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23. Il tradimento e i suoi peccati

SAGE

«Ci stanno attaccando. Ascolta, devi scendere le scale e azionare l'allarme per me, restare nascosta e al sicuro mentre io controllo il lato Est. Devo trovare i feriti e trascinarli via con me», ordinò Hunter, il tono glaciale di quando la situazione precipitava e c'era bisogno del capo dei Sovvertitori.

«Tu sai dove si trova l'allarme, conosci questa struttura. Ci penso io ai feriti, tu mobilita gli altri», sentenziai, ragionando d'astuzia. Sapevo che stava soltanto tentando di mettermi al sicuro.

«Troppo pericolo», fece per dire, ma intercettai le sue proteste e gli strinsi una mano nell'intento di infondergli un briciolo di calma, un tacito ''puoi fidarti''. Annuii guardandolo negli occhi, il cuore che mi martellava nelle orecchie per la paura e un'immagine fissa nella mente: Travis.

Travis si era offerto come volontario per il turno di ronda, e il pensiero che potesse esser stato colpito dalle frecce volanti mi gelò il sangue nelle vene.

«Come hanno fatto a trovare questo posto?» chiesi soltanto. 

Lui parve troppo preso dal resto per rispondere. «Per favore, sta' attenta», si raccomandò ancora, carezzandomi una guancia con una mano e poi correndo via.

Respirai con la bocca spalancata, provando a contenere la sensazione di terrore che si stava facendo strada con forza, dopodiché, cauta, mi avvicinai alla parete della casupola dietro la quale vi era una delle numerose postazioni sul tetto. L'aggirai e trovai Remblo con una freccia piantata nel collo, gli occhi sbarrati e una pozza di sangue sotto di lui. Grande Madre!

Mi tenni lo stomaco tra le mani, agendo come una Sovvertitrice e prelevando la spada al fianco del cadavere, per ogni evenienza. Avrei tanto preferito l'arco, ma si era spezzato sotto il suo peso. Altri fischi si udivano in lontananza, netti e veloci come fulmini. Ad ogni passaggio, un tonfo.

«Travis!» esclami sottovoce quando, poco più avanti, mi si parò davanti, seduto e con un mano sul braccio destro. Affannava un po', così mi inginocchiai di fronte a lui per accertarmi delle sue condizioni.

Proprio come due giorni e mezzo prima, eravamo nuovamente faccia a faccia: lui livido e dolorante, io spaventata e preoccupata. Non si era ancora ripreso ma era stato tanto incosciente da offrire il proprio aiuto, tutto pur di rendersi utile. E adesso il sangue era tornato a fluire dalle ferite sul suo corpo. Sciocco, pensai, sciocco quanto me.

«Sto bene, ma devo estrarla dalla spalla. Non posso combattere così», disse con la voce tremante, una freccia che gli fuoriusciva da una spalla.

«Tu non devi fare assolutamente niente», lo rimproverai, mentre a pochi metri da noi un corpo esanime crollava al suolo. «Ci stanno attaccando, dobbiamo sbrigarci!» gli sollevai il braccio buono e me lo gettai intorno al collo, facendo poi forza sulle gambe e tirandolo su con me.
«Aspetta, aspetta», mi pregò e tornò giù con un tonfo. «Devi tirarmela fuori tu, Sage.»

«Travis, farà un male assurdo», lo avvertii, nella speranza di dissuaderlo e metterlo al sicuro il prima possibile.

«Ti prego», supplicò.

Assentii, adagiando la spada sul pavimento e posizionando il palmo sinistro intorno alla sua ferita per fare pressione. Inspirai profondamente, chiudendo le dita intorno l'asta per spezzarla. Senza neanche dargli un preavviso, tirai forte la punta verso di me in maniera rettilinea, per evitare altri danni alla sua spalla.

Lui si era ficcato in bocca l'elsa del pugnale per non gridare, e gli fui grata. Essere esposti in quel momento non ci avrebbe giovato. 

Come un fulmine, strappai un lembo della sua maglietta e glielo legai con forza sulla ferita. Lo ricaricai su di me e lo incitai a sbrigarsi.

«Come diavolo fanno ad essere così precisi? E' come se sapessero dove colpire anche al buio», mi spiegò, mugolando ad ogni falcata brusca che facevo.

E poi un suono assordante ci esplose nelle orecchie, coprendo le sue parole, i fischi delle frecce che continuavano a mietere vittime, il passo svelto e pesante degli arcieri che inondavano il tetto e si schieravano per contrattaccare. Alcuni di loro stavano trasportando enormi recipienti dai quali fuoriuscivano fiamme di un arancio vivo.

Successe tutto in un momento: tutti presero posto accanto al parapetto, mentre Irina, che capeggiava la dozzina di Sovvertitori, cominciava ad impartire ordini.

«Arcieri!» gridò a pieni polmoni per sovrastare il suono dell'allarme, mentre io e Travis ce ne restammo a fissare la scena. A quel punto, i soldati infuocarono le cuspidi all'unisono come se fossero stati controllati da un unico cervello.

