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16. La doppia spirale [ parte prima ]

SAGE

Il possente battito d'ali di Grusco continuava a produrre un rumore sordo, l'unico - oltre al suono dei nostri respiri - che era possibile udire da un'altezza così elevata.

Vi era una pace indescrivibile nel silenzio, nel fischio del vento freddo e dal senso di libertà che cavalcare un Grifone era in grado di regalare.

«Hunter ha detto di tenere le redini strette ma non troppo, la presa deve essere decisa affinché lui possa capire che sei tu a guidarlo, nonostante ci sia fiducia reciproca», mi ricordò la voce profonda di Hussain, il suo viso che fece capolino da sopra la mia spalla.

Mi era stato assegnato come compagno per l'esercitazione di volo sui Grifoni, e per la prima volta mi ero resa conto del perché i suoi risultati fossero ottimi: quel ragazzo era un perfezionista per eccellenza. Ogni minimo particolare doveva essere controllato, studiato, analizzato e ripassato almeno cinquanta volte, così come i consigli che mi aveva dato da quando ci eravamo sollevati sul dorso dell'animale. Quella frase era solo una delle tante che aveva gridato al mio orecchio, per sovrastare il vento, e per ricordarmi le istruzioni di Hunter.

«Hussain», esclamai, e feci appello a tutto il mio auto controllo per non intimargli di stare zitto una volta per tutte. «Stai davvero ricordando a me come fare per controllare le azioni di Grusco?»

«Sì, perché le istruzioni sono state chiare: assolutamente niente trucchi magici!» puntualizzò, riportando gli ordini di Laryngard.

Guardai di fronte a me, il cielo azzurro e sereno di quella mattina e roteai gli occhi violentemente, sbuffando senza farmi sentire. «So bene cosa ha detto Laryngard, ciò che mi chiedo è come tu possa privarti di questa pace!»

«Ci sarà tempo per la pace una volta terminati i nostri compiti», gracchiò, burbero. «Probabilmente da morti!»

Fu troppo da sopportare. Tutta quella negatività non aiutava nessuno, men che meno l'umore di tutto l'Ordine, già a terra e in ansia per la missione del giorno seguente. Così decisi di commettere una follia e di farla per il solo divertimento personale: sospirai, chiusi gli occhi per un istante e cercai Grusco con la mente. L'attimo dopo, io e il Grifone eravamo un tutt'uno e lui era pronto ad eseguire qualsiasi ordine impartito. Era sempre indescrivibile poter usufruire di quel dono, collegarmi alla mente di Grusco, ad esempio, voleva anche dire vedere come lui, sentire come lui, percepire il mondo circostante proprio come faceva lui.

Senza esitare, gli chiesi di scendere in picchiata sul terreno, proprio nel piccolo Giardino dell'Eden fuori dalle mura della nostra fortezza. L'animale non se lo lasciò ripetere due volte, e si gettò verso il vuoto sotto di noi. La sensazione fu piacevole quanto spaventosa, specie per Hussain che si era allarmato ed aggrappato a me come se fossi la sua unica àncora di salvezza.

«Per la Grande Madre, Sage!» gridò e tentò di riportare le mie mani - in alto verso il cielo - sulle redini, ma senza mai sganciarsi dai miei fianchi che teneva stretti con un braccio.

Quando fummo a pochi metri dalla terra, ordinai all'animale di spiegare le ali e di prepararsi ad atterrare proprio in mezzo al gruppetto poco distante che ci aspettava.

Mentre Grusco era in procinto di toccare terra con le sue zampe robuste, il vento che le sue possenti ali generarono scompigliò i capelli dei presenti, oltre a sollevare un po' di terreno in più.

Hussain balzò giù goffamente per poi piegarsi sulle ginocchia nel tentativo di far passare la paura e riprendere fiato. «Non andrò mai più in volo con lei!» esclamò, puntandomi il dito contro con fare teatrale.

Alzai gli occhi al cielo mentre accarezzavo le orecchie di Grusco e feci una smorfia al mio amico, provocando una sommessa risata da parte di Salina e Travis.

Alle mie spalle avvertii la presenza del mio istruttore, teso e pronto per avanzare una severa ramanzina. Difatti, quando mi voltai lo trovai rigido di fronte a me, i lineamenti duri: il cipiglio e le braccia unite dietro la schiena erano un chiaro segnale di ciò che mi aspettava.

