18. L'attacco a sorpresa [ parte prima ]
HUNTER
L'afa sembrava essere l'unica nostra nemica per quella giornata, minacciosa di scioglierci nonostante il fogliame sulle nostre teste, di un verde sgargiante, volto a proteggerci. Gli spessi e lunghi tronchi, come i cespugli corposi e fitti, erano per noi di vitale importanza: ci garantivano un punto di osservazione sicuro, ma spettava ai Sovvertitori essere abbastanza bravi da non fare il minimo rumore.
Non che ci fosse qualcosa da cui nascondersi, pensai, considerato che il sole stava per calare già ad Ovest e delle nostre prede non vi era neanche l'ombra.
Era tutto pronto da un pezzo: la trappola, una gabbia alta il doppio e larga il triplo di me, contenente manzo crudo, era stata rivestita e ben nascosta da piante e rampicanti, in modo da confondersi nell'ambiente circostante e confondere l'ospite che attendeva. Costeggiava una scarpata leggermente ripida, sul cui fondo giaceva un piccolo fiumicello, oltre il quale - poco più a Nord - vi era il villaggio Turnhit che contava trecentosessantadue anime. Quello era sicuramente il punto meno strategico per accamparsi ed attendere il momento giusto per un agguato, ma la mia fiducia era riposta in modo completo nelle parole di Asery, e per questo il posto adatto era proprio lì.
«E' stato un viaggio a vuoto», brontolò uno dei miei soldati, colui che stava solcando il terreno con due dita in un gesto annoiato. Avrei dovuto impartirgli una severa punizione: non eravamo lì in campeggio, la sua distrazione poteva rivelarsi fatale per noi.
Jeffrey, accovacciato al suo fianco a qualche passo di distanza da me, gli mollò una gomitata generosamente forte, esortandolo a darci un taglio. «Non dire sciocchezze, amico.»L'altro lo guardò con un'espressione interrogativa, e il suo salvatore - convinto di passare inosservato - gli fece un cenno eloquente col capo nella speranza che capisse di dover chiudere la bocca.
Hussain, posto accanto a me, dapprima si lasciò sfuggire un sorriso divertito, poi tornò serio e scosse la testa. «Potrebbe aver ragione, non credi? Siamo qui da ore ormai, Hunter, e di quegli esseri non ne abbiamo avvistato neanche mezzo... non che la cosa mi dispiaccia. Ma come facciamo a sapere se questo sia il posto giusto?»
Ci riflettei su per qualche istante. La stanchezza e la fame si facevano sentire, certo, ma non avevamo lavorato sodo e non avevamo fatto tutta quella strada per tornare a mani vuote. In più, il mio istinto si rifiutava di credere che quelle creature si fossero concesse un giorno di riposo. «Lo so, Hussain, ma atteniamoci al piano. Mi fido del lavoro di Asery, ha monitorato gli ultimi spostamenti ed ha ipotizzato che la loro prossima tappa fosse questa; arriveranno, lo sento.»Lo sentii sbuffare, mostrando quella naturale vena di diffidenza. «Dunque siamo qui per supposizioni?»
L'angolo della bocca mi si incurvò in una risata. «Abbi un po' di fede.»
Tuttavia, a distanza di qualche ora - l'ennesima passata lì -, quando ormai il sole era in procinto di tramontare, la convinzione e la fermezza cominciarono a vacillare. Che fossimo in errore? Seppur il lavoro fatto fosse basato su una supposizione, fino a quel momento non ci eravamo sbagliati, i comportamenti di quegli esseri avevano soddisfatto le aspettative e fortificato le nostre teorie su cui poi avevamo poggiato tutto il piano tattico, su cui Sage aveva poggiato tutto il piano tattico. Il pensiero di tornare a casa a mani vuote, di sostenere il suo sguardo deluso e affranto, mi lasciò addosso uno stravagante fastidio, qualcosa di difficile comprensione anche per me stesso. Non volevo che pensasse di non poter rivestire il ruolo, un peso che io le avevo messo sulle spalle; si sarebbe convinta di non aver stoffa, di non essere riuscita ad accontentare le mie richieste di vittoria. Mi venne quasi da sorridere, perché non sarebbe mai stato possibile per lei deludermi. Aveva un potenziale così elevato, un'anima così diversa, limpida e forte, che sarebbe stato impossibile per lei fallire.