«Scoccare!» ordinò ancora Irina, e una pioggia di fuoco tinse il cielo scuro, che accoglieva l'accenno d'alba, fino a crollare giù. 

Hussain entrò nel mio campo visivo e fece per oltrepassarmi anche quando lo chiamai, così l'afferrai per un braccio, costringendolo a fermarsi. «Adesso non ho tempo per scusarmi ancora con te, Hussain! Prendi Travis e dammi arco e frecce», parlai in maniera estremamente seria, il tono chiaro e duro che non ammetteva repliche. «Sai meglio di me che questo è il mio campo, e che non lascerò lui nelle mani di nessun altro se non nelle tue! E' ferito, ha bisogno di mani sicure, le mani di un amico», continuai, guardandolo negli occhi. 

La sua espressione di pietra non mutò, ma si sfilò comunque la faretra e l'arco, sostituendosi a me sotto il braccio di Travis. Gli feci un cenno carico di gratitudine, e poi mi fiondai di fronte al parapetto, assieme a tutti gli altri arcieri.

Le frecce infuocate scagliate dai miei compagni avevano creato un perimetro illuminato per permetterci di contare il numero di nemici. Era geniale! 

«In alto gli scudi!» si sentì chiaramente sbraitare dal basso, e le tre file di Custodi si fusero in una, nel tentativo di proteggersi dall'attacco dall'alto. 

«Non lasciateli avanzare!» la voce di Irina arrivava chiara come il canto degli uccelli al mattino, un mattino che invece stava accogliendo grida di guerra e fischi violenti.

«Mirate ai punti ciechi tra gli scudi!» 

La maggior parte finivano contro gli scudi rettangolari in metallo che portavano al centro una grossa e spaventosa V in rilievo, il simbolo e il motivo che spingeva i Custodi ad avanzare, uniti tra loro come un muro umano.

L'aria del Secondo Humus si riempì di suoni di guerra: di ordini impartiti ai propri soldati, di versi emessi per l'impatto delle frecce che colpivano sia gli avversari che noialtri. Poco più lontano dalla mia posizione, un Sovvertitore fu trafitto con una tale violenza da sbalzarlo all'indietro prima di crollare al suolo sulla schiena. Un'altra freccia mi passò tanto vicina da sentirla pericolosamente sulla pelle della guancia, e un'altra ancora mi mancò perché Irina mi trascinò per una spalla verso il basso, sfruttando il parapetto di protezione in cemento.

Le rivolsi un'occhiata tra il riconoscente e la sorpresa, e lei ricambiò con uno sguardo truce che pareva gridare ''sta' più attenta!''.

Poi, come il peggiore degli incubi che prende vita, si udirono delle grida che mi fecero tremare la spina dorsale. Puntai le iridi cariche di terrore verso la foresta in lontananza, e vidi l'alba azzurrina accogliere le temibili figure scure che s'avvicinavano minacciose. 

Irina le notò l'istante dopo, si lasciò cogliere per un momento dallo stupore e dalla paura, ma ordinò prontamente il da farsi: «Ripiegare! Ripiegare!»

Come un'onda, lo schieramento dei Sovvertitori indietreggiò all'unisono alla ricerca di un punto strategico che offrisse la possibilità di contrattaccare e di proteggersi dalle bestie in arrivo. Contro di loro, così scoperti, non avevamo speranze.

Irina aveva ancora una mano sulla mia spalla quando una freccia volante la colpì di striscio facendole emettere un sonoro verso di dolore. La schiena le sbatté contro la parete mentre la mia la imitava. Con strabiliante prontezza, le poggiai il palmo sulla ferita per fermare il sangue, ma lei mi colpì il dorso e si scrollò la presa di dosso. 

«Non c'è tempo per questo!» esclamò, nel caos generale. «Ascoltami, è imperativo che tu ti diriga al piano inferiore e dica ad Hunter che il tetto è compromesso. Non possiamo fare nulla con gli archi e le frecce contro quegli affari. Manda l'artiglieria pesante e non tornare. Hunter non ti vorrebbe qui.»

«Non se ne parla, io...»

«Per la Grande Madre, fa' ciò ti viene detto! Vai!» gridò con il viso poco lontano dal mio, dopodiché mi spinse per invogliarmi a darmi una mossa.

Mi precipitai giù per le scale come se i piedi stessero slittando sul ghiaccio, balzando ogni due a due. Il clima che si respirava al piano inferiore non era poi così diverso da quello sulla vetta dell'edificio sotto attacco. Due file di persone, perlopiù anziani, bambini e donne o uomini non ancora adatti alla battaglia stavano raccogliendo le proprie cose in fretta e furia, mentre chiunque fosse abile stava venendo rifornito di armi e protezioni per il busto.

Intravidi Hunter tra una testa e l'altra che mi sfilava davanti proprio di fronte alla stanzetta che conteneva reperti del passato, e lo raggiunsi quasi di corsa. Insieme a lui, i gemelli, Asery, Zenda e sua sorella. Accerchiavano un tavolo sul quale erano disposte armi e mappe sporche di macchie brunastre.

Hunter sollevò lo sguardo e si soffermò sul mio palmo con ancora il sangue di Irina, fino ad entrare in una tensione palpabile, apprensivo.

