanto una bella dormita mi avrebbe potuto aiutare.
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