«C'è movimento», sussurrò Percival al mio fianco, rimettendo tutti i miei sensi in totale allerta. Mi sistemai la balestra tra le mani, poi sollevai il braccio destro, mettendo sull'attenti i Sovvertitori sparsi per il perimetro da noi delineato con segnali tattici. Portai lo sguardo in alto, assicurandomi che gli altri, posti sugli alberi come avvoltoi pronti a fiondarsi sulla preda, potessero avvistare l'obiettivo avvicinarsi. Timothy, un magro Sovvertitore dalle strabilianti abilità belliche, ricoperto da fogliame sui vestiti verdastri, una garanzia per una buona mimetizzazione, mi fece un cenno per avvisarmi dell'arrivo di uno di quegli esseri.
Velocemente, e restando acquattato tra gli alti cespugli, mi spostai verso destra, mettendomi proprio di fronte alla grossa, pesantissima gabbia che avevamo costruito per l'occasione. Il gruppo mi imitò, non lasciando il mio fianco, le dita posizionate sulle chiavi delle armi.
«Conoscete il piano», parlai agli uomini che mi circondavano, pronti all'azione e ad eseguire i miei ordini. «Appena quella cosa si posa sul terreno, i compagni sugli alberi scaricheranno la grossa rete di catene, imprigionandola. Non girano mai da sole, per cui ne arriverà un altro e sarà quello il nostro obiettivo», raccomandai. «Siate precisi, abbiamo solo un colpo con questi gioiellini», sussurrai, stringendo le dita sulla balestra in un'impugnatura perfetta. Tutti annuirono, tornando con lo sguardo sulla prigione di ferro.
Il consueto ed agghiacciante grido della bestia nera si udì in lontananza, segno inequivocabile del suo terribile arrivo. Inspirai profondamente, raccogliendo tutta la concentrazione ed il coraggio per affrontare nuovamente quell'essere. Ricordavo perfettamente la sua struttura, così strana quanto familiare. Il suo corpo era uno scheletro di un animale, la pelle sottile e grinzosa che ricopriva le ossa sporgenti, dal capo - così simile ad un teschio umano ma con muso lievemente allungato e protuberanze ricurve ai lati, come delle corna - alle spalle larghe, la schiena arcuata dalla quale fuoriuscivano le grosse ali aguzze, piccoli artigli ad ogni estremità, ossute, cariche di nervi intravisti sotto la pelle finissima, che ricordavano quelle dei Chiroptera, i pipistrelli che prima delle guerre avevano dimensioni ridotte, ma che nel tempo erano cresciuti fino a raggiungere i due metri. Quelle bestie del colore della morte, invece, sovrastavano il corpo umano di diversi metri, e sembravano essere indistruttibili: le armi da fuoco, capaci di perforare la maggior parte della carne di qualsiasi essere vivente, non avevano fatto chissà quanti danni l'ultima volta. Capaci di ferirli, sì, ma non tanto da annientarli.
Questa volta non sarà lo stesso, rassicurai me stesso sistemando il mitra a tracolla, questa volta ti indebolirò e poi ti darò il colpo di grazia.
Quasi come una risposta alla minaccia ricevuta, l'ulteriore grido di quella bestia non si fece attendere, presentandosi molto più vicino. Stava arrivando.
