- Capitolo Quattordici -
Lo scannerizzai da capo a piedi e notai troppi particolari che mi attraevano.
Una maglietta nera che metteva in mostra i suoi addominali da capogiro, le dita delle mani piene di anelli e vene in risalto, i tatuaggi che contornavano il suo braccio sinistro, dalla mano fin sotto la manica.
Ne aveva tantissimi, una sirena, una rosa, una scritta, un tribale... e altri che non riuscivo a vedere bene.
Dio, come volevo guardarli da vicino.
Molto vicino.
Al collo una catenina argento brillava alla luce del sole.
Una mascella volitiva, due labbra rosse fuoco e carnose... e poi gli occhi.
Di un color cobalto destabilizzanti.
Dio mio!
Erano magnetici, di un blu così intenso da farmi mancare il respiro.
Ero sempre stata una ragazza che attirava sguardi, ma era difficile catturare la mia attenzione.
Ho sempre dato la colpa a quello che mi era successo, ma a questo punto avevo capito che il problema era uno solo: non mi interessavano.
Lui, in due secondi netti, mi aveva stravolto.
Abbassai lo sguardo velocemente, non volevo essere invadente e poi fissarlo così non mi sembrava molto appropriato.
Ma cazzo, era davvero di una bellezza travolgente!
Con un sorrisetto a metà bocca, di chi aveva già capito tutto, attirò la mia attenzione.
Brava Felicity, bella figura di merda!
Alzai gli occhi di nuovo.
Sembravo una bambina in pasticceria che guardava il suo dolce preferito.
Patetica!
Lui, forse esasperato dalla situazione, si passò la mano tra i capelli, guardandosi intorno.
Seguii le sue dita che si immergevano in una chioma castana con punte di un biondo accecante, talmente arruffata da farmi venire la voglia di scacciare la sua mano e immergere la mia.
Ma perché dovevo essere così patetica?
Esprimeva sesso da tutti i pori, ma evidentemente era anche stanco di trovarsi davanti ragazzine che si imbambolavano per la sua bellezza.
Avevo la voglia di parlargli, chiedere il suo nome, ma la mia lingua era talmente arida che non riuscì a tirar fuori nemmeno una sillaba.
Ero imbambolata nel vortice dei miei pensieri talmente tanto che sussultai allo squillo del suo telefono.
Lo sconosciuto lo estrasse dalla tasca dei jeans e rispose.
«Si? Arrivo Baby!»
Cazzo, la sua voce profonda ti eccitava solo a sentirla.
Ma da dove era uscito?
E poi... baby? Ma chi è che al giorno d'oggi usa ancora un nomignolo così.
«Tutto ok allora?»
Capii dopo un po' che si stava rivolgendo a me.
Mi sentivo così strana davanti a lui, non ero me stessa, mi provocava sensazioni sconosciute.
Mi ero rialzata da terra e il mio interlocutore continuava a guardarmi, aspettando una risposta.
«Sì, tutto bene» risposi, pulendomi entrambe le ginocchia.
Non feci in tempo a guardarlo di nuovo negli occhi che si era già allontanato.
Ma che diamine?
Non capivo cosa fosse successo.
Di certo era un gran maleducato, poteva anche salutare.
Ma con l'aria spavalda di chi ha già tutto nel mondo: donne, soldi e auto, lo vedevo allontanarsi tra la folla di persone.
Non passava inosservato, certo.
Ma a me aveva colpito particolarmente.
Mi sentivo stupida a pensare che farsi toccare da uno sconosciuto dopo quello che era successo due anni fa fosse giusto.
Ma sapevo le sensazioni che provavo di solito quando qualcuno mi toccava inconsapevolmente: gelo, brividi e paura.
Con lui, invece, avevo sentito calore, voglia di prolungare quella carezza, voglia di toccarlo a mia volta.
Stai vaneggiando...
Avrei voluto continuare il discorso, saperne di più su di lui, ma mi ero bloccata a guardarlo e non ero riuscita a dire qualcosa di più.
Sei sempre la solita.