«Sono più che sicuro di aver dato delle istruzioni precise, quali tenere un profilo basso ed eseguire l'esercitazione senza l'utilizzo dei poteri», fece una pausa, assumendo un'espressione riflessiva per un attimo, «eppure, ciò che ho visto e che ho sentito dalle femminili grida di Hussain, non corrisponde propriamente a passare inosservati.»

«Prima che tu possa dire altro, ti informo che non siamo stati completamente degli sprovveduti; mi sono accertata della situazione, prima», precisai, utilizzando un tono vagamente sarcastico nonostante tutto e grattandomi distrattamente la parte posteriore del collo. Era una bellissima mattinata calda, fin troppo calda, e non volevo cominciare la giornata con una furente litigata con Hunter. «E poi ne è valsa la pena! Avete sentito le grida di Hussain?»

Di tutta risposta, lui mi riservò un'occhiata di rimprovero mista al vago divertimento, seguita da una rumorosa scia di risate. E tra una battuta e l'altra, il broncio di Hussain e i tentativi di Asery di non unirsi a noi nel divertimento, lo stesso Hunter - sempre composto e serioso - si lasciò scappare una risata viva, quasi spensierata.

Il suo viso assumeva dei tratti diversi quando sorrideva: gli occhi, incorniciati da piccole rughe d'espressione, diventavano più chiari, più lucidi, mentre ai lati della bocca andavano a formarsi delle leggere fossette che gli donavano un'aria molto più giovane, serena. Sarebbe stato inutile negare che l'uomo dai capelli chiari e la pelle bronzea fosse un bel tipo, munito di un fascino non indifferente.

«D'accordo, bambini, ora che lo spazio ricreativo è finito, possiamo tornare ai nostri allenamenti. Che ne pensi, Sage?» ci interruppe il Maestro Laryngard, in disparte e sempre concentrato sull'obiettivo. Essendo a conoscenza del suo segreto, affermare che fosse identico a suo figlio sarebbe stato un eufemismo.

Tutti tornarono seri e io annuii, passando nuovamente una mano sulla nuca. Nel successivo lasso di tempo, provai a controllare ancora una volta la crescita - questa volta - di un ramo robusto per renderlo più lungo, per poi provare a richiamare a me qualche colibrì. Dovevo ammettere che utilizzare le mie abilità e sforzarmi così tanto sotto un sole cocente, era parecchio faticoso, seppur i ragazzi alle mie spalle fossero distratti da ben altri avvenimenti; essere presente, finalmente, ad uno dei miei speciali allenamenti li aveva appassionati ancora di più al tipo di storia che avevo avuto.

Li osservai distrattamente parlottare da sopra una spalla per poi tornare a concentrarmi, non prima di aver legato i capelli in una crocchia spettinata.

Chiusi gli occhi, trovando la amata connessione con la terra a cui tanto mi stavo abituando, ma una voce allarmata mi deconcentrò bruscamente.

«Sage!»

«Travis», lo ammonì Asery a braccia conserte. «Conosci le regole: puoi restare, ma non puoi assolutamente interromperla né distrarla, specie in un momento come quello che hai appena interrotto!»

«Lo so, ma venite a vedere. Hai sempre avuto questa macchia sulla pelle, Sage?» domandò il ragazzo, avvicinandosi a me e mettendo le mani sulle mie spalle.

«Di che macchia parli? Dove?» chiesi, domandandomi cosa ci fosse da affannarsi tanto per un nonnulla.

In un attimo mi furono tutti addosso, curiosi di vedere la strana presenza sulla mia nuca, luogo in cui il mio amico stava passando delicatamente un dito, e proprio nel punto in cui avevo sentito uno strano pizzicore poco prima.

«Hunter, si è illuminata quando ha usato i suoi poteri», comunicò Salina, la voce preoccupata ma allo stesso tempo affascinata da ciò che i suoi occhi avevano visto.

«Illuminata?» chiedemmo all'unisono io ed Hunter, quest'ultimo che si posizionava alle mie spalle, passando le dita sul retro del mio collo.

«E' una voglia che ha la forma di una doppia spirale», mi spiegò, calmo. «Gira su se stessa per due volte in entrambi i sensi, come una specie di ciclo. Non te ne sei mai accorta? Nessuno te l'ha mai fatto notare?»