Una scia velocissima mi oscurò la visuale per una frazione di secondo, e le sbarre della gabbia cominciarono a tremare. E così, l'istante dopo, la temibile creatura si era appoggiata, come se non fosse assolutamente la cosa pericolosa che sventrava animali e uomini. Le zampe posteriori si erano agganciate alla parte superiore della prigione in ferro, le ali piegate, una posizione apparentemente tranquilla seppur con un ghigno famelico; si guardava attorno, scrutando l'ambiente circostante con attenzione ed emettendo dei versi gutturali. Ciò che mi sembrava particolarmente strano era la totale indifferenza alla presenza della carne posta sotto di lei, sparsa qua e là anche fuori dalla cella. Si era solo fatta avvicinare, ma non sembrava esserne interessata più di tanto.
«Perché diavolo quell'affare non divora la carne?» bisbigliò Jeffrey nella mia direzione, ma io gli intimai di far silenzio portandomi l'indice alle labbra.
L'essere portò il capo all'indietro e altri versi, molto più acuti ma brevi, scossero la quiete della foresta.
«Che cosa sta facendo?» mi domandò a fil di voce Hussain, una smorfia in volto al suono ripetuto che stava ascoltando.
«Dannazione, è un richiamo», esclamai, ma prima che potessi dare l'ordine di attaccare, Hussain mi trattenne per la spalla e al contempo il terreno sotto i miei piedi tremò. Una nuova creatura, come da piano, era atterrata esattamente al centro del perimetro, e alla sua vista l'altra bestia si accese e si sollevò, in piedi sulle sbarre, ruggendo ferocemente.
Uscii allo scoperto, puntando la balestra contro l'essere urlante, e con me tutti gli altri Sovvertitori, accerchiandolo. Il mio bersaglio aprì le ali, spinse con le zampe la gabbia e la rovesciò nel fiume; la caduta produsse un rumore sordo mentre il pezzo di ferro si abbatteva nell'acqua, la porta spalancata.
Diedi il segnale ai ragazzi sugli alberi che liberarono prontamente la rete di catene, la quale crollò sulla seconda creatura come pioggia nera e la atterrò bruscamente, provocandole un lamento. Gli enormi chiodi che chiudevano l'estremità di ogni lato si conficcarono in profondità nel terreno, riducendo le possibilità di scappare. A quel punto, i Sovvertitori incaricati si sparpagliarono tutt'intorno.
«Non sbagliare, Hunter», sussurrai a me stesso. Pensai ed agii in fretta, prima che l'altra bestia libera potesse sfuggirci, mirando e scoccando; la freccia in ferro, spessa tanto da riempire interamente il mio pugno, volò oltre il chiassoso trambusto tra me e il mio obiettivo e trafisse la spalla dell'animale, che emanò un grido di dolore assordante.
«Agganciatelo», ordinai a gran voce, e il fischio cinque frecce volanti sovrastò per qualche istante i lamenti delle creature in nostro potere. Gli furono bucati gli arti, oramai distesi in una X vivente. «Piantate i piedi per terra, non lasciate la presa!»
Bilanciai il peso e restai immobile per non lasciarmi trascinare dalla bestia urlante che provava a dimenarsi e liberarsi. Era più forte di quanto avessi immaginato, ma non avrei lasciato che ci sfuggisse, non ora che l'avevo in pugno.
Nel frattempo, i ragazzi si posizionarono in cerchio, qualcuno urlò ''fuoco'' e delle scie infuocate caddero nei punti vuoti della rete, tutt'intorno alla preda che - come avevamo supposto - sembrava essere parecchio infastidita dalle fiamme. I mitra puntati alla sua testa non lo sconvolgevano in alcun modo, invece, e non c'era di che stupirsi: nessuno era a conoscenza della tecnologia passata che avevamo trovato e sfruttato a nostro vantaggio. La nascondevamo con attenzione, perché nelle mani sbagliate si sarebbe rivelata letale, sia per il nostro intero Ordine che per tutto il Terzo Humus. Non avevamo intenzione di commettere gli stessi errori dei nostri predecessori.
«Ci siamo, ci siamo! Non lasciatelo andare!» raccomandai, pronto a trascinarlo a passi lenti verso la gabbia finita oltre la breve pendenza.
