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22. Il Secondo Humus


SAGE

Attraversare una minuscola parte del Secondo Humus era stato più semplice di quanto avessi mai potuto immaginare, ma aveva richiesto molto più tempo di quanto sperassi.

Essere lì, camminare sul materiale duro - ma non abbastanza da impedire alla natura di affermare il proprio dominio - che Hunter aveva chiamato asfalto, mi rendeva eccitata, curiosa, assente: il mio istruttore era stato costretto a richiamare la mia attenzione più di una volta per far sì che riprendessi il passo, e forse per questo eravamo giunti a destinazione solo con le primissime luci dell'alba. Avevo osservato le ''carcasse in ferro arrugginito'', che non erano altro che il mezzo di trasporto di chi aveva vissuto lì prima di noi. Si chiamavano automobili, e il Sovvertitore mi aveva spiegato che venivano sorrette da dei grossi cerchi che quasi nessuna di esse aveva, per una ragione a me sconosciuta. In linea di massima, il Secondo Humus era un teatro di desolazione e distruzione. Laddove i nostri piedi marciavano vi era bitume, quanto a radici ed erba, invece, facevano capolino dalle crepe profonde che avevano provocato. I Sovvertitori avevan dovuto creare un ''sentiero'', poiché se volgevo lo sguardo tutt'intorno, gran parte della strada era ricoperta da detriti, ferraglia e drappi di stoffa consumati, o strutture crollate dalle quali fuoriuscivano tubi e spessi fili che oscillavano al fischio del vento. Negozi con tetti crollati e vetrine distrutte, un'insegna dalle lettere spezzate e penzoloni che recitava ''McDonald''; transenne ribaltate su se stesse, immondizia ad ogni angolo. Erte nel cielo, invece, grattacieli distrutti e ricoperti da edera facevano da padrone sul manto notturno e ricco di stelle. Le macchie verdi sembravano una malattia invasiva sulle lunghe figure rettilinee, rovinandone l'estetica già precaria e rendendo malformi le ombre scure, e ancora più inquietanti.

Ciò che davvero era spaventoso, però, era il silenzio che ci accerchiava. Un silenzio cupo, tetro, ma che quasi era capace di dar voce alle anime che avevano abitato quella territorio abbandonato. La curiosità aveva preso il sopravvento per i primi momenti, ma poi la storia di come quella terra era stato uccisa mi aveva colpita al centro del cuore. Camminavamo su un luogo di morte, dove la terra era stata bruciata e violata, dove a causa degli scontri tra potenze avevamo rischiato l'estinzione. Conoscevo ben poco di quella vita passata sulla quale stavo poggiando i piedi, ma sapevo che l'evoluzione che i miei occhi stavano osservando aveva ammazzato poco a poco il patrimonio della Terra: la natura e le sue meraviglie, ciò che mia madre chiamava il polmone del mondo.

Quando Hunter mi fece un cenno per comunicarmi d'esser finalmente giunti alla nostra meta, dinnanzi a me si ergeva un edificio rettangolare ricoperto da piante ed erbacce, laddove pezzi di piani, uno sopra l'altro, mancavano perché crollati dalla struttura portante.

Il cielo sepolto da una coltre scura andava via via a schiarirsi per dare di lì a poco il benvenuto ai primi colori dell'alba, la prima che avrei passato lì. Essere un'avventuriera, sebbene ricercata e in pericolo, rendeva ogni nuova scoperta stimolante. Essere estraniata dalla civiltà non mi turbava più di tanto, poi: passare tutta la vita senza legarsi mai ad un posto aveva dato i suoi frutti, alla fine. L'unica ''famiglia'' di cui avevo bisogno ormai era tutta riunita lì. Temevo solo di non riuscire a godere abbastanza di quella pace.

Fatto il nostro ingresso, superato velocemente un cancello la cui metà era riversa sulla strada, spalancai le labbra formando una O sorpresa per ciò avevo trovato. Se dall'esterno poteva sembrare una struttura lasciata lì a deteriorarsi e abbastanza spaventosa, il primo ambiente invece era più ''accogliente'', per quel che poteva essere un luogo reduce da una guerra e abbellito alla meglio; spazioso quasi la metà della palestra nel nostro rifugio e gremito di Sovvertitori dai volti conosciuti e non, dava l'idea di una vera e propria anticamera del posto. Gli stipiti arrugginiti e corrosi attaccati a delle mura, in totale assenza di ante, mi facevano comprendere che il divisorio era stato abbattuto per creare un'unica grande stanza. La stessa sorte era toccata a parte del pavimento del primo piano - raggiungibile grazie alle scale poste sia alla mia destra o a delle funi lasciate a penzolare -, il quale probabilmente era crollato senza l'aiuto della mano umana, così come le pareti. Ciò rendeva più semplice osservare cosa accadeva sopra la mia testa. E viceversa, d'altronde, poiché il nostro arrivo aveva catturato l'attenzione di molti che si erano accomodati sui bordi dei piani superiori, incuriositi.

«Ce ne hai messo di tempo», esclamò, tutta sorriso, una giovane donna altissima e slanciata. Avanzava a grandi passi verso di me. O meglio, verso la figura al mio fianco.

Si fiondò senza timore tra le braccia di Hunter, che l'accolse stringendola a sé e ricambiando l'espressione felice. Doveva essere qualcuno a cui lui teneva indicibilmente per avere una reazione del genere e permetterle quel tipo di effusioni, del genere che non avevo mai visto rivolgere a nessuno prima.

«Facevo un giro turistico», scherzò lui, volgendo successivamente il suo sguardo su di me, seguito dalla sua amica.

Mi sentii un bambino beccato dopo aver fatto una marachella, e il disagio diventò soggezione quando posai gli occhi sulla figura femminile. Era di una bellezza disarmante, il viso magro e squadrato su cui erano incastonati due occhi scuri ma luminosi come delle gemme, vispi e allungati come quelli di un felino. I capelli corti fin sopra le clavicole completavano il quadro rendendola quasi eterea. Mi sorrise spontaneamente e la trovai addirittura amichevole e gentile.«Tu devi essere Sage, finalmente ci conosciamo di persona. Io sono Ophelia, Ophelia Jansen, ma qui tutti mi chiamano "Jo"», inclinò il capo con fare materno, forse invogliandomi a non restarmene chiusa nelle spalle come un cucciolo spaventato.

Sollevai gli angoli della bocca sperando che ciò che si stava aprendo sul mio volto non sembrasse una smorfia, e parlai: «Vorrei fossero state circostanze migliori, ma sono felice di conoscerti Ophelia.»

Fece un gesto con la mano sfinata, e sollevò gli occhi al cielo. «Ti prego, chiamami pure Jo. Sei una di noi a quanto so.»

Serrai le labbra, timida, e annuii.

«E così è questa la carne fresca che mi porti? Una manciata di soldati con vecchietti e bambini come premio?» il vocione pieno e ruvido proveniva dalle spalle di Jo, appartenente ad un uomo alto quanto lei, muscoloso e dalla barba rossiccia. Spalancò le braccia, mostrando ancor di più la sua robustezza già ben visibile sotto la canotta aderente e senza maniche, e abbracciò Hunter, donandogli generose pacche sulla schiena.

Il mio istruttore mugolò, ancora dolorante per i recenti scontri affrontati. «Mentre tu sei qui a pomparti da mattina a sera, io mi occupo di raccogliere orfanelli», fece, mostrando il secondo sorriso della giornata.

«Già, e dalla pessima cera che hai devo dire che stai svolgendo un lavoro egregio!»

«Spazio, spazio», ripeté più volte un'altra figura femminile che si stava aprendo un varco tra la piccolissima folla di persone che si era formata tutt'intorno a noi, qualche metro più in là dell'entrata principale che avevamo attraversato. Hunter doveva essere importante anche lì dentro. «Fatemi abbracciare questo ammasso di ossa consumate!»