La mia coscienza mi rimproverava ancora, consapevole del fatto che ero una frana nel cercare di attirare l'attenzione di un ragazzo.
E proprio quando un adone greco mi piomba addosso, io che facevo?
Il pesce!
Ma si poteva essere più stupidi e ridicoli?
Mentre mentalmente mi rimproveravo, un clacson attirò la mia attenzione.
Mio padre, dall'auto, mi faceva segno di raggiungerlo e di muovermi gesticolando.
Odiavo quando sbatteva l'indice sull'orologio per indicarmi di essere in ritardo.
Sbuffai di fronte alla sua impazienza e mi diressi verso la sua auto, senza però richiamare mia madre.
Magari l'avrebbe lasciata lì a marcire dal caldo.
Appoggiai la testa al finestrino e sospirai di nuovo.
La mia mente stava ancora fantasticando sul corpo dello sconosciuto. Era troppo bello per essere reale.
Ero talmente immersa a focalizzare bene ogni dettaglio che avevo notato, da non accorgermi nemmeno che mia madre era salita in auto e papà era già partito.
«Ty, rimaniamo a dormire a San Diego, ripartiamo domani»
Lo disse così, non era un consiglio o una proposta.
Nemmeno un "ti va?" , un "che ne pensi?".
Nulla.
Contavo meno di zero e decisi di non rispondere proprio, continuando ad ammirare il paesaggio.
Il vento mi sferzava i capelli, eravamo partiti da un'ora e già non ne potevo più.
Salutare Galveston per me, era stata una tortura.
Avevo lasciato un pezzo di cuore lì.
Amavo quella città, le sue attrazioni, il mare, le spiagge, i tramonti e le albe.
E poi c'era Charlie.
Per non pensare a lei e a tutto il resto, focalizzai la mia attenzione sul paesaggio esterno.
Alberi folti e verdi si susseguivano senza mai terminare.
Il caldo e l'afa erano insopportabili; non potevamo accendere l'aria condizionata, altrimenti, mia madre, alias Crudelia De Moon, insinuava che potesse ammalarsi.
Eravamo quindi ridotti a soffrire le pene dell'inferno.
Sbuffai e, per passare il tempo, misi una mano fuori dal finestrino aperto per giocare con il sole.
Era stupido, ma da piccola lo facevo sempre.
Mettevo la mia mano aperta davanti al sole, come per coprirlo, e cominciavo ad aprire l'indice e il medio, formando una V.
Adoravo i raggi del sole che filtravano tra le mie dita.
Mi baciavano la pelle e formavano ombre strane sul mio viso.
Dopo quasi un'ora dalla partenza, ero ridotta ad un ammasso grondante di sudore e stanchezza. Avevo fame e avevo bisogno di una doccia.
I miei capelli, legati in una cipolla scomposta, erano umidi e il poco trucco che avevo messo a casa era completamente andato a farsi benedire.
«Manca poco», disse mio padre nella sua totale apatia, mentre cambiava stazione alla radio.
Non vedevo l'ora di riposarmi, il mio sedere si era appiattito per la seduta scomoda, il mio telefono era completamente morto e io ero sull'orlo di una crisi di nervi.
Immersa nei miei pensieri, non mi accorsi di essere arrivata in hotel.
Dopo aver fatto il check-in e aver preso la chiave prima degli altri, come un fulmine, presi la mia valigia dirigendomi verso la camera.
L'hotel era fantastico.
Ma l'indomani lo avrei visitato meglio, ero troppo stanca per camminare e ammirarlo.
Nel momento in cui entrai in camera, mi fiondai in bagno, feci una doccia e mi buttai nel mio letto, nuda solo in accappatoio.
Volevo dormire cinque minuti, prima di mangiare.
Ero abituata a dormire per ore dopo viaggi del genere; l'unica cosa che odiavo erano gli incubi.
Occhi neri, mani che mi prendevano con forza, odore di terra umida, urla... tutto ciò che mi ricordava quella sera maledetta.
Questa volta invece, per tutta la notte sognai solo un dettaglio: due occhi blu come il mare in tempesta.
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