Jeffrey, che teneva saldamente la balestra tra le mani, cominciò ad alzare la voce e ad avvisare gli altri: «Il perno, attenzione al perno!» disse, e quando il Sovvertitore più vicino fece per sistemarlo col piede, la bestia distesa al suolo inarcò la schiena e spiegò le ali, sollevando e sganciando altri tre perni dal terreno che colpirono il guerriero, facendolo cadere qualche metro più indietro. L'uomo che aveva dato l'allarme era rimasto ad osservare la scena, perdendo la concentrazione necessaria, e in un attimo fu sbalzato oltre il corpo nero dell'essere sotto nostro tiro che, dimenandosi con una forza maggiore al momento giusto, era riuscito a liberare l'arto sinistro. Osservai il corpo del mio compagno, Jeffrey, sbattere contro un grosso ramo e crollare, senza poter fare nulla.
Sentii tutti i sensi gelarsi per un istante, e prima che potessi dar l'ordine di fare fuoco, gli artigli che la bestia di fronte a me aveva al posto delle mani si chiusero intorno alla catena tesa che spuntava dalla sua spalla, la catena che partiva proprio dalla balestra nelle mie mani. Non riuscii a lasciare la presa in tempo che la mia visuale era già cambiata, capovolgendosi e portando il cielo sotto ai miei piedi. Atterrando, sbattei la testa da qualche parte e avvertii un forte fischio nelle orecchie; disorientato e dolorante, provai a guardarmi intorno, vedendo soltanto verde.«Sparate! Uccideteli!» stava dicendo qualcuno poco prima che il frastuono provocato dai colpi ripetuti dei mitra coprisse qualsiasi altro suono.
Poggiai i palmi sul terreno per sorreggermi e mi issai, barcollando vistosamente; la fatica era immane, ma la forza di volontà non era eguagliata da nulla. Mi sentivo stordito, affaticato e col fiato corto, la fronte bagnata. Una volta acquisita una precaria stabilità, impugnai il mitra e tolsi la sicura, inspirando ferocemente, a narici spalancate.
Ciò che mi ritrovai davanti fu devastante: diversi cadaveri erano riversi al suolo in posizioni sconnesse, un quadro di ossa e sangue sullo sfondo tranquillo della natura circostante. L'animale che mi aveva sbalzato via stava utilizzando le catene, ancora piantate nel suo corpo, per falciare quanti più nemici possibile, mentre l'altro si era liberato soltanto per metà e continuava ad agitarsi, anche a discapito della sua stessa salute; l'ala destra, infatti, era impigliata in uno degli anelli della rete che stava per cedere, insieme al suo stesso corpo. La pelle si lacerò facendo fuoriuscire del liquido melmoso dello stesso colore della pece, qualcosa di disgustoso non solo alla vista ma anche all'olfatto. Il dolore che si era procurato gli garantì la fuga, e non frenò la sua sete di vendetta. Cominciò a divorare, uccidere, squarciare la pelle dei nemici senza dar loro neanche il tempo di difendersi come avrebbero dovuto. Addirittura i colpi d'arma da fuoco che riuscivano a trapassargli la carne non sembravano riuscire a fermarlo. Strinsi i denti e mi obbligai a restare lucido e a trovare una soluzione per salvare i miei uomini e portare al termine il mio compito. Il panico si sarebbe rivelato fatale in quel momento.
Hussain stava scaricando tutte le sue munizioni sul suo obiettivo, nella speranza di riuscire anche solo a ferirlo in modo significativo, ma senza successo. La creatura, inferocita, lasciò perdere tutto il resto e si concentrò soltanto sul ragazzo, afferrando la canna del mitra e tirandola a sé, mentre il corpo del Sovvertitore veniva sollevato in aria; aveva lasciato la presa sull'arma, ma la cinta era ancora agganciata alla sua spalla e non riusciva a liberarsene.