Superò Jo e fu felice di godere del suo turno per stringere il Sovvertitore. I capelli scuri, l'incarnato bronzeo e gli occhi grandi, ipnotici e luminosi, così familiari, mi confusero per un istante, convinta che quella di fronte a me fosse Zenda. Dovevano essere parenti senza ombra di dubbio, tesi sostenuta dalla presenza di quest'ultima, a braccia conserte, che ammirava la scena con affetto.

«Più tardi parleremo, ora presentami la piccina qui accanto», disse, rivolgendosi poi a me. «Sei tu Sage, non è vero? Hunter non ti avrebbe persa di vista neanche se gli avessero cavato gli occhi.»

Il senso di disagio tornò forte e chiaro, facendomi sentire come l'attrazione del giorno. «Sono io, sì. A quanto pare la notizia è riuscita a precedere il mio arrivo qui.»

«Be', non capita tutti i giorni di trovare persone come te, e dalla parte giusta», rispose, sbattendo le ciglia voluminose che le facevano gli occhi ancora più grandi ed evidenziavano maggiormente le rughe intorno ad essi.

«E' così sei tu il nostro asso nella manica» prese nuovamente parola l'uomo ''pompato'', scrutandomi più attentamente.

«Non fare caso a Keon, Sage. Fa il duro ma è innocuo, c'è Jo che riesce a tenerlo a bada in uno sciocco di dita», mi rassicurò Hunter, calando il capo verso di me. «Loro sono i gemelli di cui ti ho parlato.»

Mi girai di scatto, dando finalmente un volto ai famosi gemelli che tutti nominavano. «E così siete voi! Non fanno che nominarvi di continuo, elogiando tutto il lavoro che avete fatto per l'Ordine» esclamai, forse un po' troppo sopra le righe per la situazione.

«Ah, quindi Hunter parla di noi soltanto per questo?» fece Jo, dando un colpo al bicipite del colpevole.

«Dato che non ho un cervellone come quelli del famigerato duo, suppongo che nessuno mi abbia presentata e quindi dovrò farlo da me: il mio nome è Talia Rochas», fu la donna che avevo scambiato per Zenda a parlare, e nel sentirne il cognome fui grata che non fosse imparentata con lei.

«E' la sorella di Zenda» precisò Hunter, come se fosse stato in grado di percepire i miei pensieri. «Storia lunga, non è il momento per affliggersi» tagliò corto Talia, sorridendo nuovamente e mettendo in risalto delle ulteriori piccole rughe d'espressione intorno alle palpebre. Doveva essere più grande di Zenda, ma dalla statura e corporatura più piccola, superando la mia altezza di qualche centimetro.

Jo batté le mani, facendo poi un gesto col capo che invogliava a seguirla. «Talia ha ragione, avete viaggiato senza riposarvi e sarete sicuramente a stomaco vuoto. Venite, gli altri gruppi si stanno già rimpinzando volentieri!»

Le pareti di quel rifugio erano di un giallino scolorito e scrostato quasi completamente dalle mura; parte di esse portavano su di sé contorni di polvere e sporcizia, come se per tanto tempo ci fosse stato qualcosa poggiato su. Ambienti di destra che di sinistra erano suddivisi in stanza numerosissime, alle quali era stata completamente smantellata la porta d'entrata, restando fedeli al resto della struttura. L'impressione principale aveva avuto fondamenta, infatti, perché l'idea era stata quella di abbattere il cemento che non serviva e tenere in piedi solo le colonne portanti. O così almeno aveva sommariamente spiegato Talia, che si era unita al tavolo in legno bianco - anch'esso con la pittura scrostata e dai piedi traballanti - imbandito con diverse pietanze. Quell'unico spazio aveva reso molto più semplice per me la possibilità di notare volti conosciuti dei fuggiaschi che avevano abbandonato la base con noi.

Il tutto, ovviamente, era illuminato grazie a quella che chiamavano elettricità.

«Ora è tutto più chiaro», dissi, strappando un pezzo dal tozzo di pane raffermo e passandolo ad Hunter. «Tutto ciò che di diverso avevamo al rifugio in realtà proveniva dal Secondo Humus. Come avete fatto a capirci qualcosa?»

Jo, seduta di fronte a me, fece spallucce e incrociò le mani prima di parlare. «Sono sempre stata curiosa, e così anche mio fratello. Sai, questa qui era una scuola prima che tutto andasse in pezzi, e le meraviglie che abbiamo scoperto sono infinite, per questo l'abbiamo scelta come casa, e il resto è venuto studiando e facendo infiniti tentativi, anche fallimentari.»

«Come avete scoperto questo posto? E' vietato anche avvicinarsi al confine», domandai rivolta ad Hunter, occupato ad ingerire una cucchiaiata di minestra di verdure grigiastre. Doveva essere complesso trovare del cibo in una terra del genere.

«Siamo rinomati per infrangere le regole del patriarcato, no?» gettò un'occhiata d'intesa ai suoi amici più cari, mentre anche Keon prendeva parte a quella conversazione. «Quando le cose hanno cominciato ad andare davvero male per la resistenza che ci ha preceduto, noi eravamo già invischiati fino al collo in tutta la faccenda. Laryngard consigliò un ritiro temporaneo, anche perché all'epoca eravamo poco più che degli adolescenti, io e i gemelli quantomeno, desiderosi di cambiare le cose, ma pur sempre senza un posto sicuro in cui nascondersi», parlò con voce tenue, ma dal modo in cui il suo sguardo si perdeva nel vuoto, un po' come quello dei gemelli, si percepiva tutta la sofferenza che in quegli anni avevano patito.

Tutti avevamo lottato ai tempi, anche se in maniera differente.

«Abbiamo passato qualche anno qui, poi ci siamo resi conto che stare rintanati non avrebbe portato nessun cambiamento. I gemelli scelsero di restare, mentre io e una manciata di altri, guidati da Laryngard, viaggiammo a lungo alla ricerca di un altro rifugio.»

«Deve essere stato difficile per voi».

«Ne abbiamo affrontate più di quanto credi», replicò Keon.

«La parte davvero difficile è non poter fare di più», ammise, affranta, la gemella.

«Ma parliamo di te, adesso. Riesci davvero a fare quelle stramberie con le mani?» domandò nuovamente l'altro, beccandosi una gomitata dalla sorella e un'occhiataccia da Hunter, il viso in parte nascosto nel boccale pieno d'acqua.

Tentennai, giocherellando col cucchiaio nella brodaglia, prima di scegliere se offendermi oppure no. «Non so cosa tu abbia in mente, ma di certo non esce nulla dalle mie mani. Lo controllo con il pensiero...»

«Con il pensiero? Voglio saperne di più» m'interruppe Talia, sporgendosi ulteriormente sulla superficie, l'espressione incuriosita dipinta sul volto che non lasciava possibilità di sfuggire a quell'interrogatorio.

«Percepisco la natura intorno a me, ed è come se mi parlasse. Sono sensazioni, vibrazioni che cerco di interpretare...», mi bloccai, ripensando al grave errore che avevo commesso. Se avessi interpretato nel modo giusto, forse non saremmo stati costretti a piangere molti morti.

«Che cos'è questo interesse per la magia?» Zenda si avvicinò a sua sorella e le cinse le spalle con i palmi, i capelli corti della maggiore che solleticavano le nocche della minore. «Non c'è poi questo granché da scoprire», aggiunse rivolgendosi a me con uno sguardo velenoso.

Per la prima volta in assoluto, non avvertii alcun risentimento o impeto di rabbia. Anzi, le fui quasi grata per aver distolto l'attenzione altrui, permettendomi di far fronte ai miei demoni da sola. Giocare con la mannaia da calare su altre teste innocenti si stava tramutando in un passatempo decisamente troppo cruento per me, ma puntualmente ero io quella che deteneva il potere decisionale, che lo volessi o meno.