«Il tetto è compromesso», ripetei le parole della Sovvertitrice con la stessa veemenza che le avevo sentito usare, quasi come se fossi io a parlare con la sua voce. Non c'era tempo per preoccuparsi. «Quelle bestie sono tornate. Veniamo attaccati da terra e da cielo simultaneamente.»

I volti dei presenti in ascolto sbiancarono in maniera così violenta che temetti che potessero perdere il controllo da un momento all'altro, la lucidità e la razionalità che ogni Sovvertitore vantava. Jo poggiò le mani sul tavolo, spaesata, e volse lo sguardo verso suo fratello. Zenda strinse la mano di sua sorella, mentre Asery, già segnata dall'ondata di morte dalla quale eravamo fuggiti, se ne restò paralizzata a fissarmi.

«Com'è possibile?» domandò Hunter, concentrato, mantenendo il sangue freddo. «Non è territorio di caccia. Qui intorno ogni cosa è morta.»

«Ma loro non sono animali», precisò Asery. Non volle correggerlo, gli stava soltanto ricordando con terribile fermezza una verità forse troppo spaventosa da accettare.

«Sono con loro... li controllano», realizzai a voce alta, pronunciando i taciti pensieri dei Sovvertitori più anziani di me. «Come?»

Ci fu un silenzio, in mezzo a tutto quel caos che pesò sulle nostre spalle quanto l'intero edificio che ci stava proteggendo dall'imminente attacco. Sette persone che si guardavano l'una nel volto dell'altra cercavano di metabolizzare le informazioni ricevute, e tentavano di trovare una soluzione a un evento che pareva non averne. 

Jo, la testa china nelle spalle, fu la prima a prendere la parola, una devastante parola. Sospirò prima di farlo, si voltò verso il suo gemello e poi avanzò: «Brucia tutto.»

«Che cosa?» reagì prontamente Zenda, incredula.

«Sei sicura?» soffiò Hunter, attirando l'attenzione di Jo che annuì con flemma. 

Era sicura, ma era tutt'altro che felice di esserlo. «Sai cosa salvare, il resto va spazzato via. Non sarò io a consegnar loro la chiave della distruzione del nostro mondo.»

Osservai i visi afflitti dei miei superiori, e su quelli vidi tutta la sofferenza del mondo: su quelli di chi aveva vissuto nella seconda fortezza dei Sovvertitori rividi la tristezza di chi aveva abbandonato il primo. Un nuovo disastro, un'altra casa in fiamme, altri ricordi, progressi, scoperte di un'altra epoca che andavano in fumo.

Jo annuì con lentezza. Stava agendo strategicamente per non lasciare tra le mani del nemico armi troppo evolute, ma aveva il cuore spezzato - e glielo si leggeva nelle iridi castane - perché stava dicendo addio a tutti gli studi che aveva compiuto in chissà quanti anni.

Hunter ricambiò con più convinzione, rivolse un ultimo sguardo a Keon, che a sua volta lo rivolse a sua sorella; si lanciarono tutti e tre un cenno d'intesa, dopodiché l'incaricato sparì sulle scale dirette al piano di sopra. 

Con mia grande sorpresa, il capo tattico dei Sovvertitori posò prima un piede e poi un altro sul tavolo, si issò e la sua figura si stagliò in mezzo alla sala. 

«Ascoltatemi!» gridò a gran voce. «Fuori da queste porte incombe una minaccia potente per le nostre vite, una minaccia che marcia verso di noi per abbatterci. Solo due giorni fa, il nostro spirito è stato messo a dura prova. Abbiamo seppellito i nostri amici, fratelli, una madre, un padre, e con loro i nostri ricordi. Siamo stati costretti a scappare per tutta la vita, a nasconderci da un sistema barbarico, e qualcuno lì fuori direbbe che siamo quelli fortunati. Conosciamo soltanto questo: il dolore della perdita e la paura.»

Una quiete apparente aleggiava nell'aria come nebbia fitta nella foresta, ma sotto di essere ribolliva qualcosa, un sentimento furente che premeva per uscire, esplodere e riversarsi contro chi ci aveva costretti a scappare come topi. Questa volta sarebbe stato diverso. 

Hunter sospirò, le narici spalancate per manifestare la sua collera, la rabbia e l'adrenalina necessaria per spronare se stesso e gli altri. «Io dico: basta scappare. Non è più tempo di lasciar decidere ai tiranni quando sarà il momento di rivedere il sole. Ci siamo preparati, spezzati la schiena per disperderci come formiche quando qualcuno batte il piede sul terreno? Io dico che questa è la resistenza, che siamo guerrieri, e che se vogliono appropriarsi della nostra Terra, la dovranno ripulire da tutto il sangue che gli faremo versare.»

Più il suo tono di voce saliva, più gli animi s'agitavano, venivano scossi dalla stessa eccitazione per la vendetta. Alcuni versi d'assenso accompagnarono il suo discorso, dei brusii sommessi che impazienti desideravano emergere. Ma quando Hunter sguainò la spada, la folla parve infuocarsi al punto da seguirlo: il rumore della ferraglia fece da padrone ancor prima degli incitamenti e grida di battaglia.

