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- Capitolo Sedici -


Noah.

Il suo nome era tutto ciò che lui non rappresentava.
La purezza e la calma andavano in netto contrasto con ciò che mostrava.

Ero rimasta immobile, dopo che era andato via, per cinque minuti buoni.
Non riuscivo a capacitarmi dell'arroganza e della bellezza rinchiusa in un unico corpo.

Tutto era contraddizione.
Tutto era pura lussuria.

Ma nonostante questo, aveva stregato ogni parte di me, anche la più insignificante.

Mi aveva toccato, seppur per forza delle circostanze, e in un istante mi ero accesa come una lampadina.

Non comprendevo come il mio fisico, dopo anni di morte silente, in quel momento, bruciasse vivo tutto insieme.
Ma quello che avevo perfettamente capito era che lui era diverso dagli altri.

Il suo corpo mi ricordava un falò in pieno inverno, caldo e accogliente, e volevo essere io quella persona solitaria che sedeva su un tronco, ad ammirarlo.
Volevo venerarlo e farlo mio, anche se mi ero mostrata come una stupida ragazzina alle prime armi.

Come se non lo fossi poi.

Noah, nonostante i suoi vent'anni, era un uomo fatto e finito.

Poteva guardare una donna come me, chi alla mia età aveva avuto tutto dalla vita?

Sbuffai pensando a quante possibilità avevo di incontrarlo di nuovo, forse una o due su un miliardo, ma avevo così bisogno di rivederlo che quel pensiero mi fece paura.

Esasperata, mi incamminai diretta al bar che avevo adocchiato di fronte all'hotel.
Feci colazione e andai direttamente dai miei genitori, zaino in spalla e voglia di partire pari a zero.

Mia madre e mio padre si alzarono contemporaneamente dalla sedia, rivolgendomi domande diverse con espressioni diverse.

«Pronta?» disse papà con compostezza.

«Perché non sei scesa prima?» chiese mamma con rabbia negli occhi.

Due mondi opposti ma così vicini.
Come facevano a coesistere insieme?

Non capivo perché, dopo quello che avevo vissuto, vederli così affiatati mi faceva venire il voltastomaco. Ma forse non l'avrei mai capito.

Stanca dei loro modi così bruschi, tagliai corto e mi incamminai direttamente verso l'uscita.

«Ci vediamo alla macchina, quest'aria puzza» affermai, riferendomi alla loro vicinanza.

Dissero qualcosa, ma io ero già lontana per sentirli.
Non mi sarei mai più preoccupata di loro, potevano dire quello che volevano.

Il viaggio in macchina fu poco rilassante, ma passai la maggior parte del tempo con la musica nelle orecchie.
Dopo quasi otto ore, ci inoltrammo in una strada circondata da villette a schiera.

Le adoravo, tutte uguali, ma ognuna di una tonalità diversa di bianco.
Speravo invano che una delle tante fosse casa nostra, ma quando papà si fermò davanti a un cancello, ebbi la conferma che Crudelia De Moon-mia madre, aveva colpito ancora.

Superato il grande colosso in ferro battuto, altre ville ci diedero il benvenuto nella via, tutto sputava soldi, anche i cespugli. In lontananza catturò la mia attenzione una villa grigio perla maestosa e bellissima che si ergeva in tutta la sua fierezza.
Sperai mentalmente che non fosse la nostra, era troppo sfarzosa anche per gli standard dei miei.

La macchina proseguì fino a trovare un cancello aperto, cespugli e alberi ovunque e una piccola villa al centro.
Sospirai, da una parte felice perché la casa non era quella che avevano sorpassato qualche minuto prima, dall'altra ero amareggiata perché papà si era fatto abbindolare ancora.

Esternamente era proprio il prototipo di mia madre, l'unica pecca era il portone: rosso rubino.

Ma quello che mi destabilizzò, e che notai una volta arrivata vicino al garage, fu Nicholas appoggiato alla sua Jaguar.

Cazzo.

Papà parcheggiò e scendemmo.
Bastava guardare i nostri volti per vedere il grado di emozione che suscitava il mio "futuro marito".
Mia madre era ultra sorridente, i miei occhi trasudavano rabbia cieca e papà come al solito era impassibile come una pietra.

Tre persone, tre umori diversi, ma un'unica brutta realtà.

«Nicholas, che bello rivederti» disse mia madre.

«Il piacere è tutto mio cara! Dovevo dar pur il benvenuto alla mia sposa»

Mi veniva da vomitare, non feci in tempo a rispondere, che mia madre già mi aveva minacciato con lo sguardo.