Mi guardai oltre la spalla, scrutando così lo spazio sistemato a ristoro: non c'era nulla di diverso dall'ambiente principale. Stesse mura scrostate, tavoli uniti per permettere ai Sovvertitori di godersi un pasto caldo. Anche gli indumenti non erano poi così tanto diversi dai nostri, perlopiù scuri e aderenti quasi fossero una seconda pelle, mentre le armi il prolungamento degli arti e dei nostri stessi istinti.

Poco più in là del tavolo a cui ero seduta c'era Salina, impegnata a dirigersi a passi svelti verso l'uscita.

«Scusatemi», pronunciai quella singola parola già in piedi, senza aspettare che qualcuno mi desse il permesso. In un paio di falcate ero già dietro la mia amica, un viso più che familiare poiché per me era diventato casa.

«Ehi», feci, impedendole così per un soffio di sfuggirmi. «Finalmente ti ho trovata.»

Lei si gettò fra le mie braccia e tirò un sospiro di sollievo. Mi tenne stretta per una manciata di secondi, poi tornò a guardarmi in viso ma senza abbandonare la stretta dei suoi palmi sulle mie braccia. «Grazie alla Madre stai bene! Tutto quello che è successo mi ha messa in forte agitazione.»

«Posso immaginarlo», risposi, tentando di nascondere quella nuova ondata di sensi di colpa che arrivava più violenta della precedente. «Dove sono Travis e Hussain?»

L'espressione della Sovvertitrice mutò e da apprensiva divenne sofferente. «Travis si è offerto per la ronda, non voleva starsene con le mani in mano. Hussain invece doveva occuparsi del bambino e ha chiesto una mano a due donne che gestiscono i neonati qui dentro», spiegò, poi fece una pausa prolungata. «E' dura, è stata dura per tutto il viaggio.»

Mi inumidii le labbra, dispiaciuta e in difficoltà; dopotutto, se ciò che era accaduto fosse stato in parte evitabile grazie alla mia percezione, anche la morte del padre di Hussain ricadeva sulle mie spalle, alla fine. Non so come avrei potuto guardarlo ancora negli occhi.

«Verrò a trovarlo tra poco», dissi soltanto, annuendo insieme a Salina, la quale poi mi salutò e andò via, attraversando il centro del rifugio e imboccando le scale.

Tirai un lungo sospiro. Non era un sospiro di sollievo, tratto dall'assenza degli sguardi inconsapevoli ma così accusatori, ma uno carico di angoscia. Sapevo così poco di ciò che ero, così a malapena in grado di riconoscere e controllare quel potere, eppure gravavano già troppe anime su di me. Come mi era saltato in mente di prendere parte ad un gioco più grande di me? Che cosa speravo di ottenere, da sola, contro un intero regime?

«Sage? Ti senti bene?» chiamò Hunter ad un passo dalla mia persona. La sorpresa mi distrasse da quei pensieri, sebbene per troppo poco tempo, e mi fece balbettare un confuso ''cosa?''.«Va tutto bene? Sei stanca?» ripeté lui, aggrottando le sopracciglia.

«Sì, è sicuramente stanchezza mista allo stato d'ansia che tutto ciò che è successo ha portato», tentai di essere il più convincente possibile, impiegando tutte le mie energie per abbozzare un sorriso fulmineo.

Hunter non disse nulla, continuò a fissarmi circospetto finché Jo non comparve alle sue spalle. «Allora, andiamo?»

«Dove andiamo?» domandai, guardando prima lei e poi il mio istruttore.

«Jo voleva farti fare un giro della base, dice che ci sono cose che sicuramente potrebbero interessarti, ma considerato che...»

«No, non serve», interruppi il Sovvertitore prima che potesse aggiungere altro, sperando che ne cogliesse il significato anche grazie al mio sguardo eloquente. Un po' di momentanea distrazione mi avrebbe fatto bene. «Sono molto curiosa di scoprire cose nuove. Fammi strada, ti prego», mi rivolsi a Jo questa volta, proprio accanto al Sovvertitore, che allargò le labbra strette ma carnose in un sorriso entusiasta.

Il giro perlustrativo fu incentrato principalmente sulla struttura dell'edificio. Jo mi aveva già spiegato che quella un tempo doveva esser stata una scuola, un luogo di ritrovo per ragazzi. Avevano trovato moltissimi libri di storia, di geografia, di matematica e chimica. Lei e suo fratello, soprattutto, si erano appassionati e avevano studiato per apprendere sempre più di quel vecchio mondo. L'avevano esplorato, trovando così in ciò che avevano chiamato ''distretto di polizia'' un vantaggio che ci dava un vantaggio sull'esercito di Victor, ma anche sui temuti mostri volanti: le armi da fuoco.

«Abbiamo impiegato un pezzo per capire cosa fossero e come si usassero», aveva detto, «e nei primi periodi sono state riportate diverse ferite, alcune mortali. Non bisogna giocare con le armi da fuoco che il passato ci ha offerto», aggiunse l'ultima frase con una nota di tristezza nella voce, come se le pistole e i mitra fossero più pericolosi di quanto ci avessero fatto credere.

Come avevo immaginato, la struttura iniziale della scuola era stata cambiata affinché si potesse creare un unico ambiente comune, per dare più calore e vicinanza a coloro che arrivavano. Così come per noi, anche lì molti non erano combattenti, bensì semplici rifugiati che scappavano da un sistema che aveva tolto loro tutto. Da ciò che avevo capito, lì c'erano meno soldati poiché la guerra non era arrivata. Noi eravamo la prima, ammaccata e con l'umore calante, linea.

Secondo i racconti di Jo, con Keon, Hunter, Zenda e Irina per ultima, erano diventati una famiglia affiatata, cresciuti tutti insieme, ed erano stati i veri primi Sovvertitori (i primi quattro completi), ed era stato proprio Hunter, un po' come lo era adesso, il leader.

«Lui è il primo vendicatore», scherzò lei nella direzione di suo fratello acquisito, anche se io non risi perché non avevo idea di cosa dovesse vendicare. Notando la mia confusione, Hunter mi lanciò un quaderno ricco di figure dai colori sgargianti, sulla cui copertina spiccava la scritta ''Marvel''. Continuai a non capire, ma in fondo quello era solo il mio primo giorno.

Jo mi mostrò poi fotografie del tempo che ci aveva preceduto: giovani sorridenti che indossavano buffi abiti e sorridevano nella mia direzione, strani aggeggi tra le mani.

«Che cosa è successo realmente qui?» chiesi dopo un po', rintanati in una stanzetta che conteneva pezzi di passato, dai libri per bambini, ad una croce con un uomo inchiodato su di essa, ai pezzi di ferro a forma di coppa o dei dischetti rotondi sulle cui targhe si leggeva ''miglior studente''. Cianfrusaglie di ogni genere poggiate su armadietti o scaffali, il tutto illuminato soltanto da una candela o due.

«E' difficile da spiegare...», confessò la Sovvertitrice, mordendosi l'interno della guancia. «Qui c'è un vecchio e malconcio televisore che siamo riusciti a far funzionare per visionare delle immagini in movimento su un disco che abbiamo trovato, potresti capirci di più in questo modo.»

«Che cos'è un televisore?» aggrottai le sopracciglia al suono di quel termine nuovo.«E' la scatoletta laggiù», fece Hunter, le braccia conserte contro uno scaffale e il peso spostato sul piede destro.

Osservai Jo armeggiare con degli affari che emettevano rumori sordi. Diede su due colpi, come se fosse quella la maniera giusta per metterli in funzione, e si accomodò per terra accanto a me.«Che cosa fa?»