I quesiti di Hunter erano i medesimi presenti nella mia mente, oltre ad una descrizione familiare di qualcosa su cui i miei occhi si erano già posati. L'unica in grado di poter informarmi della presenza di un simbolo del genere sulla mia pelle era mia madre, che conosceva il mio corpo meglio di chiunque altro, ma non aveva mai fatto neanche un accenno ad una cosa simile. Mi fu difficile pensare che non l'avesse mai notato, e mi ritrovai con la testa ricolma di brutti pensieri. Era impossibile che non se ne fosse accorta, eppure che significato potevo attribuire all'omissione di quell'informazione? Balenò chiaramente un interrogativo importante, forse fondamentale: e se mia madre avesse sempre saputo ciò che ero, e avesse scelto di tacere anziché informarmi? Quello sarebbe potuto essere il motivo del suo fare apprensivo, spesso eccessivo, o il timore viscerale che provava ad ogni Custode incontrato o adocchiato per strada. Non potevo neanche immaginare un'eventualità simile; mia madre non avrebbe mai potuto mentirmi, nascondere la mia vera identità, anche se per proteggermi. Provai un forte senso di tristezza, frustrazione e rabbia. Un'incontrollata rabbia che non potevo sfogare su nessuno, neanche su di lei. La sua malattia l'aveva strappata via da me insieme a tutti i suoi possibili segreti e le sue risposte.

Afferrai con i denti il labbro inferiore che tremava visibilmente e strinsi forte, trattenendo qualsiasi emozione, negativa o positiva che fosse. E dopo aver spiegato ai presenti della mia totale inconsapevolezza, mi dileguai, ammettendo di essere troppo stanca per continuare per quel giorno.

L'ora di pranzo passò in fretta e con essa l'attesa dell'arrivo del pomeriggio. Ci attendeva un nuovo tipo di esercitazione, molto più umana e meno tattica: avremmo dovuto dirigerci, divisi in gruppi da tre, nei villaggi vicini per accertarci che la situazione fosse tranquilla e per reclutare, per così dire, dei possibili soldati o semplicemente per dare asilo a chiunque ne avesse bisogno. L'Ordine dei Sovvertitori non era conosciuto, per cui le persone che si trovavano in guai seri non erano a conoscenza di ciò che avrebbe potuto salvarli. O, nel mio caso, generare ancora più problemi.

Il pensiero della nuova scoperta evidente sul mio corpo mi aveva scossa notevolmente, come di consuetudine ormai. Riuscivo a sopportare di avere un simbolo sulla mia pelle che si illuminava ogni qualvolta provassi ad utilizzare i miei poteri, ma il pensiero di averlo avuto lì per tutta la mia vita, sotto gli occhi furbi di mia madre e senza conoscerne l'esistenza proprio dalla bocca di chi mi aveva amata più di ogni altra cosa al mondo faceva davvero male. Era stato un pensiero fisso, un malessere che mi portavo ancora addosso e sui tratti del viso; mi ero incupita, chiusa nel mio silenzio e persa nella moltitudine di teorie che mi erano apparse nella mente. Era dura dover affrontare tutto quel peso, la collera per non poter ricevere le risposte che agognavo, di cui avevo un disperato bisogno.

«Siete pronti? E' ora di muoversi, abbiamo già perso fin troppo tempo» tuonò Kenneth Doghly, il solito tono scontroso e sempre pronto a creare scompiglio. Era a lui che ero stata affidata, insieme a Travis e Reese. Altri gruppi erano già partiti per cercare di coprire più territorio possibile, altri invece si stavano preparando proprio come stavamo facendo noi, sistemando le provviste utili fino a quella sera, momento previsto per il rientro a "casa" della maggior parte dei soldati. Alcuni dei Sovvertitori completi erano via da giorni, si erano allontanati per controllare zone in cui gli allievi non avrebbero potuto addentrarsi, non così presto almeno.