Sapeva della mia lingua tagliente, quindi si stava assicurando la mia devozione.

Non aveva capito proprio nulla.

«Rose, mia cara, spero la casa ti piaccia, ci vedremo una sera di queste a cena.» disse Nicholas guardandomi con occhi languidi.

«Certo caro, sarai sempre il benvenuto» affermò mia madre mentre gli poggiava le mani sul petto.

Il bastardo riuscì a svincolarsi da lei con estrema gentilezza, incamminandosi verso di me.

L'ansia cominciò a farmi battere il cuore così forte, che tanti passi faceva lui e tanti ne facevo io.

Dal lato opposto però.
Lui avanzava, io indietreggiavo.

Intuì il mio gioco e si fermò guardandomi.

«Felicity» sorrise malvagiamente.

«Stà lontano da me»

«Non potrei mai, agnellino»

«Io non sono tua» la mia gola si strinse in una morsa, mi faceva schifo anche il solo guardarlo e quel nomignolo poi, mi provocava solo brividi di paura.

«Ancora per poco.» disse guardandomi le gambe.

Avevo bisogno di una doccia, bollente.
Mi sentivo sporca, sudicia.

«Che vorresti dire?»

«Tua madre non te l'ha detto? Di Cuba?»

«Cuba? Di cosa sta parlando?» allarmata guardai mia madre, ma lei come se niente fosse successo, si stava limando le unghie.

«Un anno... e sarai mia per sempre.»

Mi bloccai, diventando una lastra di ghiaccio.
Fredda, ferma ma tanto fragile.
Guardai mio padre di sfuggita, stringeva i pugni, ma il suo viso manifestava solo indifferenza.

«Felicity, da domani comincerò ad organizzare il tuo matrimonio... Nicholas ci ha proposto di farlo nella sua villa a Cuba» affermò mia madre, mentre continuava a guardarsi le unghie.

Come se stesse parlando della lista della spesa, come se io non fossi presente.
Mi faceva sentire invisibile.

«Voi siete pazzi, questo è umanamente impossibile. Non puoi comprarmi, è illegale cazzo!» dissi allargando le braccia per poi passarmi le mani tra i capelli.

«Ma infatti io non ti ho comprato... hai carte che lo attestano? A chi crederebbero poi? A te? O a un multimiliardario? Io ho tutti ai miei piedi, tutti, ricordalo.»

Dio mio, come potevo ragionare con loro.

All'improvviso si avvicinò e io mi congelai ancor di più.

Sentire il suo profumo e il suo fiato così vicini mi faceva paura e schifo allo stesso tempo.
Mi girò intorno come se fosse un serpente velenoso e io un piccolo topolino indifeso.
Si fermò dietro di me e con un dito percorse tutta la mia figura, dalla mano fino alla clavicola.
Sentivo il suo sguardo fare lo stesso percorso delle sue dita.

«Tu sarai mia ancora, ma per tua volontà. I tuoi hanno accettato un piccolo compromesso, è vero, ma sarai tu a volermi».

Risi talmente forte da farmi uscire le lacrime.

«Voi siete pazzi... pazzi!»

«Tu sarai pazza di me. Vedrai... » disse avvicinando la bocca al mio orecchio.

«Morirei piuttosto... mi fai schifo!»

Scappai in casa, non sapendo neanche dove andare.

Ero appena arrivata e già volevo fuggire lontano, per abitare a chilometri di distanza. Non avevo più speranze, in fondo.

Era venuto per rimarcare il possesso che aveva su di me.
Un possesso che si era preso di sua spontanea volontà, senza aver mai potuto dire la mia, ma del resto nemmeno i miei genitori.
Più guardavo intorno, più tutto mi puzzava di marcio, i mobili, le tende, tutto, ed era colpa di Nicholas. Avanzai verso il corridoio già pieno delle lamentele di mia madre dopo il nostro incontro e cominciai a dare una sbirciata alla nuova reggia.
Finestre a tutta altezza si ergevano in fondo all'immenso salone e al di fuori si vedeva una piscina con lettini e ombrelloni qua e là attorno ad essa.

Ci avrei scommesso che c'era tutto quello che una casa di ricchi potesse avere, tutto quello che avevo immaginato. Di certo non era come il villone che avevo notato alla fine della via, ma pur sempre una cavolo di reggia.

«Ah sei qui!» mia madre con il suo solito bicchiere di vino mi guardava da lontano con una innata dolcezza.

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