«Non vi chiedo di sacrificarvi per me, per questo Ordine, per i vostri compagni stessi. Vi chiedo di combattere per il futuro, per un Paese privo di oppressioni e per la vostra stessa libertà! Il Terzo Humus è casa vostra, proteggetela!»

E come un'orda, i Sovvertitori, uomini e donne addestrati e armati fino ai denti corsero verso l'uscita dell'edificio. La terra tremò per la marcia spedita della prima linea di battaglia ma soprattutto per la carica che Hunter era riuscito a infondere nei suoi soldati. In me. Non avremmo perso senza lottare. 

«Zenda, Asery», chiamò Hunter. «Voglio tutti i bambini, anziani, feriti e chiunque altro non possa combattere fuori di qui in meno di dieci minuti, a patto che li abbiamo ancora.»

«Ma Hunter», avanzò il suo braccio destro, per venir interrotta sul nascere.

«Nessuna obiezione, Zenda», precisò, col tono di chi non ammette repliche e non ha tempo per esse. «Talia», continuò. «Prendi quanti più uomini puoi, armali fino ai denti e insieme a Kenneth aiutate Irina. Armi da fuoco perlopiù, quei bastardi sono duri a morire.»

Tutti si mossero simultaneamente come se fossero stati uno, e quando il Sovvertitore volse lo sguardo e si ricordò di me, s'arrestò sul colpo. 

«Che fai ancora qui? Devi seguire Zenda», impose e proseguì oltre, superandomi. S'intrufolò nella camera delle armi, afferrò un grosso mitra e se lo caricò in spalla, accertandosi che fosse pronto all'uso. Lo seguii a passo spedito, lo stesso di una bambina che non accetta un no come risposta.

«Io non vado da nessuna parte.»

Si voltò di scatto al punto da aver il suo viso a pochi centimetri dal mio. Non vi era nulla di ciò che avevamo condiviso soltanto pochi istanti prima sul tetto: Hunter in guerra si trasformava, divenendo un freddo e abile soldato volto a proteggere vite e a stroncare minacce.
«Non te l'ho chiesto, è un ordine», disse a denti stretti.

«Per che cosa mi sei venuto a cercare, Hunter? Per sviluppare un potere che non servirà a proteggere nessuno, perché ogni volta che questa gente è in pericolo per colpa mia non mi dai la possibilità di rimediare?»

Parlò una rabbia razionale, lucida e logica, la stessa che era ormai impossibile da contenere e che mi era scoppiata nella voce. Come potevo essere utile se l'unica cosa che mi era concessa fare era fuggire, seppur per il mio bene? Non me ne sarei andata, non dopo il suo discorso.
«Non sei pronta, Sage. Dimmi a che cosa ci servirai da morta!»

Prima che potessi replicare in qualche modo, un grido proveniente dall'entrata dell'edificio echeggiò tra le mura fino ad arrivare a noi. Uscimmo di corsa dall'arrangiata armeria per sentire i ripetuti: «Arrivano dal cielo!». Nel medesimo momento, un'esplosione incontenibile rubò la scena proprio alle nostre spalle. Keon aveva cominciato.

«Hunter!» Zenda arrivò di corsa, zaino in spalla e spada agganciata alla vita. «Stiamo sgomberando, i primi sono già in marcia», spiegò, poi fece una pausa. Guardava negli occhi il Sovvertitore in un modo quasi implorante, come se si aspettasse di sentirsi chiedere di restare. Delusa, continuò: «Se hai cambiato idea, se vuoi che rimanga ad aiutarti contro i Custodi...»
«Ti sto affidando il nostro popolo e ti sto mostrando fiducia. E' più di quanto potessi chiedere, Zenda», replicò secco, ma senza freddezza.

Lei, di tutta risposta, sospirò e poi l'abbracciò, sussurrandogli qualcosa che non riuscii a comprendere. Dopo qualche istante stretti l'uno all'altra, la Sovvertitrice gli posò un palmo sulla nuca e unì le loro bocche in un bacio. Mi si gelò il sangue, un formicolio fastidioso s'insidiò sotto la pelle e minacciò di bruciarmela dall'interno, espandendosi proprio all'altezza della bocca dello stomaco.

Hunter fu il primo a spezzare dolcemente quel contatto, annuì a ciò che Zenda gli disse a fior di labbra e poi si voltò a guardarmi. Dietro le sue iridi mi sembrò di leggere della preoccupazione, ma non ne fui sicura. 

«Va'», rispose soltanto, lanciandole un ultimo sguardo.

«Ho pensato che ti sarebbe stata utile», Salina comparve alle mie spalle impugnando una spada e porgendomela. Il volto era segnato dalla stanchezza ma anche da una rabbia che non le avevo mai visto prima d'ora, la rabbia di chi è stanco di essere perseguitato. «Facciamo vedere a questi bastardi chi comanda.»

Lei avanzò decisa al seguito di Hunter, Percival e tutti quelli che non erano impegnati sul tetto o fuori dalla struttura a mo' di prima difesa.