D'un tratto la ''scatoletta'' prese vita, facendomi sobbalzare, la mano di Jo che corse a rassicurarmi. Scorrevano immagini mute di mari carici di sporcizia, orsi bianchi magrissimi, grattacieli demoliti da mezzi veloci come fulmini che attraversavano il cielo, bambini nudi che piangevano tra le braccia di madri dall'aria triste, foreste che bruciavano violentemente, tutto come se all'interno ci fosse un'altra vita. Nuvole di fumo esplosero gigantesche verso l'alto in frammenti di inquadrature scoordinate, persone che crollavano al suolo o scappavano via spaventate.

«Aspetta, è troppo avanti», Jo si alzò nuovamente e tornò a battere colpetti su strutture dalla forma rettangolare. Da dietro la sua spalla potevo leggere frasi come ''IL POLMONE DEL MONDO E' IN FIAMME'', ''ABBIAMO UNA SOLA TERRA'', ''ISOLA DI RIFIUTI PLASTICI NEL PACIFICO'', ''E' SCONTRO TRA LE MAGGIORI POTENZE PER IL POSSESSO DI RISORSE''.

Quando Jo riuscì nel suo intento, dietro quell'oggetto magico presero a scorrere immagini a ritroso così velocemente da sembrare un fiume impetuoso e selvaggio. Avvertii un senso di oppressione alla bocca dello stomaco, stretto come in una morsa, e un'ondata di dispiacere per ciò che era successo a uomini e donne prima di noi.

Scenari diversi cominciarono a susseguirsi più lentamente, permettendomi così di posare gli occhi su sorrisi simili a quelli che avevo visto nei raccoglitori di poco prima; prati verdi popolati da civili dagli abiti eccentrici, cantavano e si tuffavano in quello che doveva essere un lago, un gruppo di ragazzini che con un sacco in spalla attraversavano pareti similissime a quelle che circondavano noi, oggi, spintonandosi e ridendo l'un dell'altro. Gli stessi giovani nella successiva sequenza venivano raffigurati con una copertura per gli occhi, che tuttavia non sembrava renderli ciechi, sullo sfondo della stessa torre a punta che avevo visto sulla scrivania di Laryngard. Poi, il mare... una distesa immensa d'acqua azzurrissima che s'infrangeva sulla sabbia bianca, dove piccoli esserini tentavano goffamente di arrivare tra le onde fresche. Era un sogno.

«E' così che era il mondo?» domandai in un soffio, rapita e con un forte senso di malinconia che mi attanagliava il petto, un desiderio d'esser parte di quel luogo lontano dove tutto sembrava così semplice.

«Prima che diventasse così...», aggiunse Jo con voce afona, e con un tocco rese nuovamente visibili i disastri che mi avevano angosciata.

«Era tutto così bello... perché l'hanno ridotto ad un cumulo di cenere?» il mio tono non mi tradiva: era tremolante, esattamente come il mio stato d'anima turbato.

Hunter, ancora alle mie spalle, sospirò. «Erano troppo occupati a farsi la guerra per accorgersi che l'unica cosa che stavano ammazzando era la terra che dava loro vita. Lo hanno sempre fatto, i libri lo raccontano così chiaramente... Non hanno imparato niente.»

Me ne restai in silenzio, poiché l'assurda mancanza di giudizio di chi ci aveva preceduto mi aveva lasciata attonita, specie se si considerava ciò che avrei dovuto essere per diritto: la Guardiana, come mi aveva chiamata quel magnifico drago incontrato nella foresta. Avevano ucciso, abbattuto, bruciato e prosciugato il terreno, firmando così la loro condanna a morte. Era proprio come mia madre aveva sempre raccontato.

Voltai lo sguardo verso la statuetta poggiata su libri di scienza e l'afferrai con cautela. Osservai meglio ciò che avevo tra le mani solo per accorgermi del sangue che colava da numerose ferite, una corona di spine sul capo e i palmi forati da chiodi che tenevano l'uomo agganciato alla croce. La crudeltà era di questo mondo anche prima di Victor, e proprio non riuscivo a capire come o cosa avrebbe potuto fare una ragazzina come me per sradicarla, se le radici erano così profonde e antiche.

«Perché facevano cose del genere? La malvagità ci ha perseguitati fino a qui.»

«Lui era la loro divinità, l'oggetto della loro fede», mi spiegò Jo, spiazzandomi.

Strabuzzai gli occhi e alternai lo sguardo dal suo viso tondo a quello dell'uomo di cui stava parlando. «In carne ed ossa?! Che cosa gli hanno fatto? E perché non credevano nella Grande Madre?»

Jo scosse la testa. «Ciò in cui credevano veniva definito Dio, non so di cosa o se questo fosse effettivamente il suo nome, che era suo padre.»

«Lui era considerato il messia, un portatore di pace nato per cancellare la crudeltà umana», s'intromise Hunter, aggiungendo altri dettagli alla storia.

«Un po' come te», fece Jo, lo sguardo sognante che mi fece violentemente arrossire.

«E' morto perché uno dei suoi l'ha tradito», fece Keon, oltrepassando le fila di foglie appese, unico divisorio tra quella parte del rifugio e tutto il resto.

«Keon!» lo sgridò sua sorella.

«Incoraggiante. E perché questo credo non si è tramandato fino a noi?» la mia natura curiosa cominciava a farsi fin troppo evidente, ma i miei superiori non avevano tutte le risposte alle mie domande.

«Quando sei senza casa, senza uno scopo, completamente solo e con i tuoi cari tre metri sotto terra, smetti di credere a tutto», disse Keon. «Soprattutto a chi predicava la pace in un mondo in guerra.»

Mi concessi un attimo prima di rispondere, riflettendo sulle sue parole. «Sembra terribilmente triste... e arrendevole. Il mondo perennemente in fiamme.»

L'altro ghignò, sollevando sia le spalle che l'angolo della bocca larga sul suo viso magro, «Buongiorno, principessa. E' quello in cui vivi anche tu.»

Il piano superiore era più spoglio e meno confortevole rispetto a quello inferiore, e decisamente meno illuminato. Avevo faticato per trovare la stanzetta dedicata alle nuove nascite, essendo quest'ultime quasi tutte uguali, nella quale presiedevano per quella notte due donne. La prima, quella più vicina all'entrata, china su un letto sul quale erano riposti tre piccoli fagottini che riposavano quieti, era robusta, non più alta di me. Aveva i capelli raccolti di una crocchia disordinata, e il volto segnato da una stanchezza che la rendeva molto più anziana di quello che il realtà probabilmente era. Accarezzò il capo di un bambino e si voltò a guardarmi, accorgendosi soltanto in quel momento della mia presenza sulla porta. Mi rivolse un'occhiata interrogativa, scuotendo leggermente il capo come a volermi domandare cosa volessi con una ciotola e un bicchiere tra le mani.

Riscuotendomi, risposi: «Sto cercando il ragazzo che è arrivato oggi con un bambino piccolo, è alto e...»

«Ah, quello nuovo», rispose con noncuranza. «Seguimi», e sospirò, forse esausta.

Mi fece strada tra i letti posti alla mia sinistra e alla mia destra, tre per ogni lato, che ospitavano bambini anche più grandi, mi indirizzò dietro una tenda di color fango e mi disse di superare una donna che stava allattando un paio di creaturine rosa. Sul fondo della stanza, nella penombra vi era Salina con l'orfano tra le braccia e Hussain seduto su una delle brande, intento a massaggiarsi il collo. Si accorse di me e mi donò un sorriso abbozzato e stanco, il massimo che poteva offrire. E il massimo, o molto di più, di quel che meritavo.

«Ecco Sage! Hai visto? E' venuta a trovarti», Salina parlò al bimbo alterando la sua voce e rendendola più acuta e buffa.

Risi, ma poi mi concentrai sul mio amico. «Ho pensato avessi fame», dissi, alzando le spalle e smuovendo così la brodaglia scura raffreddata che tenevo in una mano. «Non è il massimo però», bisbigliai, augurandomi di provocargli una piccola risata.

