2. Fuoco incrociato
La prima cosa che avvertii fu sicuramente il rumore di passi pesanti e spediti che riecheggiavano intorno a me, come se mi trovassi in uno spazio ristretto. Aprii gli occhi e, con estremo sforzo, provai a mettere a fuoco; la visuale era distorta ma era facile accorgersi di essere circondata da mura e non più da alberi. Cercai di alzarmi facendo leva sulle braccia, ma quando mossi la testa sentii un dolore acuto alla nuca che mi costrinse a stare giù per qualche minuto.
Tentai di riordinare i pensieri e mi resi conto che l'ultima cosa che ricordavo, oltre alla massiccia botta alla nuca, era la mia stupidità. Ero stata davvero una sciocca a sottovalutare il problema e a credere di avere la situazione sotto controllo. La colpa era soltanto mia, mi ero concentrata su quello che avevo visto nella foresta mettendo in secondo piano la mia sicurezza e quelli erano i risultati che ero riuscita ad ottenere: essere catturata dai Custodi di Victor. Tutto l'impegno di mesi e mesi era sfumato per un singolo attimo di distrazione che non avrei dovuto concedermi. Poggiai le mani sulla pietra umida sotto di me e riuscii a mettermi seduta, schiacciando la schiena contro la parete, il capo ancora dolorante, e continuando ad incolparmi per essere stata così sconsiderata.
La cella in cui ero rinchiusa era molto buia e fredda, ma la cosa realmente insopportabile era la puzza: l'odore intriso era terribile, era un odore di morte. Non c'era nessuna finestra, né un minuscolo buco nel muro che potesse far filtrare aria pulita o che potesse farmi capire da quanto tempo fossi rinchiusa lì sotto. Il tanfo si concentrava tutto in quella che doveva essere una prigione, e faceva rivoltare lo stomaco.
Chiusi gli occhi e scossi la testa debolmente. Che idiota che ero stata, pensai tra me e me. Lasciarmi catturare nel più facile dei modi era davvero una delusione, specialmente per la promessa fatta a mia madre, tant'è che se avessi potuto mi sarei presa a calci nel sedere da sola. Ma il vero problema era uscire da lì, qualsiasi posto fosse, e non vedevo molte opzioni favorevoli. A dire la verità, non ne vedevo assolutamente nessuna.
«Primo gruppo!» strillò qualcuno, dopodiché si udì un rumore acuto, uno stridio del ferro.
Mi issai, - forse troppo velocemente, tanto da far ritornare le fitte alle tempie, seguite da capogiri - e mi appoggiai alle sbarre, spingendo il viso contro il ferro sporco per avere migliore visibilità, favorita da qualche fiaccola poggiata contro le mura, che illuminava parzialmente l'ambiente. Una decina di persone marciavano l'una dietro l'altra in fila indiana, seguendo un Custode che teneva l'estremità di una lunga e spessa catena, alla quale erano agganciate grosse manette in ferro arrugginito che si stringevano intorno ai polsi dei prigionieri, legati tra loro. Li guardai passare davanti la mia cella e attraversare un cancello controllato da due guardie, aventi tra le mani delle picche, il volto inespressivo.
Come speravo di uscire da lì? Sarebbe stato un suicidio addirittura pensarci, figurarsi a tentare la fuga.
C'era la parte curiosa di me che aveva voglia di scoprire a cosa servissero tutte quelle persone, ma avevo anche il timore di doverlo scoprire sulla mia pelle. Non volevo ritrovarmi a stretto contatto con le cose che Victor faceva, secondo le voci di popolo, e preferivo starmene chiusa in quelle quattro mura piuttosto che imbattermi in chissà quale rischio. Ma non potevo di certo passare tutta la mia vita in una gabbia come un animale, dovevo pur fare qualcosa.
In preda ad un impeto di rabbia cieca, colpii le sbarre con il palmo della mano, imprecando silenziosamente.
