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- Capitolo Due -

Una farfalla catturò la mia attenzione mentre volava vicino alla finestra.
Nel frattempo, involontariamente, notai come la musica, in pochi minuti, aveva svolto bene il suo lavoro.

Ero riuscita a tranquillizzarmi, il mio cuore batteva a un ritmo regolare, e il mio corpo non dondolava più come prima.
Ero esausta, ma tranquilla.
Sbuffai e mi abbracciai le gambe.

Avrei voluto solo chiudere gli occhi e tornare indietro di due mesi, con la consapevolezza di quello che sarebbe accaduto oggi, per avere già una soluzione fra le mani.

Con la testa poggiata sulle ginocchia, guardai di nuovo la farfalla.

Quell'esserino era bello, grande, maestoso, con grandi ali blu e qualche puntino bianco qua e là.
Una cosa così piccola in confronto a me.
Ma inconsapevolmente, così fortunata.
Non avevo mai invidiato nessuno, ma questo sentimento ora lo sentivo vicino.
Ero, vergognosamente, gelosa dell'unica cosa che poteva avere rispetto a me: la libertà.
Con il diritto di scegliere dove posarsi, dove nutrirsi e dove andare.
Invidiavo la sua vita da morire.

Sorrisi persa, di un sorriso vero e amaro.
Ma più sorridevo, più mi sentivo una prigioniera in balia di me stessa.

Ero sola.
Sola con Felicity.
Sola con il mio cuore.
Sola con la mia anima.

Diamine, vorrei essere libera come te adesso.

Avrei voluto solo vivere la mia vita, i miei sogni e coltivare le mie ambizioni.
Ma sapevo benissimo che non sarebbe stato così, nemmeno al college.

Avevano deciso.
Ci saremmo trasferiti l'indomani, e avremmo lasciato la nostra casa a Galveston, in Texas, per spostarci tutti a Sacramento.
Conoscevo bene i miei genitori, avevano di certo comprato una di quelle ville da ricchi, in quei quartieri famosi, dove si usava giocare, spesso, a chi la faceva più lunga.

Tutto per avere la casa più bella... e io, affranta, già immaginavo la nostra: due piani, balconi ovunque con finestre alte e immense, vernice esterna bianca gesso, portone verde ottone e infine il loro adorato cancello in ferro battuto con le iniziali del nostro cognome.
Tipica dei ricconi americani.

Per non parlare degli interni. Sicuramente la mamma era stata categorica.
Scale in marmo e cucina enorme con isola.
Si saranno assicurati dei maggiordomi, una governante e dei cuochi per non farla cucinare.
Infine, come ciliegina sulla torta, un viale chilometrico contornato da alberi che ti portava alla villa.

Era una sua mania.
Aveva sempre detto che una villa di tutto rispetto, dove i soldi uscivano anche dagli angoli più nascosti, doveva avere per forza questi elementi.

Purtroppo, in questa casa, papà non aveva potuto accontentarla molto.
Soltanto il cancello in ferro battuto, rigorosamente nero, era stato posto all'entrata.
Quindi, questa volta, in qualche modo avrebbe dovuto accontentarla.

Superficiale direte voi?

Non sapete quanto.
La nausea mi saliva soltanto pensandoci.
Io odiavo queste cose, non volevo vivere a Sacramento, non volevo vivere nemmeno in quella mega villa, volevo rimanere in questa casa dove ero cresciuta o in quella dei nonni.

Eravamo sempre stati benestanti visto il lavoro dei miei genitori, ma non avevamo mai ostentato i nostri soldi.
Abitavamo in una casa normale e avevamo tanto.
Tutto quello di cui avevamo bisogno.
Eravamo umili. Ora non eravamo nemmeno più quelli, anzi non erano.

I miei genitori erano stati come accecati dal potere economico due anni fa e da allora, per loro, contava solo quello.

Come se i soldi potessero darci la felicità, come se potessero rendere il mondo un posto migliore per tutti.
Ma poi che soldi erano quelli che avevano accettato?
Erano sporchi, cazzo.

Come avevano potuto decidere per me?
Non potevano aspettare un altro anno per fare questo passo?
Mi bastavano trecentosessantacinque giorni ancora qui e poi le mie sorelle, che si trovavano al college già da due anni, mi avrebbero accolto a braccia aperte.

Mi veniva da vomitare.

Tolsi le cuffie e mi alzai dalla sedia barcollando.
Mi girava la testa, non mangiavo dal giorno prima e il mio corpo ne stava risentendo.

Non avevo fame però, soltanto guardando le mille scatole sparse nella mia camera, ancora da imballare, il mio stomaco si chiudeva.

Ma sapevo che dovevo farlo, per me.
Frugai nella mia borsa, ma non trovai nulla.
In un lampo però, mi ricordai di avere ancora una merendina nel mio "cassetto delle gioie".

Il "cassetto delle gioie" era nato così, in un giorno d'estate.
Avevo nove anni e in quel periodo litigavo spesso con Crystal.
Aveva la tendenza a rubarmi sempre le mie merendine preferite.
Una mattina, stanca di bisticciare, senza farmi scoprire, avevo rubato tutte le merendine che la mamma aveva comprato.
Avevo raccolto tutto quello che mi piaceva di più, tutte le cose che amava lei e le avevo nascoste nell'ultimo cassetto della scrivania.
E da quel giorno, lo tenevo sempre rifornito di ogni prelibatezza, all'oscuro di tutti.

Ricordare le urla di Crystal nel corridoio, dopo aver scoperto che tutto quel ben di Dio era sparito, mi fece sorridere di nuovo.
Ero rimasta con lo sguardo perso sull'ultimo cassetto, così mi avvicinai e lo aprii.

Con uno sforzo sovrumano, mangiai l'ultima merendina nonostante lo stomaco chiuso.
Ma stare a digiuno per troppo tempo, per il mio corpo non andava bene.
Dopo aver finito, mi misi in piedi e mi guardai intorno.

Caos.

Dai, Felicity, devi sbrigarti, puoi farcela.

La mia coscienza mi spronava, ma sembravo un bradipo che stava per andare in letargo, un prigioniero sul punto di ricevere la sua condanna eterna.

Cominciai a mettere tutti i miei libri in uno scatolone.
Ne avevo inseriti solo tre, quando con una mano scaraventai lo scatolone a terra.

«Cazzo» dissi mentre portavo entrambe le mani sulla testa.

Non ce la facevo.
Non riuscivo a pensare al futuro.

Sapevo cosa mi aspettava lì, sapevo Chi mi attendeva a Sacramento e non riuscivo a fingere di essere felice.

Non ci riuscivo.

Non volevo tornare indietro con i ricordi, non volevo vederlo ora che stavo un pochino meglio, ma sapevo benissimo che ci sarebbe stato Lui ad attendermi.

Il suo autista avrebbe parcheggiato davanti la nostra nuova casa, comprata con i suoi soldi sporchi.
Lui sarebbe sceso e si sarebbe appoggiato alla sua costosissima macchina, solo per farci capire che era invincibile e che sarebbe sempre stato lì.
Perché Lui, c'era sempre .

Mi era entrato nelle ossa, nella mente, nell'anima e aveva reso tutto nero.

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