Mi mostrò per una frazione di secondo i denti mentre si alzava e mi veniva incontro, mi liberò dalla cena per posarla su un letto libero e, con mia sorpresa, mi abbracciò. Anziché piacevole, quel gesto fece tremare le mie gambe per il senso di colpa, e dovetti sforzarmi per non scoppiare a piangere tra la stretta di Hussain, ricacciando a fatica le lacrime che mi pungevano gli occhi.

«Grazie per esserci», mi sussurrò, stampandomi poi un bacio sulla spalla. Fu il contatto più stretto e bisognoso che avessimo mai avuto.

«Dove avrei mai potuto essere?»

Malianna, questo il nome di quella che si era rivelata una bellissima neonata, si era appena addormentata quando io, Salina e Hussain ci accomodammo sulla branda, persi a guardarla riposare. Hussain aveva viaggiato con lei tra le braccia per tutto il tempo, proteggendola da qualsiasi cosa, e si era staccato da lei controvoglia anche quando la balia gliel'aveva portata via per nutrirla.

«E' così piccola che ho paura di tenerla nel modo sbagliato e farle del male», confessò lui dopo qualche istante di silenzio.

Salina, a sinistra, poggiò una mano sulla sua spalla, mentre io affermavo: «Hai fatto una scelta coraggiosa, sono sicura che riuscirai a prendertene cura nel migliore dei modi.»

Il ragazzone sollevò l'angolo della bocca e si guardò le scarpe sporche di terreno. «E' meno di quello che è riuscito a fare mio padre per lei.»

Sospirai, e questa volta fu la mia compagna a prendere parola. «E sarebbe orgoglioso di te per quello che stai facendo, come lo è sempre stato», lo rincuorò.

A quella affermazione, Hussain fece una smorfia di disapprovazione, passandosi poi i palmi sul viso con fare stizzito. «Non lo è mai stato. Per la Madre, non facevamo altro che litigare... Quanto tempo sprecato, un tempo che non posso più riavere!»

Si alzò, le gambe che andavano avanti e indietro senza realmente spostarsi per più di due metri. Il suo volto era una maschera di amarezza, di tristezza, di rabbia. Poi si fermò, leccandosi il labbro inferiore e poggiando le mani sui fianchi. «Non l'ha mai ammesso, ma m'incolpava per la morte di mia madre. E come dargli torto, in fin dei conti.»

Parlammo all'unisono.

«Non dire sciocchezze», fece lei.

«Che cosa stai dicendo?» risposi io.

Lui annuì con energia. «Da quando lei se n'è andata, lui non è più riuscito a guardarmi. Mia zia ha fatto il meglio che ha potuto, ma come fai a spiegare ad un bambino di due anni che suo padre vede in lui soltanto sofferenza, perdita e dolore? Che incarna il motivo per il quale gli è stato strappato via l'amore. Credo che nessuno riuscirebbe a spiegarmelo neanche oggi, dopo ventiquattro anni.»

Il suo sfogo fu una pugnalata nel centro del petto, e fissare i suoi occhi lucidi peggiorò soltanto la situazione. Non potevo, non riuscivo a guardarlo negli occhi.

«Non è così. Magari lo è stato all'inizio perché prima doveva accettare e superare il lutto, ma era fiero di quello che sei diventato e glielo si leggeva nello sguardo, nel modo in cui ti osservava. Ti guardava ammirato da lontano, anche senza toccarti», replicò prontamente Salina, che conosceva meglio la storia e poteva dare un punto di vista più completo al riguardo.

Le spalle di Hussain sobbalzarono per lo sbuffo divertito che aveva emesso. «Senza toccarmi, è vero. Mi rifiutava, anche se mi voleva bene, esattamente come faceva mia madre: mi amava, ma non riusciva a trasmetterlo ed è per questo che si è tolta la vita», fu crudo, tagliente, e mozzò il fiato di entrambe fino a farci ammutolire. Dopo qualche secondo, fu lui a parlare ancora. «Sono stato uno stupido. Come uno stupido, ho lasciato che questa condizione mi andasse bene per mero orgoglio. Avrei dovuto fare il primo passo, avrei dovuto dirgli che gli volevo bene... Meritavo solo più tempo, volevo solo un altro po' di tempo...» e la voce rotta di Hussain mentre si lasciava andare alla commozione fu la stoccata finale per me.

Salina gli stava spiegando che non era colpa sua quando io, sopraffatta dal dispiacere, mi alzai dalla branda e superai Hussain. Due lacrime caddero una dietro l'altra, spazzate via dalle dita tremolanti. "Che cosa hai fatto?" mi chiesi mentre circondavo con la braccia la bocca della stomaco nel tentativo di colmare quel senso di vuoto che stavo avvertendo.

«Sage, che cos'hai?» udii il Sovvertitore porgermi una domanda come da lontano.

«Sage?» chiamò Salina.

Inspirai a narici spalancate prima di voltarmi a guardare due dei miei più cari amici, gli unici che avessi mai avuto. I loro volti pieni di lividi ed escoriazioni aumentarono il senso di nausea che non riuscivo più a tenere a bada, poiché potevo sentire fin dentro le ossa una necessità impellente di vomitare una verità che detestavo quasi quanto detestavo me stessa e la mia stupidità, la quale aveva già causato così tante morti.

«Lo sapevo», ammisi, con l'ultimo filo di fiato rimasto.

Hussain aggrottò le sopracciglia mentre l'altra assunse l'espressione confusa di chi non riusciva a star dietro al discorso.

«Di cosa stai parlando?» domandò lui.

Un'altra lacrima mi rigò il viso, inumidendo l'angolo della bocca ricurva per la sofferenza. «Sapevo che ci avrebbero attaccati.»

Salina, che fino a quel momento era stata ricurva e con i gomiti poggiati sulle ginocchia, raddrizzò la schiena di scatto e sgranò gli occhi per la sorpresa. Hussain invece non mosse un muscolo, l'espressione non mutò e non proferì parola: sembrava congelato, di marmo, abbandonato da qualsiasi tipo di emozioni.

«Quando mi sono scontrata con Zenda, per un momento una sensazione di pericolo proveniente dall'esterno... dalla natura stessa, mi ha coinvolta e...», sospirai, inciampando nelle mie stesse parole. «Ho creduto fosse per Hunter... per te, e per tutta la squadra», ammisi con un filo di voce, spezzato dall'ennesima ondata di dispiacere e rammarico.

La Sovvertitrice si passò l'indice tra le sopracciglia, in difficoltà, consapevole del fatto che la mancata reazione di Hussain sarebbe ben presto esplosa in una furia cieca, da riversare interamente su di me.

«Perché non l'hai detto prima?» Salina mi parlò come si parla ad un bambino consapevole di aver combinato un pasticcio. Accondiscendente e cauta.

Tirai su col naso. «Non ho avuto neanche il tempo di realizzarlo. Sono finita di infermeria per colpa di Zenda, poi Hunter e tornato e poi è successo tutto questo», allargai le braccia per evidenziare metaforicamente la situazione in cui eravamo.

«E credi che questo valga qualcosa paragonato a quante vite sono andate perse per colpa tua?» gridò Hussain, d'improvviso, e zampilli di saliva volarono dalle sue labbra piene. «Credi che questo valga più della vita di mio padre?»

Mi fece trasalire, così come successe alla nostra compagna alle sue spalle. Anche la bambina si agitò, il visino le si contrasse, pronta a scoppiare a piangere esattamente come stava facendo il suo protettore.

Colpita nel vivo, non potei fare altro che ammutolirmi, conscia della veridicità delle parole di un Hussain arrabbiato, ferito e deluso.

«Hussain!» disse Salina, che nel frattempo aveva preso la bambina tra le braccia per calmarla. «Che cosa, Salina? Gioca a fare l'eroe di turno e non si preoccupa neanche di chi si lascia dietro!» mi indicò senza neanche guardarmi, e continuò così anche quando lo interruppi.