Sentivo di essere di fronte ad un bivio dal momento in cui ero stata rapita nel cuore della foresta dai Custodi, perennemente indecisa sulla giusta via da prendere. Non quella che divideva il bene il male, ma la biforcazione di fronte alla quale ogni uomo si trovava: se farsi governare dall'egoismo e dalla paura oppure seguire la scia del coraggio, spendersi per un bene più grande. 

Avevo passato la vita a scappare dai Custodi così come avevano fatto i Sovvertitori, a nascondermi per acquietare i timori di mia madre, a volgere lo sguardo altrove ad ogni ingiustizia a cui assistevo, e anche dopo esser entrata a far parte dell'Ordine non avevo smesso di percorrere quella strada. Ero stanca. Non avevo più voglia che mi venisse detto di tener la testa bassa, di mettermi in salvo per prima. Mi era stato affidato un dono, qualcosa di incomprensibile e superiore, e non avevo intenzione di lasciarlo marcire nelle mie vene, né avevo intenzione di veder morire la mia gente quando avevo l'opportunità di evitarlo, o anche solo di provarci. 

Osservai, come un'immagine che scorre lentamente, le figure dei miei compagni, la sagoma slanciata di Hunter che stringeva con forza la presa sulla spada alla sua destra e sul mitra alla sua sinistra. Percival e Salina lo affiancarono tenendosi a distanza, davanti uno scenario di guerra con i primi caduti da ambedue le parti e il rumore del metallo contro il metallo che faceva da padrone. Ai piani superiori dell'edificio, invece, il suono ovattato degli spari a raffica che i Sovvertitori sul tetto stavano scagliando contro i mostri alati, pronti alla via di fuga grazie ai Grifoni. Lo scoppiettio del fuoco che consumava ricordava a noi tutti che si deve morire per quello che si ama.

Se questa deve essere la nostra ultima battaglia, pensai, che resti ben impressa nella memoria di chi ci ha sfidati.

Avanzai, un piede davanti all'altro, dopo aver afferrato dal ripiano adibito per le armi da fuoco una pistola e una fondina cosciale. A difesa dell'entrata dell'ennesima casa che stava andando in fiamme alle mie spalle, presi posto alla sinistra di Hunter, il volto nascosto da un'espressione contrariata. 

«Sage! Devi andar via di qui!» esclamò. Se precedentemente il suo tono fosse stato caratterizzato da fermezza e autorevolezza, ora era più simile ad una preghiera. Hunter era in pensiero, forse addirittura spaventato all'idea che potesse capitarmi qualcosa. 

In altre situazioni, magari come quella vissuta poco prima sul tetto di un palazzo di un'altra epoca, avrei potuto sorridergli, sfiorargli la mano, ma di fronte ai nemici che avanzavano e che abbattevano i nostri compagni c'era bisogno della Sage che aveva nel sangue un potere a lei sconosciuto, colei che era stata addestrata a combattere. 

«Non mi hai reclutata per scappare via ogni volta che un pericolo ci si presenta davanti. E' la nostra gente. Io resto, è questo il mio posto, Hunter. Non vado da nessuna parte.»

Con uno sforzo mai fatto prima, chiamai a me la nuovissima sensazione, quel formicolio lieve che avvertivo sotto la pelle, nella sua totalità, molto più di quanto avessi mai potuto credere di avere, e quando la percepii direttamente nei palmi, spinsi il destro con forza sul terreno con un solo ed unico pensiero. Non sapevo neanche se fosse possibile, ma dovevo provarci. 

Nell'apparenza non successe nulla, ma sotto di me avvertivo la terra tremare. «Avanti, avanti...» continuavo a sussurrare e sperare.

«Sage», udii la voce di Hunter come in lontananza. «Se hai intenzione di fare qualcosa, falla adesso!»

Non vedevo nient'altro, il mio sguardo era proiettato oltre la battaglia, immerso nella foresta, attraverso gli alberi, gli animali selvatici, la luce dell'alba che colorava la vegetazione. Viaggiava come una scia di vento leggera e avvolgeva qualsiasi cosa. Neanche il suono metallico delle spade che urtavano tra loro riuscì a destarmi da quello stato di trance, sebbene fosse così vicino da poter sentire vibrare le lame proprio sotto il mio naso. 

Ma all'improvviso, come un boomerang che torna indietro poco dopo esser stato lanciato, tornai a mettere a fuoco: l'asfalto sotto il mio palmo, i Custodi contro i Sovvertitori, le carcasse delle auto e i palazzi abbandonati diventati spettatori di quel terribile scontro. E tutto prese a tremare.

Prima le pietruzze e il terreno, poi le vetture, gli alberi, le persone. Il cemento sul quale poggiavamo i piedi cominciò a spaccarsi formando delle crepe lunghissime, fino a quando da una di queste esplose una radice grossa almeno due volte quella che ero riuscita a tirar fuori due giorni prima e che pareva aver vita propria. Si scagliò contro i Custodi, schiacciandoli sotto il proprio peso mentre si abbatteva al suolo. Un'altra ne sbucò fuori subito dopo e schizzò dritta nel cielo per piantarsi nel ventre di due mostri alati, fronteggiati anche dai Grifoni e i propri cavalieri. Sembrava uno spettacolo al limite del surreale per gli altri che assistevano spaventati, increduli e inorriditi. 