«Agitarti non ti aiuterà ad uscire da qui», gracchiò una voce roca in lontananza. Tornai a premere il viso contro il ferro, accorgendomi della sensazione viscida e lercia che il contatto mi provocava, e presi a girovagare con lo sguardo per l'intero sotterraneo per comprendere chi avesse parlato. «Perché ci tengono qui?» domandai comunque, nonostante non fossi ancora riuscita a scovare il proprietario di quella voce.
«Io non mi preoccuperei tanto. Fin quando sei chiusa qui sotto, sei al sicuro», girai la testa leggermente, accorgendomi dell'uomo seduto sull'uscio della sua cella, dall'altra parte della galleria. Il suo braccio penzolava dalle inferriate, sulle quali picchiettava le dita, intonando un motivetto dal suono metallico. «La vera domanda è: che cosa accadrà una volta che verranno a prendere anche noi?»
Se la rideva amaramente, come se fosse cosciente del fatto che quello che ci stava aspettando non fosse nulla di buono. La consapevolezza cruda di quell'uomo nascosto nella penombra mi mise un senso d'agitazione addosso, accentuato dallo stesso motivo lento che cominciò a fischiettare, ripetendolo all'infinito.
Ritornai a sedermi contro il muro umido, avvilita. Il pensiero di dover restare chiusa in quella cella alla mercé di qualcun altro mi soffocava in parte, mentre dall'altra mi faceva arrabbiare in un modo indescrivibile. Non ero fatta per la sottomissione, ero sempre stata una ribelle che faceva soltanto di testa sua; c'era stato un periodo in cui, dopo la morte di mio padre, avevo deciso di prendere il suo posto nel gruppo che clandestinamente si muoveva per una nuova ondata contro Victor, ma le donne erano categoricamente escluse da quel tipo di cose, come da molte altre attività. Era incommensurabilmente stupido pensare che una donna non fosse in grado di vendicare i propri cari o combattere per i propri diritti. Assolutamente ridicolo. Io combattevo ogni giorno, da sola. E non avevo bisogno di nessuno che lottasse per me. Eccezion fatta per quel preciso momento, magari...
Non riuscivo a rendermi conto di quanto tempo fosse passato. Potevano essere pochi minuti oppure molte ore, non avrei saputo dirlo con certezza. Avrei voluto urlare per la frustrazione: la mia vera sofferenza era star ferma senza poter fare nulla, immobile in attesa di chissà quale punizione inflitta a chi come me si era trovato nel posto sbagliato al momento sbagliato. Se solo non fossi entrata in quella maledetta taverna, niente di tutto ciò sarebbe mai successo.
Dopo un tempo che mi parve interminabile, si era fatto nuovamente vivo uno strano movimento lì sotto che mi aveva spinta a rialzarmi e ad osservare l'ambiente: diversi Custodi si divisero ed aprirono le celle, legando i polsi di altri prigionieri alla grossa catena, uguale a quella usata per l'altro gruppo o probabilmente la stessa. Ma dov'era l'altro gruppo? Li avevano liberati? Non riuscivo a capirci assolutamente nulla e la cosa mi faceva infuriare a dismisura.
Uno dei Custodi spuntò d'un tratto davanti alla mia cella, facendomi sobbalzare all'indietro per la sorpresa decisamente sgradita. Lo guardai armeggiare con le chiavi mentre trovava quella giusta e la infilava nella toppa, girandola e facendo scattare la serratura.
La prima volta non ero stata capace di difendermi, ma non avrei ripetuto lo stesso errore. Ci avrei almeno provato.
Così, quando il Custode si avviò verso di me per legarmi, lo respinsi, riuscendo a scrollarmi le sue mani di dosso e assestandogli una ginocchiata nello stomaco. Lui si piegò in due, colto alla sprovvista, e mi permise di sfilare la sua grossa spada dalla guaina agganciata alla sua vita. Era molto più pesante di quanto pensassi, tanto da doverla reggere con due mani e con una presa più che salda intorno all'impugnatura. Balzai verso l'uscita, trascinando le sbarre dietro di me e chiudendo la cella, imprigionando il mio carceriere.