Dovevo aiutarlo, così mi guardai intorno alla ricerca di un punto più elevato da utilizzare a mio vantaggio. Osservai i rami, il loro spessore e lunghezza, fino a scegliere l'albero più adatto a ciò che avevo in mente, proprio alle spalle della bestia. Rimisi il mitra sulla schiena, mi diedi lo slancio e mi arrampicai con agilità, veloce come una saetta.
«Ehi, stronzo! Da questa parte!» ringhiai, attirando l'attenzione dell'animale. Hussain sfruttò il diversivo per sganciare la cinta, crollando poi sul terreno. E fu allora che cominciai a sparare nei punti naturalmente deboli: il viso, gli occhi, il collo, la testa.
L'essere ruggì, i colpi a segno lo ferivano ma non riuscivano a placarne la forza. Le braccia mi dolevano per il rinculo e per il tremore provocato dai continui scoppi, ma ciò non mi impedì di restare a secco e svuotare il caricatore. D'istinto, portai una mano al fianco per recuperarne un altro, ma mi raggelai quando il palmo sfiorò il vuoto. Avevo perso il caricatore durante la caduta. «Hunter! Hunter!» gridò il ragazzo al quale avevo salvato la vita, lanciando poi una spada nella mia direzione. Il nemico, attirato dal fracasso, si voltò leggermente; in una mossa fulminea, e il cuore che batteva forte, balzai dalla superficie su cui ero e riuscii ad afferrare l'arma per l'elsa, atterrando poi sulla bestia e piantandole la lama nella nuca. Spinsi così a fondo da trapassarle il collo. Impugnai con forza l'elsa e roteai il metallo nella sua carne, per assicurarmi che la morte imminente sopraggiungesse. I suoni che udii furono ripugnanti, non quanto il contatto con la sua pelle unta e la puzza che la ferita e il siero nero che da quest'ultima veniva fuori emanavano. Puzzava di marcio, di fetido. Era l'odore della morte.
Nell'istante in cui il cadavere toccò terra, un tuono fragoroso squassò il cielo. Il sereno che ci aveva accompagnati per tutto il giorno fu sostituito da nuvole scure, minacciose, pronte a scatenare la tempesta che avevano trasportato con sé.
Mi voltai, avvertendo il terreno sotto i miei piedi tremare, e dovetti sollevare lo sguardo per guardare in faccia la bestia che mi stava di fronte. Come a voler imitare il tempaccio sopra le nostre teste, spalancò lentamente una sola ala, avendo l'altra spezzata, diventando comunque una delle ombre più grosse e spaventose che mi avessero mai coperto. Spalancò la bocca per mostrare i canini affilati - nonostante non ce ne fosse bisogno poiché la pelle ai lati delle guance era inesistente - ed emise il solito grido che precedeva la sua presenza, un grido minaccioso capace di far accapponare la pelle e perforare i timpani.
Alzai il braccio destro, tenendo stretta l'impugnatura della spada, ma non feci in tempo a calarla per attaccare; venni colpito dalla sua zampa anteriore, sbalzandomi così, ancora una volta, lontano e fuori portata. Rotolai maldestramente sul terreno in discesa, atterrando col fianco destro sulle sbarre della gabbia. Il dolore investì tutto il mio corpo, quasi mozzandomi il fiato. Udii lo scrosciare leggero dell'acqua sotto di me poco prima del ruggito feroce dell'animale in cima alla pendenza, alle sue spalle i miei soldati gridavano per cominciare a colpirlo, ma l'essere non sembrava darci peso, il suo sguardo era puntato verso il basso, su di me: ero io il suo bersaglio, e lui era pronto a caricare. In un salto, spingendosi soltanto con la forza dell'unica ala ancora intatta, si librò in aria, venendo mancato da una lancia che si piantò in acqua, oltre la mia testa. Mi ero voltato per evitarla, finendo all'interno della gabbia con un tonfo, la schiena dolorante contro il ferro sporco e bagnato, e fu proprio in quel momento che il predatore atterrò pesantemente sulla gabbia, aggrappando gli artigli proprio dove poco prima vi era il mio corpo.