Lo era per tutti, eccetto che per me. 

Potevo sentire la natura ribellarsi insieme a me contro gli assalitori, eseguire ordini impartiti soltanto dal mio volere. Percepivo quel potere scorrermi nelle vene come mai prima di quel momento. Una sensazione indescrivibile.

Tornai in piedi e sguainai la spada con lo stesso impeto, l'adrenalina che mi cantava nel sangue a gran voce, mentre la mano libera correva al calcio della pistola riposta nella fondina agganciata alla coscia, pronta a sfilarla.

Fu quello il momento esatto, il preciso istante in cui mi trasformai in qualcosa in più di una semplice Sovvertitrice o di una dei figli della Grande Madre Eritrea: quelle due parti di me tanto identiche quanto differenti si erano fuse in un tutt'uno e avevano dato vita a qualcosa di diverso, mai visto prima. La consapevolezza di ciò mi attraversò come un fulmine, l'ennesima scarica di adrenalina che mi spinse ad avanzare acquisendo più velocità per affrontare un Custode che aveva intenzione di fronteggiarmi. Con la coda dell'occhio osservai Hunter che si protese per difendermi ma fu interrotto da un altro Custode che gli si parò davanti con un affondo. Lui intercettò l'attacco e rispose senza tirarsi indietro. 

Bene, pensai, questo è mio. L'espressione truce del mio avversario mi lasciò intendere che doveva pensarla allo stesso modo. Mi venne incontro con l'aria di sfida e sicurezza, con la certezza di potermi spezzare con uno schiocco di dita. Sembrava un ghigno quello che gli storpiava il viso, e quando si avvicinò abbastanza da tentare un fendente, che schivai come una saetta sorprendendo anche me stessa, lo riconobbi: l'odio e la paura fusi in un bisogno di sangue. 

Scansai un altro tentativo di attacco e utilizzai il suo punto cieco per ferirlo sulle costole con un colpo di spada diagonale. Il soldato gemette dal dolore e si accasciò a terra solo per dar spazio ad un suo compagno, già pronto a prendere il suo posto e attentare alla mia vita. Non gli diedi il tempo di farlo. Avanzai veloce, la spada che tagliava l'aria in due ad un passo dal suo volto, dalla sua spalla, finché non stridette bruscamente contro la sua gemella, l'arma che difendeva il Custode. Il filo vibrò fino a far tremare la guardia, il manico e il pomolo. La mia impugnatura vacillò per un momento e l'altro approfittò del momento di distrazione per afferrarmi i capelli sulla nuca, imprigionandomi tra la sua stretta e la mano con cui teneva la spada. Mi colpì con l'elsa e il lato sinistro cominciò a pulsare violentemente. Sapevo di non avere il tempo per preoccuparmene, perché sarei stata fatta prigioniera subito... o peggio. 

Tentò l'ennesima manovra ma fu bloccata bruscamente da una radice che s'avvinghiò alla sua caviglia e poi per tutto l'arto inferiore, si issò e lo trascinò in alto con sé. La spada cadde a qualche metro di distanza da me, mentre gli occhi attenti controllavano la situazione. 

Hunter era inarrestabile. Il miglior lottatore su cui avessi mai posato gli occhi. I Custodi cadevano come soldatini di legno al suo passaggio, e anche quando qualcuno credeva di potergli tenere testa finiva al tappeto insieme agli altri. Alle mie spalle, il rifugio era ancora in fiamme. Gli innocenti, coloro che non potevano combattere, si stavano ancora raggruppando per scappare sul lato opposto della fortezza, attraverso il fuoco. In un modo o nell'altro, ci sarebbero state perdite anche lì, nel caos e la fretta della fuga.

Tutti erano sul campo: Irina, Percival, i gemelli. Combattevano come veri Sovvertitori.

«Stai bene?», chiese Hunter, avvicinandosi.

Annuì, col fiatone, e mi voltai nuovamente indietro, il dolore di aver perso un'altra casa. Feci per chiedere qualcosa, ma restai fissa su Zenda che stava aiutando gli altri a scappare. Era carica, zaino e borsa a tracolla, la spada alla mano. A qualche decina di metri da lei, un arciere della fazione opposta aveva guadagnato una posizione strategica su un'altura fatta di pezzi di vecchie auto e altro genere di ferraglia. Impugnava saldamente l'arco ed era pronto a scoccare la freccia nella la direzione della Sovvertitrice, che era ancora di spalle. 

Agii prima di realizzare di starlo facendo. La mano corse al pugnale di Hunter e scattò con una velocità scioccante persino a me stessa. La lama colpì la stretta ma non ferì il Custode che, persa la presa sull'arma, la recuperò in fretta e la indirizzò verso me e Hunter. Fu tardi, perché nel mentre avevo già fatto schizzare la freccia del mio arco – posizionato a tracolla durante la discesa frenetica – dritta sulla sua figura, il tutto sotto lo sguardo sbalordito di Zenda. Mi osservò a lungo ma senza nessun cenno, dopodiché si dileguò insieme agli altri, sparendo oltre le fiamme.