«Questo non è giusto...» contestai a fil di voce.

«Sai cosa non è giusto? Che io abbia dovuto seppellire mio padre senza aver modo di riappacificarmi con lui, e tutto per colpa tua», le ultime quattro parole le pronunciò guardandomi dritta negli occhi, così scuri da sembrare completamente neri, sclera inclusa.

«Ho creduto si trattasse di voi», ripetei flebilmente.

«Non prendermi per uno stupido, Sage», ringhiò lui, stringendo i pugni tesi lungo i fianchi. «So perfettamente che quando si tratta di Hunter il resto si annulla. E' palese che provi qualcosa per lui.»

«Stai dicendo sciocchezze, e in ogni caso non c'entra nulla con questo!»

Lui sfoggiò un sorriso amaro, molto più simile ad un ghigno nervoso. «Ah, no? Mio padre è morto perché eri troppo preoccupata che ad Hunter capitasse qualcosa.»

Non riuscii a proferir parola dopo la frase tagliente e velenosa che aveva avuto il coraggio di dirmi. Forse la verità era più cruda e difficile: non era il contenuto ad avermi ferita, ma la rivelazione che portava alla luce.

La bambina scoppiò a piangere e Hussain si voltò verso di lei, dandomi completamente le spalle. Salina, rammaricata, tentava di rassicurarmi e tranquillizzarmi con uno dei suoi sguardi compassionevoli e comprensivi. Pareva dirmi ''non lo pensa davvero, non prendertela''. Annuii verso di lei, strinsi le labbra e mi guardai la punta degli stivali sporchi.

«Prenditi cura di lei e di te stesso», sussurrai senza aspettare che si voltasse a replicare.

La stanchezza che gravava sulle mie spalle sarebbe stata capace di abbattere un cavallo, eppure su di me sembrava non avere alcun tipo di effetto, e me ne ero resa conto all'ennesima "giravolta" fatta sulla brandina scomoda. Il secondo piano era silenzioso in maniera anomala. Non un sussurro, un respiro più pesante, neanche mezzo grugnito involontario. Gli unici rumori che si percepivano erano i cigolii che emetteva il ferro sotto di me ogni volta che cambiavo fianco. Stanca, sbuffai e mi issai facendo leva sui gomiti. Un po' d'aria fresca forse mi avrebbe fatto più che bene.

Esplorai i piani superiori, totalmente immersi nel silenzio o addirittura disabitati, fino alla presenza di una porta in cima ad un'ultima rampa di scale. Al buio, camminai con cautela e tenendomi forte al corrimano, facendo attenzione alle superfici poco stabili sotto di me.

Una volta aperta, apparve dinnanzi a me una distesa d'oscurità con una luna calante come protagonista. Sullo sfondo, miriadi di stelle che incorniciavano la sua bellezza e la rendevano anche più luminosa, la unica padrona della scena. Il caldo umido era più sopportabile lì, dove una leggerissima brezza di tanto in tanto mi faceva svolazzare piccole ciocche scure davanti agli occhi.

Riavviai i capelli, nel tentativo di dar loro un po' di ordine, e massaggiai la nuca mentre avanzavo con cautela sulla vetta dell'edificio. Gli unici rumori che si udivano, anche lì, erano i passi pesanti delle sentinelle sparse per la terrazza, alcuni molto più vicini di altri. Tutti erano addestrati, così come da noi, per rivestire un ruolo preciso in quel luogo. Non c'era bisogno di chiedere quando o come cominciare il proprio turno in mensa, il proprio turno di sorveglianza. Tutto era perfettamente organizzato, armonioso e semplice.

«C'è qualche problema?» domandò una voce afona alle mie spalle, facendomi sobbalzare.

Mi portai le mani al petto, voltandomi e facendo un passo indietro. Poi risi, innervosita.

«Chiedo scusa...»

«No, nessun problema. Ero sovrappensiero e non mi sono accorta di non essere sola. Volevo prendere un po' d'aria...», dissi, guardandomi intorno e poi posando lo sguardo su di lui. Nella penombra non riuscii a scorgere alcun tratto somatico, soltanto un naso prominente che formava un'ombra sul lato sinistro del viso.

«Devi essere nuova da queste parti, perché non è permesso stare qui» disse con calma. Intravidi anche un piccolo accenno di sorriso, prima che un'altra figura fuoriuscisse dall'oscurità.

«Tranquillo, Remblo, lei è con me», concluse Hunter con un tono che non ammetteva obiezioni, soprattutto perché nessuno osava muoverne al proprio condottiero.

Remblo, questo il suo cognome, annuì con fare obbediente e si dileguò, tornando alla sua originaria postazione.

«Ti ringrazio, ne avevo davvero bisogno», confessai, avanzando insieme a lui verso il parapetto.

Hunter si prese una pausa, congiunse le mani dietro la schiena e dopo un po' sospirò. «Incredibile come tu possa attirare guai come il miele per gli orsi.»

Risi, carezzando le braccia nude con i palmi per attenuare la pelle d'oca. Non faceva freddo, ma per qualche strana ragione ero percorsa da piccoli brividi. «A te invece sta piacendo un po' troppo salvarmi ogni volta.»

Percepii il suo sorriso ancor prima che gli sollevasse l'angolo della bocca. «Non farci troppo l'abitudine», mi avvertì lui.  «Allora, che cosa ci fai qui nel cuore della notte?»

Scrollai le spalle in una risposta tacita e neutra: non sapevo ancora se sciogliere la lingua e confessare proprio tutti i miei peccati oppure continuare a tenermi stretto quel velo protettivo che mi impediva di esser ferita. Un velo che usavo persino con Hunter.

«O forse dovrei chiederti perché sei scappata quassù», si corresse poi, come a voler incitarmi ad annientare quel silenzio forzato.

«Cosa ti fa credere che io sia scappata da qualcosa?» chiesi, mostrandomi così punta nel vivo pur non volendolo.

«A dispetto di quello che pensi, anch'io sono un ottimo osservatore. Soprattutto se quella da osservare sei tu», concluse, e ciò che avevo in mente di dire svanì magicamente dalla mia testa. «Ho notato il tuo stato d'agitazione da quando siamo arrivati, e dubito sia stato per Zenda, per l'attacco o per essere qui con la Seconda Divisione. C'è una patina di tristezza che ti rende lo sguardo grigio.»

Strinsi con energia le dita al lembo della stoffa aderente della mia maglia per la veridicità di quanto aveva affermato. Non potevo credere di essere così trasparente, o vulnerabile, di fronte a uno sguardo o una parola di Hunter. Riusciva a vedere le mie fragilità e non le usava contro di me non appena ne aveva l'occasione. La fiducia verso gli altri era sempre stato un problema posato come una catena di spine intorno al mio cuore, ma grazie al suo modo di essere sentivo alleggerire quella pressione, quel pizzicore, perché pian piano lui stava allontanando quei denti aguzzi.

«Quella che tu vedi come tristezza è in realtà un senso di colpa che mi sta divorando», ammisi, con una morsa che stringeva la mia gola, l'unica che tuttavia mi impediva di scoppiare in un pianto disperato, l'unica che mi teneva appesa ad un filo. «Jeffrey, l'attacco, il padre di Hussain... sono tutte perdite che gravano sulle mie spalle», continuai, portando la mano destra sulla spalla sinistra in un tentativo, magari, di poter trovare anche il più piccolo dei sollievi. Non osavo guardarlo, i puntini luminosi nel cielo e le ombre inquietanti dei palazzi intorno a noi erano tutto ciò a cui permettevo di riempirmi gli occhi.

Hunter cominciò a scuotere la testa senza mai perdere il contatto visivo. Potevo sentirlo addosso in un richiamo muto; ''guardami'', stava dicendo. Quando lo feci, lui s'accigliò, poi espirò dalle narici. «Sage... no.»