La pioggia leggera che cominciò a cadere giù fece attaccare i miei capelli bagnati sulla fronte, e mi costrinse a socchiudere gli occhi per proteggere la vista dall'acqua, che ormai era sia sopra che sotto di me.
«Non sparate, potreste colpire Hunter!» riconobbi la voce di Percival poco prima che il verso di sfida della bestia sopra di me mi frastornasse. Mi guardai intorno, cercando la spada che avevo perso durante il volo fatto, e la trovai sul terreno scosceso, ben lontana da me.
Il liquido brunastro che fuoriusciva dall'ala macchiò l'uniforme da Sovvertitore, imbrattando anche la pelle scoperta del braccio. La puzza fu il minore dei mali, perché quell'essere aveva tutta l'intenzione di divorarmi: tentò di afferrarmi in un gesto veloce della zampa anteriore, ma fui in grado di schivare l'attacco altrettanto velocemente, così da far incastrare gli artigli tra le sbarre. Il momento mi diede la possibilità di sollevare entrambe le gambe e colpire il suo volto più forte che potessi per una, due, tre volte. L'animale gridò ancora ma di dolore, barcollando all'indietro; la forza fece staccare l'artiglio dalla zampa che rimase intrappolato tra il ferro. Trattenni il fiato quando l'altro, dolorante ed arrabbiato, caricò ancora una volta, pronto a chiudere la mia testa tra le sue fauci. Disarmato e a corto di tempo, mi sarei difeso fino all'ultimo respiro, usando il mio corpo come un'arma. Poi si udì qualcuno gridare profondamente, e delle braccia che si avvinghiavano intorno al collo del mio assalitore. Quest'ultimo si dimenò, si difese e provò a lacerare la pelle dell'uomo coraggioso che lo stava tenendo distratto.
Mi mossi come un fulmine, strinsi le dita intorno all'unghia affilata e tirai con forza, cercando in tutti i modi di liberarla dal ferro. Intanto, proprio sopra di me, l'uomo stava avendo la peggio; non poteva uccidere quell'affare a mani nude. Intravidi dei ciuffi rossi tra un movimento ed un altro, e stentai a credere ai miei occhi. Jeffrey era ancora vivo e più coraggioso di quanto avessi mai potuto pensare, ma gridava di dolore ogni volta che la bestia sotto di lui riusciva a trafiggergli la carne per scrollarselo di dosso. Strattonai più che potei l'oggetto tra le mie mani, mentre i ragazzi scivolavano giù, tenendosi a distanza di sicurezza, e cercavano un tiro pulito. Poi l'essere riuscì ad afferrare il suo aggressore e lanciarlo nel fiume, diversi metri più lontano. Sentii l'adrenalina scorrermi nelle vene e le braccia tremare per la tensione scaricata quando finalmente l'artiglio, con uno strattone, fu libero, e l'altro che tentò di azzannarmi trovò la morte in una pugnala tra il collo e il muso. Digrignai i denti ad ogni affondo che andava sempre più in profondità, ogni affondo rendeva sempre più l'animale debole, la vita che abbandonava il suo corpo. Il capo pesante calò in avanti, nella gabbia, ed io tirai un sospiro di sollievo così forte che le forze mi abbandonarono per qualche istante, inerme sulle sbarre.
«Hunter, stai bene?» il volto di Percival fece capolino dall'entrata della gabbia, e la sua mano si protese per aiutarmi ad uscire da lì.
Con il fiato corto e gli indumenti zuppi d'acqua, fitte alla testa, al naso e allo zigomo e un dolore acuto al fianco, annuii «Sì, sto bene», dissi, afferrando la sua mano per tirarmi su.