Mi voltai verso Travis accanto a me, ricambiai il piccolo sorriso che mi dedicò e lo osservai avanzare verso Kenneth, troppo distratta da altro: Zenda, a capo di un'ulteriore squadra formata da quattro persone, parlava con Hunter in disparte, in maniera abbastanza intima. Lui le rivolse un breve e fugace sorriso, lei invece ne approfittò per prendergli le mani, che il ragazzo strinse a sua volta, e quel contatto mi riportò alla seconda sera passata tra i Sovvertitori, quando - al Borgo - avevo immaginato Zenda insieme ad Hunter. Avvertii uno strano peso sullo sterno che mi costrinse ad inspirare profondamente per tentare di alleggerirlo. Non mi fu chiaro perché e neanche ero a conoscenza del quando fosse accaduto, ma ciò che vidi mi recò un massiccio e viscerale fastidio; era insensato, immotivato e molto stupido, ma non potei evitare di sentirmi toccata dal pensiero di una possibile relazione tra i due. Quando lei si allontanò e lui spostò lo sguardo sulla sala gremita, per poi indugiare sulla mia figura, non riuscii a non rivolgere il mio verso terra, troppo spaventata dal fatto che potesse leggere attraverso i miei occhi qualcosa di poco chiaro anche per me stessa. Mi misi la sacca in spalla e velocemente mi diressi verso Reese, Travis e Doghly. Quest'ultimo aspettava che un giovanissimo Sovvertitore sellasse il suo cavallo e glielo portasse proprio all'entrata della fortezza; il suo assurdo comportamento mi faceva rivivere l'arroganza di Victor e dei suoi simili, così tanto da storcere il naso nel vedere quell'adolescente eseguire gli ordini come un pupazzo solo per la forte e palese ammirazione che provava nei confronti di Kenneth. , parlottai tra me e me, a quanto pare anche Doghly era in grado di ricevere stima, nonostante il suo atteggiamento da vero stronzo.

Uscì, invitandoci a sbrigarci ancora una volta, ma quando feci per seguirlo Hunter mi si parò davanti, l'espressione tranquilla. «Vi state mettendo in viaggio anche voi?» chiese e la voce tradì i tratti del suo viso. Il suo era decisamente un tono preoccupato, com'era giusto che fosse.

«Sì, e so cosa stai per dirmi: c'è comunque una taglia sulla mia testa, non combinerò guai e non mi infilerò in qualche casino. Passerò inosservata», lo anticipai, provocandogli un sorrisetto divertito in risposta al mio tono impertinente ma giocoso.

«Cerca solo di tenere gli occhi aperti», mi raccomandò pacato, quasi sottovoce e visibilmente preoccupato.

Annuii, e sotto il suo sguardo e il suo sorriso appena abbozzato mi parve di avvertire un calore alle gote, un leggero velo di imbarazzo benevolo che mi costrinse a dileguarmi velocemente dopo un'ultima e fugace occhiata.

All'aria aperta, poco dopo, sulla groppa di Sanja e chiusa nella mia prigione fatta di silenzi e pensieri, domandai a me stessa cosa stesse succedendo: era strano, provavo emozioni contrastanti al medesimo momento, ma chiare come il sole erano le sensazioni in continua evoluzione nei confronti di Hunter. Che avessimo un buon rapporto, seppur non agli inizi e maturato con fatica, mettendo da parte tutte le divergenze e i diverbi, era indubbiamente evidente anche grazie a tutto il tempo che passavamo insieme, tra un allenamento e l'altro. Ma a livello personale, io ed Hunter sapevamo veramente poco l'uno dell'altra, eccezion fatta per qualche informazione raccontata senza pensarci troppo, perché la difficoltà nel provare fiducia causata dagli eventi difficili che ci avevano segnato, ci avevano condotti ad una chiusura totale. Eppure io avvertivo una connessione, un legame che andava ben oltre il superfluo; l'avevo sentito in infermeria, lo percepivo nelle sue battute, negli incoraggiamenti, nei consigli, nella preoccupazione e nel suo sguardo. Inconsapevolmente, eravamo riusciti a toccarci in modo diverso, anche senza sfiorarci. Ma avevo il forte timore che le supposizioni di Salina fossero reali riguardo le mie possibili emozioni nei confronti del Sovvertitore, emozioni da dover accantonare per una serie di motivi, una lunga lista senza fine. In cima, sicuramente, il fatto che fossimo in guerra. Io non sapevo chi diavolo fossi, tutto ciò che avevo conosciuto di me stessa in vent'anni si era distrutto con la scoperta di un nuovo e celato aspetto della mia vita, di me. Non avevo mai avuto tempo per cose del genere, non ero mai stata troppo a lungo nello stesso posto per poter affezionarmi a qualcuno e pensare di star superando certi limiti, motivo per il quale non era possibile che accadesse in quel momento. Mi venne quasi da soffiare un mezzo sorriso al pensiero che, probabilmente, erano tutte congetture inutili che la mia testolina stava creando, una mera perdita di tempo visto il modo in cui avevo visto Hunter e Zenda attaccati l'uno all'altra. Riflettendo di più sulla questione, mi venivano in mente così tante occasioni in cui era possibile travisare la natura del loro rapporto, avvicinamenti e sguardi complici, fin troppo. Non avevo una prova concreta, ma avrei potuto procurarmela lavorandomi Travis durante il viaggio; era risaputo che fosse un grande chiacchierone - nonostante fosse Salina l'addetta alle notizie più sconvolgenti - e con buone probabilità avrei potuto scoprire qualche particolare in più.