Deglutii a fatica. «Dillo a Hussain e al modo in cui mi ha accusata di aver strappato a lui e a suo padre del tempo prezioso.»

«Sage», esclamò con più veemenza. «No. Non è per questo che ti sto preparando. Ci saranno più vittime di quel che credi per cui potrai sentirti responsabile, ma non è questo il caso.»

«E' così, Hunter», insistetti. «Quando non c'eri... ho sentito qualcosa. La natura mi ha parlato, mi ha messa in guardia riguardo un pericolo che stava arrivando. Ho creduto che... che si trattasse di voi...» gli occhi mi si riempirono di lacrime mentre confessavo quella verità. Tamponai il naso con le dita e mi guardai intorno: avrei fatto di tutto pur di non leggere il disprezzo, la rabbia, o qualsiasi altro sentimento negativo sul volto di Hunter. Ma lui mi si avvicinò, afferrandomi gli avambracci, e costringendomi così a guardarlo negli occhi.

«Non è colpa tua, Sage», scandì bene ogni parola affinché ne comprendessi il significato. «Solo perché hai delle abilità fuori dal comune, non vuol dire che tu sappia come utilizzarle. E' per questo che sono così severo, categorico... protettivo nei tuoi confronti», si aprì, forse per la prima volta, ma perse per qualche istante la concentrazione nell'ultima parte del discorso, tornando a sospirare con la bocca schiusa. Lo sguardo guizzò per un momento sulle mie labbra, ma durò troppo poco. «E' per far sì che tu possa conoscere ciò che c'è dentro di te, è perché non potrei mai permettere che ti accadesse qualcosa. Non lo sopporterei.»

Parve in difficoltà, alla continua ricerca delle parole giuste. O di quelle sbagliate, perché erano le uniche che poteva concedersi.

Alla fine, qualcos'altro ebbe la meglio sulla ragione. «Rischierei la mia vita pur di tenerti al sicuro, Sage.»

L'intensità, il modo in cui quella frase lasciò la sua bocca per atterrare sulla mia generò un impatto devastante.  «E' lo stesso che succede anche a me. E' per questo che non ho pensato ad altro che a te quando ho percepito il pericolo.»

La sua presa divenne più salda, per qualche attimo riconobbi dell'imbarazzo nell'angolo della bocca che si sollevava. Anche quel momento durò poco più di un soffio.

«Imparerai a riconoscere i segnali che la natura ti dà, ma ciò che è importante tu capisca è che non puoi essere ovunque, o salvare tutti. Lo sai già.»

Ed era vero, lo sapevo perché quella era una frase ricorrente che lo stesso Hunter e poi Kenneth mi avevano ripetuto. Un'altra ondata di pensieri invase la mia mente stanca: la ragazza al villaggio, Polgrim e la sua preoccupazione, le perdite subite e il potere che Victor otteneva con il terrore. Sospirai a bocca aperta, mettendo a tacere il desiderio di perdermi tra le braccia di Hunter e lasciare a lui il compito di lavare via le mie preoccupazioni. Ma come avrei potuto farlo, se per un passo in avanti ce n'erano due all'indietro?

Prima che potesse aggiungere altro, mi distesi sul pavimento senza alcun preavviso, sicura di essermi meritata un'occhiata confusa.

«Si può sapere cosa stai facendo, adesso?»

Risi per la spontaneità del suo stato interdetto e allo stesso tempo buffo, poi spiegai: «Da piccola, ogni volta che qualcosa mi tormentava o mi rendeva ansiosa e preoccupata, scappavo sul tetto di casa e guardavo le stelle, cercando in esse delle immagini. Mia madre odiava quando lo facevo, aveva paura che potessi cadere e spezzarmi l'osso del collo, ma non sapeva quanto bene mi facesse all'anima.»

Fece una pausa, elaborando le informazioni. «Tu sei tutta matta», concluse infine, cercando di nascondere un sorriso e puntando lo sguardo verso l'oscurità. Dopodiché sospirò, s'accovacciò e si spinse all'indietro per sedersi accanto a me.

Lo osservai, felice che mi avesse seguita ma in attesa che adagiasse anche la schiena al pavimento del tetto, esortandolo addirittura con un'alzata di sopracciglia.

«Matta e insopportabile», brontolò prima di accontentarmi.

Hunter era piuttosto particolare quando non vi era nessun altro nei paraggi. Si ammorbidiva, quasi, ed era più propenso a seguire le idee sconsiderate di una ragazzina. Si sforzava per non oltrepassare il confine tra noi, ma quanto più spendevo del tempo insieme a lui, più mi era chiara l'influenza che avevamo l'uno sull'altra. Potevo chiedere a me stessa di non viaggiare sconsideratamente con i pensieri, ma sapevo che Hunter non era più mosso dal semplice senso di protezione nei miei confronti, e lo mostravano le confessioni sporadiche che continuava a farmi e che mi facevano battere all'impazzata il cuore in gola.

«Comincia a cercare, avanti», gli ordinai poco prima d'intavolare un altro discorso. «Non avevo idea che Zenda avesse una sorella e che la stessa fosse parte della... Seconda Divisione?»

«Seconda Divisione», ripeté con me il Sovvertitore. «Sì, sono sorelle da parte di madre, e si sono ritrovate proprio grazie all'Ordine. Talia è molto più grande di lei, ed era soltanto una bambina in fasce quando sua madre sposò il padre di Zenda», spiegò, mentre la mandibola gli si contraeva. «Quando la donna morì, lei scappò via anche dai fratelli perché gli uomini Correia le facevano orrore, e con giusta ragione.»

Con lo zigomo sinistro poggiato sulle piastrelle fredde, attesi che continuasse senza forzare la mano. Ricordavo ciò che mi aveva accennato nelle gallerie, il modo in cui i Correia trattavano le donne, anche della loro stessa famiglia, era discutibile. Hunter sembrò voler aggiungere qualcosa, e dal tono avrei giurato che ciò che stava per confidarmi fosse non soltanto personale, ma profondamente grave.

«Si sono approfittati di Zenda per molto tempo, in ogni senso immaginabile, anche quello più macabro e meschino», precisò volutamente per non dover parlare apertamente. Trasalii al pensiero che Zenda avesse dovuto subire ciò che la mia mente stava ipotizzando.

Dovetti anche cambiare impercettibilmente espressione, perché Hunter cominciò ad annuire. «Già. Quando l'abbiamo trovata era sporca, indicibilmente magra e diffidente. Spaventata. Non riusciva neanche a camminare per il dolore.»

«Non pensavo fossero capaci di arrivare a tanto. Era la sua famiglia.»

«Anche io lo sono, eppure mi rimprovero fin troppe cose.»

«E' per questo che è finita tra voi?» chiesi di getto. Tutte le cose che il Sovvertitore mi aveva raccontato cominciavano a prendere una forma concreta, le frasi che mi aveva confidato prendevano vita di fronte ai miei occhi.

"Per un periodo siamo diventati qualcosa in più di semplici amici''. ''Prendevamo dall'altro ciò che ci veniva offerto, forse io ho preso fin troppo e ho dato troppo poco".

«Non volevo continuare a comportarmi come suo padre e i suoi fratelli», ammise con un un filo di voce. Quella sembrava una confessione in piena regola, e il fatto che la stesse facendo a me mi spinse a superare ulteriormente quella linea sottile che delineava il livello di confidenza tra noi. «Non credo che tu possa essere paragonato a quelle persone.»

«Mi conosci così poco, Sage.»