Mi voltai di scatto e al contempo sollevai la spada, puntandola verso qualsiasi Custode che si faceva avanti, attirato dal trambusto che avevo creato, ognuno con l'intenzione di non lasciarmi uscire da quel sotterraneo. Mi accerchiarono e io percepii crescere la paura che tentava, famelica, di sopraffarmi. Ma nonostante lo svantaggio e il leggero tremore alle mani, continuai a proteggermi con l'arma parata davanti.
Dietro i cinque Custodi intravidi del tumulto, provocato dalla fila di persone legate tra loro, mentre altre guardie tentavano invano di sedare quel baccano.
«Cosa credi di fare, ragazzina? Guardati, non sai nemmeno reggere quella spada», avanzò di qualche passo uno di loro, mettendo me ancora di più sulla difensiva. «Mettila giù.»
Poteva avere quasi la mia età, e - conoscendo abbastanza bene il loro Ordine - mi accorsi che apparteneva ad un grado più basso grazie ai colori della sua uniforme.
Infatti, lo sbeffeggiai guardandogli i vestiti con un lieve sorrisetto sul viso. «E con quale autorità me lo stai ordinando?» sapevo di rischiare grosso con un tale affronto, ma sapevo perfettamente che quel soldato non avrebbe fatto un passo senza che gli fosse stato ordinato.
Lo osservai adirarsi e venirmi contro con fare più che minaccioso, ma si bloccò quando la voce ruvida di qualcuno echeggiò in tutta la prigione. «Che cosa diavolo sta succedendo qui?»
I Custodi si fecero da parte e aprirono il passaggio ad un grosso uomo brizzolato, con un paio di baffi - stretti e senza punte - che gli coprivano l'intero labbro superiore. Dai colori della sua divisa intuii che lui, a differenza dell'altro, era seriamente un pezzo grosso.
«Tenente Chase, mi pare di aver dato l'ordine di portare i popolani nella parte Est del castello. Non dovrebbe essere un compito così arduo», il nuovo arrivato rimproverò il Custode che avevo denigrato, sospirando per il disturbo d'essersi presentato lì sotto contro la propria volontà.
«Signore... Generale, è sorto un intoppo», si giustificò, rivolgendo lo sguardo nella mia direzione. Il generale parve accorgersi solo in quel momento di me, guardandomi come se non fossi un reale problema vedere una ragazza armata. Il suo sguardo tornò sul Custode e dalla sua bocca fuoriuscì un nuovo sbuffo, l'espressione seccata.
«Sono circondato da incapaci...», mormorò tra i denti, dopodiché fece qualche passo verso la mia persona e, proprio come con il suo soldato, fu fermato dalla relativa minaccia della spada sollevata contro di lui.
Alzò le mani in segno di resa, prima di parlarmi in tono tranquillo. «Va bene, va bene. Salve, tu parli la mia lingua?»
Da dove credeva che provenissi, dall'altra parte del mondo? Certo che lo capivo, era la loro feccia borghese che non comprendeva il dialetto dei popolani. Ma preferii non dare sfogo a quei pensieri, agguantando il vantaggio e tenendolo stretto tra le mani.
«Cordula shiva!» sputai l'insulto con odio, ripensando al povero ragazzo ucciso dalla luce bianca. In tutta onestà, dovevo ammettere di non conoscere molto bene il dialetto, ma ero più che sicura di avergli dato del pendaglio da forca, una persona malvagia.
«Non so esattamente cosa significhi, ma dall'espressione non deve essere nulla di gentile», abbozzò un sorriso verso i suoi uomini, che emisero degli sbuffi di scherno. «Ad ogni modo, sii ragionevole: non sei abbastanza esperta da poter abbattere questi uomini esperti, e non lo dico perché sei una donna ma perché vedo come sorreggi quella tra le mani», precisò, indicando la spada con l'indice. Non aveva tutti i torti, quel pezzo di ferro era davvero pesante e le braccia iniziavano a dolermi. «Non fraintendermi, puoi anche provarci. Ma che senso avrebbe combattere sapendo che hai serie probabilità di perdere? E' strategia.»