Volsi lo sguardo a sinistra, dove il corpo di Jeffrey giaceva inerme, poggiato su un fianco, tra l'acqua e la riva. Un altro tuono rombò nell'aria, mentre la pioggia leggera diventava più fitta. Saltai giù dalla prigione di ferro e mi avviai in fretta verso di lui, inginocchiandomi nel fiume. Sostenni il peso del suo capo col braccio e lo sistemai supino, poggiando poi due dita sul collo, constatando la fragilità dei battiti del suo cuore. «Amico, ehi. Svegliati, torniamo a casa, devi solo resistere», gli parlai con calma, sperando che la tristezza non trapelasse in nessun modo. Jeffrey aprì gli occhi a fatica e puntò il suo sguardo su di me, l'espressione stordita; parte del suo volto era mascherato dal sangue, così tanto che non riuscivo a capire dove fosse la ferita, ma era chiaro che fosse deformato per l'impatto contro l'albero. In più, le ferite al fianco sembravano essere gravissime, lo dedussi dal modo in cui Percival mi guardò scuotendo il capo.
«L'abbiamo... catturato?» biascicò l'uomo tra le mie braccia.
«Sì, sei riuscito a fermarlo senza ucciderlo, hai completato la missione», mentii senza pentimento.
Tossì, sollevando poi l'angolo della bocca in una specie di sorriso. «Per... per lei.»
Il suo riferimento fu chiarissimo per me: era una persona devota alla Grande Madre ed era convinto, anche in punto di morte, che Sage fosse una dei rami inviati sulla terra proprio dallo spirito protettore di ogni cosa. «Per lei», ripetei. «Sarà orgogliosa di te.»
Un altro tuono si portò via l'ultimo respiro di Jeffrey, mentre la pioggia lavava via il sangue dal suo corpo senza vita.
Il cielo piangeva i nostri soldati caduti quel giorno, gli stessi che avevano sacrificato la propria vita per proteggere quella d'altri. Eravamo partiti in dodici, saremmo tornati a casa soltanto in cinque. Non potevamo bruciarli, non potevamo portali con noi. Mi sentivo responsabile della loro morte e colpevole per non poter dar loro una degna sepoltura, di non concedere ai loro cari un ultimo saluto. La storia continuava a ripetersi ininterrottamente ogni singola volta che conducevo i miei uomini dritti sulla via senza ritorno. Era anche colpa mia.
«Hunter?» chiamò Percival per catturare la mia attenzione, in piedi accanto a me, di fronte al cadavere del nostro compagno. «Dobbiamo andare, arrivano le guardie.»
Strinsi i denti, mentre guardavo il volto deturpato di Jeffrey e ripensavo alle sue ultime parole.
Per lei, aveva detto. E per Sage, per Jeffrey, per il nostro Ordine e l'intero Terzo Humus avremmo portato a termine il compito, scoprendo la vera natura di quegli abomini che avevano invaso le nostre terre e il modo di fermarli.
«Sapete cosa fare», dissi senza guardarlo, il tono di voce glaciale. «Ma basta morti per oggi. Poi mettiamo la carcassa di quella cosa sotto chiave e la portiamo a casa, non abbiamo perso i nostri per niente.»
In lontananza, attirati dai versi e dalle grida, si udirono le voci di uomini, probabilmente in tre, che si avviavano spediti verso il nostro ''accampamento''. Erano Custodi che avanzavano a grandi falcate sull'erba, armi sguainate, pronti ad arrestare i trasgressori. Che gran colpo sarebbe stato per loro catturare proprio uno dei maggiori esponenti di un Ordine che aveva messo parecchie volte i bastoni tra le ruote al loro sovrano. Ma non l'avrebbero messo a segno quel giorno, quello era certo.
I miei ragazzi, seppur stremati, li avevano colti di sorpresa e li avevano messi fuori gioco secondo le mie direttive. Ne sarei stato molto fiero se non avessi avuto l'umore sotto terra, proprio lì dov'erano i soldati che ci eravamo lasciati alle spalle poco prima di caricare il cadavere mostruoso privo di vita nella gabbia e, con estremo sforzo, portarlo via. La piattaforma mobile che Asery aveva avuto l'idea di realizzare, imitando la struttura del trasporto prigionieri reale, si era rivelata più che produttiva, offrendo ai nostri corpi esausti un po' di pace.