«Sì, è probabile che sia così», dissi, guardando per un attimo sopra la mia testa. «Ma conosco l'uomo che mi hai mostrato fino ad ora, quello che ti fa essere un Sovvertitore eccellente. Se fossi stato come la famiglia di Zenda, l'avresti lasciata nella condizione in cui l'hai trovata, non l'avresti aiutata a ricongiungersi con sua sorella, non avresti donato nuova speranza alle persone che dormono di sotto, ti saresti arreso con me alla prima provocazione», spiegai, facendo comparire un accenno di sorriso che contagiò anche le mie labbra. «Non sei mosso soltanto da ordini, è qui dentro», conclusi, ponendo il palmo sul suo petto coperto dal tessuto nero. Lui rimase in silenzio, ma poggiò il suo sul mio dorso, unendo così le nostre mani. Avvertii un formicolio strano, un altro tipo di pizzicore del tutto piacevole, anche quando la girai per poter stringergliela davvero. Speravo che si fidasse un po' delle mie parole e comprendesse che erano dettate da nient'altro che la mia verità.

«Che cosa vedi, allora?»

Ritirai la mano controvoglia, consapevole che avesse posto fine anche a quel momento intimo per un fine ben preciso.

«Vedo... eccolo, laggiù, un uomo che sta pescando. Guarda più in là, invece, c'è il profilo elegante di una donna. Hai visto lì? Un bambino è sulle spalle di suo padre», gli feci notare. Il modo di parlare era diventato quello di una bambina contenta, e pur sapendolo non riuscivo a reprimere quella gioia che mi stava riportando indietro nel tempo, a quando tutto era difficile ma allo stesso tempo sereno, perché avevo la forza di mia madre con me.

«Perché non parli mai di tuo padre?» domandò Hunter, facendomi gelare il sangue nelle vene. Non solo perché improvviso, ma per i ricordi che faceva riaffiorare e la rabbia che montava nel petto come una malattia.

«Perché non c'è nulla da dire. Non è mai stato presente e quando c'era, be', era anche peggio.»Hunter continuò a guardarmi, soppesandomi, forse per capire se fossi intenzionata ad aprirmi fino a quel punto con lui. Lo ero?

Mi inumidii le labbra. «Mio padre faceva parte della vecchia Resistenza», dissi, stringendo leggermente i denti al suono della parola ''padre''. Dagmar Wildfire era stato tutto tranne che quello. «E l'ho scoperto soltanto quando hanno bruciato il suo cadavere di fronte la porta di casa mia, nonostante fosse stata smantellata.»

Hunter spostò il peso su un fianco, sorreggendosi sul gomito. «Mi dispiace tanto, Sage», disse, sinceramente intenerito.

«Non farlo», risposi, sorridendo amaramente. «Non dispiacerti. Non avevo niente a che vedere con l'essere un buon padre. Quando passava del tempo con noi, era sempre distratto, di cattivo umore, e quelli erano i giorni più fortunati. Aveva gli incubi la notte e questo lo portava a tracannare ogni specie di liquore, a sfogare il suo malessere su sua moglie», mentre parlavo, dietro i miei occhi passavano le numerose immagini di vetri rotti, di frasi urlate in maniera sconnessa. I pianti di mia madre quando veniva maltrattata verbalmente, i miei per il desiderio di avere una vita normale.

Normale. Non lo era mai stata, non lo era neanche nel presente. Ero passata dall'essere sola ad esser circondata da una nuova famiglia, ad essere in fuga dalla guerra a fronteggiarla a muso duro, a non credere nella magia della Grande Madre ma soltanto alla sua esistenza, benevolenza e protezione, all'essere addirittura parte di essa.

«Avresti dovuto unirti prima a noi. Avrei dovuto trovarti prima», si lasciò scappare l'altro in un sussurro.

Feci una smorfia triste, pensando alle possibilità che avrebbe portato quello scenario. «Forse sarei riuscita a salvare lei ancor prima della malattia.»

Fu il turno di Hunter di carezzare il dorso della mia mano con fare gentile e comprensivo. A quel punto avvertii una pressione agli occhi, chiaro segnale del fatto che avrei potuto emozionarmi di lì a poco se non avessi smorzato la tensione. «Sono curiosa di sapere cos'è che vedi tu nelle stelle.»

Anziché ottenere l'effetto desiderato, Hunter sembrò adombrarsi. Indugiò con lo sguardo sulle nostre mani ancora una volta congiunte e assunse un'espressione di ghiaccio. «Io non vedo niente se non quello che non posso avere.»

Senza aggiungere nient'altro, s'issò e fece per dileguarsi. Lo imitai, ma non lo seguii.

«Hunter», chiamai soltanto, la voce quasi supplichevole.

Lui si bloccò di colpo, e dopo qualche istante si voltò. Sembrava respirare affannosamente, come se avesse corso per l'intero Secondo Humus pur restando fermo.

Avanzò a grandi passi verso di me e quando mi fu vicino un soffio, mi afferrò il viso con entrambe le mani e posò la sua bocca carnosa sulla mia. Mi sfiorò con decisione, accertandosi che non fossi contrariata e che non lo respingessi con uno spintone. Ero sorpresa, ma non volevo nient'altro che quel contatto. Così, come mossi da un fuoco che ci vibrava nel petto, cominciammo a baciarci sul serio. Le nostre bocche s'assaggiarono, voraci e fameliche, mentre le mani ci tenevano sempre più stretti e vicini.

Quando si distaccò ero senza fiato, ma ne volevo ancora. Mi rivolse un'occhiata confusa, come se mi vedesse per davvero soltanto in quel momento. Chiuse le palpebre e poggiò la fronte sulla mia, il viso in una maschera di inquietudine.

«Sono uno sciocco. Non avrei dovuto cedere ai miei desideri, incasinando tutto quanto», disse sotto voce.

Scossi il capo, non riuscendo a capire il vero significato di quelle parole. Forse si riferiva a Zenda e alla loro relazione passata, forse non doveva esserci del tenero tra il capo e un soldato. Tuttavia, m'importava ben poco. In quel momento stavo realizzando quanto avessi atteso un gesto del genere, quanto il mio cuore avesse ripreso a pompare sangue con velocità dopo aver ottenuto ciò che neanche sapevo di star aspettando.

«Non c'è nulla di sbagliato in questo, per me... Perché dovrebbe esserlo per te?»

«Perché devi restare concentrata, non voglio darti un motivo per...»

«Non continuare, ti prego», lo interruppi, perché la piega che stava prendendo il suo discorso mi ricordava le parole di Hussain, il quale aveva tuttavia ragione. «Non sono una ragazzina, nonostante tu insista nel chiamarmi così, e non mi lascerò accecare dall'affetto, né per te né per nessun altro», utilizzai un tono fermo, ma tentai di non apparire rigida sebbene lo fossi già per il pensiero che susseguì. Laryngard stava commettendo lo stesso errore che Hunter aveva rischiato di commettere con me, nel tentativo di anteporre i suoi desideri per il mio benessere. Non mi sorprendeva che fossero padre e figlio.

Il Sovvertitore aprì la bocca per replicare, ma la richiuse subito, accigliandosi vistosamente nonostante le ombre scure della notte sul suo viso. Lo sguardò guizzò altrove, nel nulla oltre la mia spalla, e a quel punto anch'io tesi le orecchie per captare ciò che l'aveva messo in allarme.Due sibili spezzarono il silenzio del mattino che non ancora visto la propria alba, e l'istante dopo Hunter mi trascinò giù con lui per proteggermi. Ma non arrivò nulla, non nella nostra direzione. Si udì poi un tonfo a qualche metro di distanza.

Ci spostammo cauti verso il parapetto alla mia sinistra, guardammo sulla strada soltanto per scoprire uno squadrone di Custodi che, silenziosi, avanzavano verso la struttura della Seconda Divisione.

Da uno di loro partì una freccia che fischiò e atterrò oltre la casupola contenente le scale dalle quali ero arrivata. Un altro tonfo, questa volta più vicino. Poi ricordai le parole di Salina.

Con gli occhi strabuzzati, esclamai: «Oddio, Travis!»

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