- Capitolo Tre -
Andare a Sacramento significava tante cose.
In primo luogo dover frequentare l'ultimo anno di scuola in una nuova città, senza amici, ma soprattutto, senza la mia migliore amica Charlie.
La sera precedente, in preda alla disperazione l'avevo chiamata per dirle tutto quello che era successo, e lei aveva capito ancor prima di me, che non c'erano soluzioni.
La salutai promettendole che ci avrei provato a far cambiare le cose, che sarei rimasta con lei in un modo o nell'altro perché la nostra università, quella che avevamo sempre sognato insieme ci avrebbe accolto l'anno seguente.
Berkeley.
Cavolo quante volte avevamo fantasticato insieme, talmente tante da decidere di fare domanda lo stesso giorno, nello stesso momento e nello stesso luogo.
Insieme come sempre.
Volevamo stare nello stesso dormitorio, avevamo immaginato la confraternita che ci avrebbe accolto, il numero della stanza, sul piano, sui ragazzi che avremmo trovato, sulla nostra prima festa.
Una sera di qualche mese fa, mentre mangiavamo una pizza a casa sua, avevamo stilato il nostro programma per l'estate prima del college.
Dovevamo partire dal Texas, fare una vacanza on the road visitando i posti che ci piacevano di più e poi recarci direttamente a Berkeley.
Avevamo tanti sogni insieme, mille progetti, tante esperienze da fare prima di recarci là.
Come se fossero tutte piccole tappe prima del grande traguardo, perché era questo che significava andare là, per noi.
Prima di riagganciare il telefono, Charlie mi disse che nonostante la decisione che avevano preso i miei genitori, noi eravamo sempre noi, l'una il braccio dell'altra e ci saremmo sempre state nel momento del bisogno.
In effetti sapevo che lei ci sarebbe sempre stata, che un anno non avrebbe cambiato nulla nella nostra forte amicizia.
Il problema maggiore, in questo caso, era fare nuove conoscenze.
Per me, che avevo faticato a mantenere i rapporti che avevo, sarebbe stato un vero dramma.
Prima di quella dannata notte, ero sempre stata allegra, una ragazza spigliata, amante della vita, sempre in giro con Charlie a fare cavolate, dettate dalla nostra spensieratezza.
A volte, si univano a noi anche le mie sorelle, ma la maggior parte del tempo a fare stupidaggini eravamo solo noi.
Ci divertivamo ad andare al mare, a fare il bagno nelle notti più buie, dove c'era solo la luna ad illuminarci.
Ad allungarci su un unico sacco a pelo, in modo da stare vicine per guardare le stelle ed esprimere desideri anche alla luna.
Ci piaceva talmente tanto farlo che decidemmo di farla diventare una nostra tradizione, un punto di incontro.
Ogni anno nel giorno del mio compleanno o del suo, ci davamo appuntamento a mezzanotte esatta, nella spiaggia più vicina. Era il nostro momento.
Andavamo contro tutti, contro la paura, la rabbia, il pericolo, perché eravamo insieme e ci sentivamo invincibili.
Bastava che una delle due scrivesse la parola "mare" in un messaggio, nei momenti bui, e l'altra avrebbe capito che avevamo bisogno della nostra vicinanza.
Come una regola, una parola chiave.
Quando volevamo scappare da qualcosa, una litigata, una persona invadente, una situazione imbarazzante, bastava dire la parolina magica all'altra, anche sottovoce, e si trovava sempre il modo di scappare da ciò che per noi, era una lieve minaccia.
Le volevo bene come una sorella, un bene viscerale, ma neanche lei era riuscita a salvarmi.
Si era arresa mesi fa e ora il pericolo mi faceva solo paura.
Tutto mi faceva paura, il buio, i passi che sentivo dietro di me mentre camminavo per strada, una risata sentita in lontananza.
Sussultavo sempre quando qualcuno mi toccava anche solo per chiamarmi.
Charlie lo sapeva e cercava sempre di non farlo.
La paura che sentivo era diventata come una seconda pelle, come un velo che mi circondava, come un'amica che mi accompagnava costantemente.
Anche ora mi stava tenendo la mano. Mi aveva spronato a prendere una decisione.
Ma forse, in questo caso, confondevo solo il mio istinto di sopravvivenza.
L'ultima possibilità di salvarmi dall'inferno che Sacramento rappresentava per me.
Avevo deciso così di fare un ultimo tentativo con i miei genitori.
Uscii dalla mia camera in punta di piedi, attraversai tutto il corridoio e scesi le scale diretta in cucina.
Mi bloccai a metà percorso quando vidi pile di scatoloni ovunque.
Dal salone immenso, alla cucina ne potevo contare più di cinquanta.
Sul divano, sul tavolo, vicino la porta, sugli ultimi gradini delle scale, vicino al camino, persino i tappeti erano stati arrotolati e imballati.
Più camminavo dentro tutto quel caos, più notavo differenze.
Quadri mancanti alle pareti insieme alle nostre foto da bambine, la cornice che Celine aveva regalato alla mamma per il suo compleanno.
Tutte le polaroid messe da Crystal sul camino insieme ai gingilli di mia madre.
Tutto sparito.
Lampade e cuscini si intravedevano dagli scatoloni, vicino la finestra.
Due ragazzi, forse della ditta dei traslochi, stavano spostando alcuni scatoloni dal divano per poterlo imballare e portare via.
Altri due, stavano invece staccando il famoso lampadario di cristallo di mia madre.
Il primo acquisto che fece dopo quella notte.
Ogni volta che lo guardavo, mi ricordava che lo aveva comprato con la mia pelle.
Non potrò mai scordare la faccia di mio padre alla vista di mia madre, mentre dava direttive su dove metterlo il giorno in cui lo comprò.
Non volevo scendere dalla mia camera quella mattina, ero distesa a letto che guardavo il soffitto, ma un fracasso di cose accatastate che cadevano, nel piano inferiore, mi fece sollevare per la paura.
Senza mettere le ciabatte corsi per il corridoio per fermarmi un'attimo dopo, nel mezzo della scala.
Eravamo accorsi tutti, chi per un motivo e chi per un altro.
Celine con lo smalto in mano, papà con le mani sui bottoni della camicia e Crystal con l'accappatoio e il sapone che le grondava dai piedi.
Tutti guardavamo una sola persona, mia madre.
Come se non fosse mai successo nulla, tutta raggiante, con un vestito rosa confetto, dava istruzioni su quell'oggetto, come se fosse più delicato di me.
Come se potesse portare sollievo in un momento del genere.
Come se la sua famiglia una settimana prima non si fosse spezzata a metà.
Come se la sua ultima figlia non avesse rischiato di morire.
Ma quello che mi fece più male, fu il sorriso e la felicità che lessi sul suo viso, mentre si rivolgeva a mio padre con tanta semplicità.
«James, guarda il mio gioiello, l'ho appena preso, è costato una fortuna, ma ne è valsa la pena!»
Mio padre la guardò impassibile, si mise le mani tra i capelli scuotendoli, poi mi guardò, si girò e se ne andò.
Distolsi lo sguardo dal lampadario per lo schifo che mi riportò alla mente.
Continuai a perlustrare la stanza per vedere se la mia piccola parte del salone era già stata portata via.
In un angolo vicino alla finestra che dava sul nostro viale, illuminato dai raggi del sole, c'era il mio migliore amico.
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