Poco lontani dalla cascata, dietro cui vi era nascosto uno degli ingressi secondari che ci avrebbe condotto al nostro rifugio, gli uomini di vedetta sugli alberi ci riconobbero e, con un cenno ricambiato, ci lasciarono passare. Il sole era già sorto da un po' quando si udì il verso di un Grifone in lontananza, segnale palese che la seconda squadra di vedetta si fosse accorta del nostro arrivo e lo stesse segnalando alla fortezza.
Al rientro, trovammo la maggior parte dei nostri ad aspettarci, sparpagliati nella sala per gli allenamenti; in prima fila c'era Laryngard assieme ad Asery e Zenda, quest'ultima nascosta dietro una maschera di preoccupazione seguita poi da un mezzo sospiro di sollievo. Ciò che però mi fece accigliare furono i lividi e i graffi che presentava sul volto dall'incarnato scuro: il naso era gonfio e coperto da una vistosa ferita che sovrastava un ematoma violastro, un po' come quello stesso colore era sparso sul resto del viso.
«Hunter», sussurrò Laryngard, avvicinandosi insieme alle due ragazze. «Dove sono gli altri?» chiese, guardando alle mie spalle i volti di Percival e Hussain.
«Sei ferito, dovresti farti medicare», sospirò Zenda, tentando poi di toccarmi la fronte incrostata di sangue prima che, con un gesto del capo, glielo impedissi.
«Gli altri sono all'ingresso principale per portare dentro la bestia», spiegai con calma, avvertendo una punta di fastidio nell'avere lo sguardo eccessivamente preoccupato del mio braccio destro; mi guardava come se potessi rompermi da un momento all'altro.
Quando Asery domandò, vistosamente incredula, se fossimo dunque riusciti a catturarla viva, ottenendo come risposta un segno di diniego, notai del movimento tra la folla alle sue spalle, qualcuno che tentava di farsi strada a fatica. Ne sbucò fuori Sage, o quello che restava di lei. Così come per Zenda, il suo volto era pieno di escoriazioni, lividi e gonfiori sparsi, come per lo zigomo destro, la fronte e, seppur leggermente, l'occhio. Lei non sembrava curarsene, l'aria fiera non l'aveva abbandonata neanche in quello stato, esattamente come era successo con la sua bontà: nel vedermi, chiuse le palpebre per quanto le fosse concesso e calò il capo mentre anche tutto il suo corpo si rilassava, sollevato, quasi fosse stata convinta di non vedermi tornare.
Il mio sguardo di fuoco vivo si alternò più volte sulle figure delle due donne conciate in un pessimo stato, infine si posò su quella di Asery che scosse il capo, facendomi capire che quello non fosse il momento adatto per parlarne o per chiedere.
«Siete tutti?» domandò Laryngard, portandomi bruscamente alla realtà nuda e cruda, quella in cui ero costretto ad essere portatore di cattive notizie.
«No, Laryngard, non sono riuscito a riportarli tutti a casa», confessai, serrando le labbra in un gesto nervoso. Tentai di trattenermi, ma - per un istante fugace - tornai ad osservare Sage a debita distanza e pronunciai: «Jeff non ce l'ha fatta.»
La vedi manifestare tutta la tristezza tramite l'espressione contratta, il naso arricciato, cercando invano di trattenere le lacrime. La conoscevo abbastanza da esser sicuro che avrebbe incolpato se stessa per tutta la vita, un po' come facevo anch'io ogni notte, gli incubi che mi perseguitavano, i miei fratelli tra le braccia della Grande Madre che mi sussurravano ''ti stiamo aspettando''. Laryngard mi poggiò una mano sulla spalla nel tentativo di alleggerire il peso che sentivo, inconsapevole del fatto che se avessi potuto, mi sarei caricato anche di quello della piccola ragazza di fronte a me.
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