Non avrei saputo spiegarmi come, ma tutto quello che aveva detto aveva senso e mi spinse a riflettere, finendo per invogliarmi a mettere giù la lama, con disappunto e la fronte corrugata. E così feci, la lasciai cadere sul terreno e mi feci ammanettare dal tenente Chase. «Tu sarai la prima», mi avvertì sottovoce mentre uscivamo dai sotterranei, soddisfatto di aver avuto la sua misera vittoria. E in cosa diavolo sarei stata la prima?
Le scalinate, le mura, i corridoi sembravano tutti uguali tra loro; avevo provato a tracciare una specie di percorso mentale, contando le possibili uscite da poter prendere nel caso fossi riuscita a liberarmi e a fuggire, ma ero affiancata da due Custodi come se fossi una criminale da punire, mentre gli altri prigionieri camminavano lenti dietro di me. Chi prendevo in giro, sarebbe stato un'impresa impossibile scappare da quella fortezza.
Il tenente Chase mi strattonò, facendomi fermare di fronte ad un'immensa porta in ferro, laccata d'oro, avente, proprio nel centro, un grosso cerchio vuoto con una "V" al suo interno. Il generale ci superò e aprì le porte, dividendo il marchio in una perfetta metà e mostrandoci una sala che avrebbe potuto contenere centinaia di persone, se non di più. Era principalmente vuota, ornata solamente di un paio di tavoli collocati ai due lati opposti della stanza, e di un trono posto quasi al centro dell'ambiente su un rialzo di marmo. Contavo quattro colonne portanti per ogni lato i cui colori predominanti erano l'avorio, che tingeva le pareti, l'oro e il nero, con qualche spruzzata di rosso e azzurro nelle rifiniture. Le grandi finestre filtravano la luce morente del sole, pronto a nascondersi dietro le lontane colline: ero stata un giorno intero chiusa in quella cella. Oppure era passato più tempo?
Il generale avanzò e con lui anche io, sollecitata poco gentilmente dai due Custodi che avevo accanto.
«Maestro», esclamò, fermandosi nuovamente e chinandosi su un solo ginocchio, il capo chino in segno di rispetto. Proprio accanto al trono, ci dava le spalle un uomo con indosso una toga completamente nera con qualche disegno ornamentale sulle braccia, naturalmente in oro. Sembrava molto alto su quel piedistallo, e aveva i capelli castano ramati, tutti tirati a lucido.
«Generale Vohl», disse ancor prima di voltarsi, la lingua che schioccava contro il palato. Quando ci permise di guardarlo in volto, restai per un attimo interdetta: era di una bellezza spaventosa, i tratti marcati e la mascella squadrata, e i suoi occhi erano di un azzurro cristallino, di quelli in grado di comunicare senza emettere alcun fiato. La cosa che mi inquietò particolarmente fu la sensazione che mi investì quando lui rivolse lo sguardo nella mia direzione, provocandomi una sorta di pizzicore alle braccia, e suscitando in me la consapevolezza che quegli stessi occhi azzurri potessero leggermi dentro. Scossi la testa, tentando di cancellare quei pensieri sciocchi. Mi stavo soltanto facendo suggestionare dalle voci di paese, dalle voci di chi aveva paura di Victor.
«Perché avete impiegato così tanto tempo? E' il tramonto», portandosi le braccia dietro la schiena e riprendendo il generale che, dopo aver ricevuto il consenso, si issò dal pavimento lustrato.
«Non importa», continuò Victor, ammonendo il tentativo del generale di spiegare l'accaduto. «Chi è il primo? Vorrei poter concludere prima che la luna sia alta in cielo.»
Uno dei due Custodi che mi erano vicini mi diede uno spintone, facendomi avanzare di parecchio e rischiando di farmi inciampare nei miei stessi passi. Strinsi i denti per non adirarmi maggiormente e rivolsi un'occhiata al generale Vohl che intanto si era allontanato.