Così, decisa, spronai Sanja ad avanzare, guadagnando terreno sul sentiero nella foresta che stavamo attraversando e mi affiancai al cavallo di Travis, mordicchiandomi il labbro inferiore per via del leggero senso di colpa che avvertivo; dopotutto, mi stavo addentrando in acque inesplorate per me, e - a dirla tutta - non era saggio ficcanasare nel privato delle persone. Avrei dovuto farmi gli affari miei, in sintesi, ma quella era un'altra storia.

«Grande Madre, questa passeggiata ci voleva. Mi sembrava di essere segregata in quelle quattro mura, tra gli allenamenti, gli sviluppi, la missione di domani», scelsi di girarci intorno scaltramente per non destare qualche sospetto nel mio compagno, voltandomi a guardarlo e continuando la frase sottovoce: «E la strega!»

Il viso del giovane dagli occhi scuri si aprì in un sorriso sincero, mentre il suo sguardo si alternò tra me e Reese e Doghly, qualche metro più avanti. «Mi sono perso qualcosa? Ha nuovamente sfoggiato la sua antipatia nei tuoi riguardi?»

«No, per fortuna», precisai subito. «Pare sia distratta da altro. Non hai notato anche tu come sia stata più serafica in queste settimane?» chiesi, spostando con la mano delle ciocche di capelli umide di sudore dalla fronte. Eravamo nel pieno dell'estate e il caldo era torrido, quasi insopportabile.

Lui mi lanciò un'occhiata interrogativa, seguita da una smorfia di disappunto. Io mi raddrizzai sulla sella e inumidii le labbra, tentando di far scorrere la conversazione in modo naturale. «Voglio dire, sembra più calma, o probabilmente è solo distratta da altro. Non hai notato quanto sia intima con Hunter?»

«Lo vorrei ben vedere, è il suo partner sul campo di battaglia.»

«E credi che siano solo questo?» indagai sfacciatamente e con un tono concitato, lasciando che la curiosità prendesse il sopravvento.

«Be'...», cominciò lui, in difficoltà, «non hanno mai fatto trapelare nulla, se anche fosse, quindi non saprei proprio dirti se...»

«Oh, ma per favore», esclamò Kenneth senza voltarsi a guardarci, la voce piatta e priva di qualsiasi emozione se non stanchezza nell'ascoltarci. «Quei due ci danno dentro come conigli, è chiaro a tutti.»

Avvertii una strana sensazione al suono di quelle parole: fu come ricevere un pugno sul mento, incassato e in grado di mandarti direttamente al tappeto. E poi arrivò l'imbarazzo che mi tinse le guance di un rosso vivo, portandomi a supporre da quanto tempo il mio istruttore fosse stato in ascolto. Fu tremendamente imbarazzante.

Al mercato, intenti a fare delle scorte per sfamare i nostri rifugiati e soldati, i crucci che mi attanagliavano la mente proprio non ne volevano sapere di abbandonarmi; se me l'avessero chiesto, non avrei saputo dire cosa mi stesse prendendo. Era come se l'idea di Hunter e Zenda mi stesse tormentando dall'interno, m'infastidiva. Mi ero ritrovata nell'ennesima situazione assurda e avrei fatto bene a dimenticare tutto, ad andare avanti e a concentrarmi soltanto sull'impresa del giorno seguente, oltre che alla lotta contro Victor, alla crescita delle mie abilità, alla realizzazione del mio ruolo da Sovvertitrice.