Hunter mi rivolse uno sguardo eloquente quando mi voltai verso di lui; non c'era nient'altro che rispetto, dietro i suoi occhi. Fu un momento fugace ma intenso, come tutti quelli che avevamo vissuto insieme. Capace di marchiare la pelle e di togliere il respiro. Come una droga, una malattia dalla quale non si aveva voglia di guarire. 

«Dobbiamo spostarci, qui siamo troppo scoperti e loro stanno avanzando», mormorò senza coinvolgere l'espressione del volto, quella era ancora immersa in lontani pensieri.
«Jo!» udimmo in lontananza, scattando come molle al suono del nome della Sovvertitrice, pronunciato dal fratello quasi come una supplica. 

Riuscii a vedere a malapena Keon per quanto fu veloce, le gambe si confondevano tra loro per la velocità utilizzata per correre in soccorso della sua gemella, la quale si dimenava tra le mani del mostro alato. 

Il mattino continuò a riempirsi di scoppi, di spari, di grida, ma niente arrivò alle mie orecchie come le parole di Keon. «Jo! Resisti!» dopodiché imbracciò il mitra e cominciò a trivellare quella cosa di colpi.

Il Sovvertitore si guardò intorno con aria affranta, prima di ordinare: «Ritirata! – Keon!» Hunter gridò a pieni polmoni nella speranza di sovrastare il baccano della lotta e fece per avanzare, trovandosi però di fronte tre Custodi pronti a mettersi tra lui e i suoi fratelli. Con loro, un'altra decina si dispose a cerchio intorno a me e al mio istruttore, o compagno di guerra. Uno parlò per tutti gli altri, la voce scura e il volto coperto dall'elmo. 

«Deponete le armi e non saremo costretti a privarvene; credetemi, non vi piacerà», sputò, beffardo.

Hunter restò impassibile così come anch'io, sebbene avessi perso la presa sull'elsa per salvare la vita a Zenda. Non mi lasciai intimorire.

«Puoi sicuramente provarci, ma questa non è la tua giornata fortunata», esclamai, volgendo lo sguardo per un'ultima volta verso i due gemelli. Fui in grado di vedere soltanto il mostro liberarsi di Jo, sbalzandola via come se fosse niente, per concentrare tutta la sua attenzione su Keon. 

E poi ci attaccarono: parai qualche colpo con l'arco, ma richiamai a me l'energia, la incanalai nei pensieri e la lasciai fluire fuori solo per osservare la natura rispondermi senza opporsi.

Una radice bloccò l'affondo di un Custode, al quale, approfittandone, assestai un calcio con la pianta del piede dritto in pieno petto. La lama della spada si conficcò nel terreno giusto in tempo per afferrarne l'elsa e parare un attacco dall'alto. Il ferro delle armi stridette tanto da fischiare nelle orecchie e quando, facendo leva su ogni goccia di forza fisica presente nel mio corpo, con uno spintone lo allontanai, quello tra le mie mani minacciò di frantumarsi per quanto stava vibrando. 

Il consueto grido che accompagnava le bestie alate squarciò ancora il cielo, e come un fulmine si vide una macchia scura cadere in picchiata verso il terreno, verso di me. Svuotai il caricatore della pistola contro di lei, che non faceva altro che urlare e inferocirsi di più. 

"Bene", esclamai tra me, "ti ucciderò a mani nude."

Ma la figura di Salina a cavallo di un Grifone s'avvicinò imponente e spedita, mentre il volatile dalle zampe d'uccello e feline graffiava il cielo. Ad un soffio dal mio capo, la ragazza lacerò la carne putrida con la punta della spada, dalla base della schiena fino a risalire sul cranio. La bestia mi superò e andò a schiantarsi al suolo, distruggendo l'asfalto e facendo volare pezzi distrutti di strada dappertutto. 

E poi qualcosa mi colpì alla tempia tanto forte da farmi crollare al suolo. Restai inspiegabilmente cosciente sebbene le orecchie presero a fischiare violentemente. I suoni esterni divennero lontani e ovattati; persino le grida di Hunter al mio fianco, spinto a forza con la faccia contro il cemento, i suoi tentativi di liberarsi. Come avevano fatto a disarmarlo? 

Poi, mentre qualche Custode mi legava le mani e mi impediva i movimenti, nel mio campo visivo entrò Kenneth. La postura era composta, tranquilla, il passo sembrava quello di un uomo che passeggiava in un campo di papaveri, in pace. 

«Doghly!» continuava a sputare Hunter. 

Prima che potessi rendermene conto, assestò una ginocchiata al Sovvertitore in pieno viso per farlo tacere, o semplicemente per vederlo sofferente e sanguinante. Liquido rossastro cominciò a colare dal naso, imbrattandogli il resto del viso. 

«Hunter», sospirai, per agevolare il tentativo di restar cosciente del soldato. Sembrava senza fiato.

«Ben fatto, Doghly», sogghignò un Custode mentre si faceva più vicino. C'erano ancora i suoni della battaglia, ma andavano via via ad affievolirsi. Stavamo perdendo, o stavamo battendo in ritirata per limitare le perdite.