Victor si sedette sul suo trono e mi scrutò, concentrato sulla scena davanti a lui ma allo stesso tempo assorto dai propri pensieri, il gomito poggiato sul bracciolo e il mento sul proprio palmo. Non mi sentii più a disagio o impaurita, anzi, mi accigliai. Avrei tanto voluto poter avere l'arco e le frecce a portata di mano, me ne sarebbe bastata anche una sola per la precisione di cui mi ero sempre vantata.
Avrei dovuto odiare sin dal principio l'uomo seduto di fronte a me, tuttavia, per motivi che preferivo non ricordare, non ci ero riuscita. Quell'uomo aveva portato fin troppo dolore nella mia vita, ma aveva anche liberato me e mia madre da una vita che nessuna delle due meritava. Ma aver visto morire quel ragazzo nella foresta, la magia, il nome di Victor su di essa, la mia cattura, era troppo da dover sopportare e più restavo lì dentro, più mi convincevo che bisognava porre fine a quella tirannia. Victor agiva secondo il suo piacimento, niente era in grado di mettersi tra lui e ciò che voleva.
Dopo un gesto vago con la mano, due Custodi entrarono da una porta sul fondo della sala, proprio alle spalle di Victor. La prima cosa che notai fu il mio arco e la faretra con le frecce tra le mani di uno di loro, successivamente mi chiesi come diavolo avessero fatto a capire quando entrare pur non avendo ricevuto nessun ordine diretto. Ma gli altri pensieri si annullarono quando i miei occhi si posarono sull'oggetto infernale visto nella foresta, che oscillava al movimento del Custode snello che lo reggeva.
Con il panico che prendeva il sopravvento, iniziai a scuotere la testa, indietreggiando goffamente. Mi mossi di scatto per scappare via, aumentando la frenesia dei passi scoordinati, ma il tenente mi ostruì il passaggio con un ghigno sul volto, portandomi dinanzi all'oggetto mentre mi strattonava per i capelli senza il minimo garbo. Piantai i piedi per terra, ma il marmo del pavimento era scivoloso e mi impediva di riuscire a salvarmi la vita. Non volevo fare la fine di quel giovane, non volevo morire così.
Una volta davanti al contenitore nero come la pece, non riuscii più a trattenere il terrore che si manifestò con delle grida impossibili da trattenere. «Perché? Perché vuoi ucciderci con quest'affare? Che cosa ne ricavi da tutto questo?» avevo parlato spinta dalla paura, dimenticandomi qualsiasi forma di rispetto verbale nei confronti del mio sovrano.
Victor alzò una mano, bloccando le sue guardie che ancora tentavano di sopprimere qualsiasi tipo di ribellione da parte mia, e tornò a fissarmi, aggrottando le sopracciglia, incuriosito dalla mia reazione. «Ucciderti? Credi che io voglia ucciderti?»
«Questi occhi hanno visto di cosa è capace il tuo giocattolino!»
«Cara ragazza, devi aver frainteso», mi spiegò, voltandosi poi verso gli altri prigionieri che iniziarono a mormorare, impauriti da quanto avevo detto. «Questo oggetto si chiama Thanodor e non è stato creato per uccidere. E' stato creato per scoprire la tua importanza nel mondo», disse, puntando nuovamente i suoi occhi azzurri su di me. «Sei davvero sicura di sapere chi sei? Sai quello che sei in grado di fare? Quell'oggetto è la risposta a tutte le tue domande, mentre io sarò la soluzione. Non avere paura, coraggio», continuò, invogliandomi a tendere la mano verso il Thanodor.
Somigliava davvero ad una lanterna, ma le quattro parti erano degli spessi triangoli sui quali erano incisi strani disegni. Uno di questi era una doppia spirale che girava su se stessa, in una rotazione perfettamente elegante e precisa.
«Forza», insistette il Maestro, mentre il tenente mi diede uno spintone affinché mi inginocchiassi al cospetto di quel pericoloso oggetto.
Un Custode afferrò il manico del Thanodor, lo girò due volte e poi lo spinse verso il basso. I quattro triangoli scattarono e si aprirono, mostrando di nuovo l'energia bianca che si muoveva fluida in una specie di involucro invisibile.
«E' così che lo chiami? Il ragazzo che questo affare ha ucciso non aveva un posto nel mondo?»
«Sono piccoli effetti collaterali: evidentemente, il giovane di cui parli non era abbastanza forte per queste terre», mosse nuovamente la mano, come se stesse trattando una questione di poco conto. Che razza di persona era, quella? Ciò che diceva non aveva il minimo senso; lui non era la Grande Madre e non aveva il potere di decidere a chi concedere la possibilità di vita, chi ne fosse meritevole.
«E tu chi sei per decidere che chi non è abbastanza forte, non ha il diritto di vivere?» gridai, cercando di scollarmi le mani del Custode di dosso. Mi sembrava inutile tenere a freno la lingua, tanto sarei morta comunque; per mano di Victor o a causa del Thanodor, non aveva importanza.
«Io sono colui che governa queste terre e sono colui che ti farà strappare la lingua se continui ad infastidirmi ancora. Avanti, non ho tutto il giorno, dannazione!» osservarlo reagire in quel modo mi intimorì per qualche istante, e il modo in cui sbatté la mano sul bracciolo del suo trono mi fece sobbalzare. La sua calma iniziale era sparita del tutto, mostrando un lato di sé che riconoscevo nei racconti ascoltati sul suo conto.
«La mano», ringhiò il tenente Chase dietro di me, dopo avermi liberato i polsi. Fui costretta ad obbedire senza fiatare, senza neanche la possibilità di ribellarmi o provare a convincerli di fermarsi. Sapevo che sarebbe stata la fine per me, che le parole di Lord Victor erano idiozie.
Alzai la mano, tremando come una foglia, e la spinsi piano verso l'oggetto che mi avrebbe uccisa. Serrai gli occhi con forza e calai il capo, tremante di paura. Non era la morte a spaventarmi, quella era indolore, mi avrebbe dato la pace così come l'aveva data alla mia famiglia, era la sofferenza che ero convinta di star per provare che mi gelava il sangue.
I secondi scorrevano ma non riuscivo a sentire nulla, assolutamente niente. Così, aprii un occhio solo e una luce giallastra mi accecò, sorprendendomi. Il mio corpo era avvolto dagli stessi fasci di luce che avevo visto la prima volta, ma erano di un verde acceso e non accennavano ad invadere la mia mente con violenza, non accennavano ad uccidermi. Tutt'altro, fu una sensazione piacevole che non riuscii a spiegarmi, a cui non riuscii a dare un senso; ero attonita. Che avessi immaginato tutto, nella foresta? Era assurdo, non potevo aver sognato una scena del genere.
«Che cosa...», balbettai, voltandomi verso Victor. Si era alzato in uno scatto e si stava avvicinando, l'espressione in una maschera di stupore e meraviglia, e gli occhi tinti di un rosso sangue, un rosso scarlatto.
«Non ci posso credere», esclamò, tendendo la sua mano verso di me, come a volermi toccare.
E poi, le finestre esplosero in una pioggia di vetro infinita; la sala scoppiò in un boato di voci e urla, portandomi con lo sguardo oltre la mia spalla per osservare delle figure vestite di nero saltare all'interno della grande stanza. Sgranai gli occhi nel vederli combattere abilmente contro i Custodi, mentre un secondo gruppo si sbrigava a liberare i prigionieri.
«Proteggete Lord Victor!» strillò qualcuno, ma dal canto suo, Victor era preoccupato per altro.
«Portatela via!» tuonò, infatti, gesticolando verso di me mentre veniva circondato dalle sue guardie. I Custodi non ebbero il tempo di fare nulla, perché distratti da uno strano oggetto ovale volante che si materializzò sulle nostre teste, per poi scattare all'indietro. Seguii il percorso intrapreso e incontrai lo sguardo di una ragazza che mi fissò di rimando, sorpresa, e cominciò a correre proprio nella mia direzione.