«Con i complimenti non si costruiscono imperi. Aspetto la mia ricompensa e il mio posto in tutto questo», replicò, il tono pacato.

«Tutto a suo tempo.»

Kenneth ci aveva traditi.

«Tu, lurido figlio di...» mormorai, richiamando a me tutte le energie rimaste per far affidamento sulla foresta, far sì che corresse in nostro aiuto.

Kenneth fece suonare la lingua tra i denti in un verso d'avvertimento. «Attenta al colore dei tuoi occhi, cara Sage. Non prima di aver dato uno sguardo intorno a te», affermò con un sorriso sghembo.

Il primo pensiero fu Hunter, e quando mi voltai a guardarlo una lama di spada minacciava di recidergli la gola. Alla mia destra, invece, cominciavano ad ammassarsi prigionieri specifici: Jo e il suo gemello per primi, fatti inginocchiare a forza. La prima aveva una ferita sull'intera fronte che andava poi a nascondersi tra i capelli sporchi di sangue, e il secondo sputava lo stesso liquido rossastro dalla bocca spaccata. Macchie nere si sparpagliavano sui loro volti, il sangue dei mostri che si mescolava col proprio su una tela fatta di espressioni affrante, doloranti, e infuriate.

Doghly decideva chi mettere in ginocchio indicandoli con un gesto quasi come se la cosa lo divertisse. «Anche lei», concluse indicando Irina, ma senza godimento nella voce, scatenando però una reazione istintiva da parte di tutti i presenti. Nessuno fiatò, tuttavia. Forse per il timore di poter peggiorare ulteriormente la situazione.

Un Custode passò a Kenneth un sacchetto di tela chiaro, che sembrò soppesarlo con lo sguardo, un po' diffidente. «Sei sicuro che funzionerà?»

«Mai mettere in dubbio il suo operato, neanche se fosse la Grande Madre stessa a chiedertelo, potresti non avere la possibilità di ripensarci», sghignazzò il Custode dai colori blu e oro. «Conosci le parole».

A quel punto, il Sovvertitore che ci aveva pugnalati alle spalle infilò la mano all'interno della sacca e tirò fuori il pugno chiuso. Non riuscivo a vedere cosa nascondesse al suo interno, ma tutto lasciava presagire che non fosse niente di buono per noi. 

Kenneth cominciò a pronunciare delle parole incomprensibili, una cantilena che sembrava ripetersi all'infinito. Poi si arrestò, spalancò la mano e con tutto il fiato che aveva soffiò su quella che si rivelò essere una polvere quasi trasparente come il vetro e il ghiaccio. Così come se fosse mossa da vita propria, e anziché crollare a pochi passi dal palmo di Doghly, continuarono a librarsi nell'aria, per farsi sempre più vicini.

«Non respirate!»

All'unisono, trattenemmo tutti il fiato nella speranza che questo potesse bastare. Non fu così.
Quando lo sciame bianco ci investì, s'introdusse a forza nelle narici, negli occhi, attraverso la pelle... sembrava esser in grado di penetrare ogni fibra del nostro corpo, e una volta fatto la sensazione si rivelava terrificante. Dapprima, la gola prendeva a bruciare, a seguire c'era lo stomaco e il senso di nausea, i capogiri. I tremori ai muscoli sembravano derivare da una lotta interna: questi ultimi tentavano di divincolarsi da un corpo estraneo che faceva presa su di loro, bloccandoli, immobilizzandoli. 

Il mio corpo, d'un tratto, parve essere quello di qualcun altro. Persino la vista cominciò a tirare brutti scherzi, e una stanchezza presente m'impediva di tenere gli occhi aperti. Mi adagiai al terreno, guardando verso Kenneth e desiderando di fargliela pagare per quello che ci stava facendo. Questo finché un'altra figura, sfocata, sdoppiata, si manifestò al suo fianco. 

La chioma bruna e lo sguardo impassibile avrebbero dovuto farmi sorgere qualche sospetto sin dall'inizio, biascicai nella mente, o forse ad alta voce. 

«Avanti, cerchiamo di non perdere altro tempo», la voce di Reese arrivò ovattata ma brutalmente chiara, fredda come la lama della spada che pesava sulle nostre teste, poco prima che di voltare le spalle a chi le aveva salvato la vita.

Caddi sulla schiena come a rallentatore, osservandomi dall'esterno del mio corpo respirare affannosamente, a fatica. Forse stavo morendo, forse stavano morendo i miei compagni; volsi lo sguardo verso di loro, su chi si teneva la gola, su coloro che tossivano, strabuzzavano gli occhi, e pregai la Grande Madre di non prenderli con sé.

Poi il mondo divenne cupo, tra la vista annebbiata e la resistenza impiegata per non svenire del tutto. Ciò che potevo sentire tra un momento di incoscienza e l'altro era assolutamente privo di senso: nuvole dense e scure, brividi, venature di bianco e porpora, urla di dolore. 

Occhi bianchi tanto da sembrare vitrei.

Debolezza.

Morte.

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