Avevo ancora la mano contro il Thanodor, per cui la ritrassi subito, sollevata di essere ancora integra e, approfittando di quei momenti di confusione, sferrai una violentissima gomitata verso le parti intime del tenente facendolo piegare in due dal dolore. Afferrai le catene con le quali ero stata legata e le usai per colpirlo in pieno viso. Crollò a terra, dandomi così la possibilità di scappare, ma prima di farlo mi fiondai sul tavolo alla mia destra, punto in cui uno dei Custodi chiamati da Victor aveva riposto il mio arco e le mie frecce.
Mi voltai verso la sala in preda al caos e la osservai per pochi secondi: era il delirio. I guerrieri in nero combattevano fieri contro le guardie, erano abili ma in netta minoranza, mentre il castello brulicava di Custodi pronti ad intervenire, allarmati dal chiasso che le spade provocavano cozzando tra loro, dalle grida di battaglia e dai piagnucolii dei prigionieri, grati di esser stati salvati. Alcuni avevano già fatto irruzione nella stanza, precipitandosi frettolosamente, e avevano difeso la propria dimora. Dovevo dare un vantaggio agli stranieri, nonché miei salvatori, e senza esitare scoccai una freccia verso il gancio dell'immenso lampadario, che si spezzò e provocò il crollo di migliaia di cristalli. Con essi crollarono le candele, che avvolsero parte dell'ambiente in grandi fiamme di fuoco, proprio dove c'erano diversi Custodi pronti ad attaccare. E fu grazie a quella luce emanata dal fuoco che potei trovare la porta in fondo alla sala, nascosta dalla penombra. Una volta attraversata, mi trovai davanti ad una ripida rampa di scale.
«Ferma!» ordinò una voce femminile alle mie spalle. Io mi voltai e contemporaneamente la minacciai puntandole addosso la freccia tesa sull'arco. La stessa ragazza che mi aveva guardata pochi istanti prima, ugualmente, mi aveva sotto tiro con una balestra. Quest'ultima, al posto dei dardi, aveva dei cerchi piatti di colore blu scuro.
«Torna a prendertela con i tuoi veri nemici e non costringermi a farti male. E' stata una giornataccia e non sono disposta ad essere prigioniera di qualcun altro!» le dissi tentando di spaventarla, ma sul suo viso lessi totale indifferenza. Non mi temeva ed era chiaro.
«Cosa vuoi saperne tu dei miei nemici», emise uno sbuffo di scherno e poi tornò seria, assumendo un'espressione accigliata. «Adesso, deponi le armi e vieni con me. Non voglio perdere altro tempo.»
«Non ci penso minimamente», dissi decisa e mi preparai a colpirla con la mia freccia, magari ferendola così da permettermi di scappare. Non avevo mai ucciso nessuno e non avevo intenzione di cominciare proprio con chi mi aveva salvato la vita.
Però, un rumore sopra la mia testa mi distrasse e la ragazza con uno scatto fece partire il piattino, che si attaccò alla mia pelle. L'epidermide iniziò a bruciarmi e cominciai a tremare, scossa come da strani impulsi che mi divampavano per tutto il corpo.
Strinsi i denti, costringendomi a non urlare e caddi sulle ginocchia. La fissai dal basso e lasciai che la freccia partisse in direzione della sua testa, ma in quello stesso istante venni colpita alla nuca, ancora.
Crollai in avanti, attutendo la caduta con le mani, e a fatica mi voltai sulla schiena per osservare - vista offuscata permettendo - il volto del ragazzo alle mie spalle, che mi fissava e torreggiava su di me, mentre continuavo ad essere scossa da tremori, da strane convulsioni.
La vista venne a mancarmi totalmente e l'ultima cosa a cui pensai prima di svenire fu ''maledizione, un'altra volta!''.
Bạn đang đọc truyện trên: Truyen247.Pro