Occupati a contrattare il prezzo giusto per gli alimenti di cui necessitavamo, potei osservare un Kenneth completamente a suo agio, il capo scoperto e l'espressione seriosa e concentrata dipinta sul volto. Mi chiesi - spostando dal viso il cappuccio della giacca leggera e senza maniche verdognola che indossavo - quale fosse la sua storia, perché fosse così scontroso, ostinato, e soprattutto perché sembrava avercela a morte con Hunter, andando contro tutto ciò che quest'ultimo proponeva. Reece era rimasta a sorvegliare i cavalli senza protestare, a detta di Doghly fin troppo poco avvezza all'invisibilità da dover adottare tra le persone e così vicini a delle possibili guardie, e quando ci vide tornare con il nostro rifornimento carico - ma non troppo, per non destare alcun sospetto e non attirare l'attenzione - ci aiutò volentieri, sempre chiusa nel suo fedele silenzio, dal quale nessuno era in grado di trascinarla via.

«Si sono comportati bene?» le domandai con fare cordiale e con il sorriso dipinto sulle labbra, dando qualche colpetto al collo di Sanja e a quello del suo simile accanto a lei.

«Sono bestie istruite per questo, sottostare agli ordini impartiti», ribatté con un tono piatto, privo di qualsivoglia empatia oltre che tatto.

Mi voltai a guardarla, restando per un attimo interdetta da quanto avessi appena udito, ma cercai comunque di vedere del buono in lei celato sotto una grande difficoltà nel rapportarsi con altre persone. Sotto il mio sguardo vagamente accusatorio, lei si sciolse e tentò di fare ammenda. «Scusami, tu sei... collegata a loro. Volevo dire che... sì, sono stati tranquilli», borbottò delle scuse, sollevò per una frazione di secondo l'angolo della bocca a mo' di riso, passando poi oltre. Travis, che mi stava aiutando a caricare gli animali, mi rivolse un'occhiata fin troppo eloquente, ma preferì non esprimi ad alta voce i pensieri che tuttavia erano ben visibili sul suo viso.

«Wildfire e Gambitt, con me», tuonò Kenneth, senza neanche aspettare che il lavoro fosse concluso.

«Dove andiamo adesso?» chiesi, incuriosita dalla fretta che il mio istruttore sembrava avere.

Lui mi scrutò con attenzione, l'espressione indecifrabile che gli copriva il volto, probabilmente ponderando l'idea di informarmi o meno. «Dobbiamo incontrare una persona», disse infine. E così c'incamminammo, attraversando nuovamente il villaggio Kankis, il primo dei piccoli insediamenti dei civili tra il rifugio dei Sovvertitori e il grande villaggio Sìdale, e costeggiando la foresta senza mai allontanarci troppo; in caso di pericolo, sarebbe stata il nostro piano di fuga.

«Tu sarai abituata a tutto questo», il mio compagno assunse un tono pacato, tenue, mantenendo il passo spedito al mio fianco mentre si liberava di qualche zanzara sventolando la mano di fronte a sé. «Voglio dire, questi continui spostamenti, le provviste, vivere da nomade senza mai restare troppo a lungo nello stesso posto da poter ricordarlo».

Emisi uno sbuffo di riso amaro al ricordo della mia vita passata; sembrava un secolo da quando ero stata rapita da Victor e poi da quelli che si sarebbero rivelati i miei salvatori, e invece era passato soltanto qualche mese. «Diciamo di sì, ma allo stesso tempo era semplice: mio malgrado, non sono sempre stata protetta dalla natura, ho passato diverso tempo in delle locande, svolgendo qualche lavoretto per non sperperare denaro», spiegai con apparente tranquillità, mentre dentro mi montava un fortissimo e pesante sospiro. «Prima di entrare a far parte dei Sovvertitori, la foresta era la mia casa e ora, venuti alla luce i miei poteri, ne comprendo a pieno il motivo.»

«Per nutrirti, invece? Cacciavi, nella speranza di non essere beccata?»

Annuii mentre, questa volta, un sorriso genuino mi apriva il viso a metà. «E non mi hanno mai colta con le mani nel sacco, per mia fortuna. Sono sempre stata attenta, anche quando donavo gran parte del ricavato alle persone più bisognose, magari chiedendo soltanto un cambio d'abito», specificai, sincera. Non avevo mai chiesto soldi, non mi era mai parso giusto.

«Commovente», borbottò Kenneth, fermatosi di colpo davanti a noi. «Adesso, se avete finito di raccontarvi storie strappalacrime e di donarvi vicendevolmente pacche sulla spalla, potreste farmi la cortesia di rimanere in silenzio per smetterla finalmente di torturarmi con queste lagne?» la sua voce roca si fece ancora più profonda alla fine della frase, andando man mano ad assottigliarsi per poi dissolversi completamente sull'ultima parola, a malapena udibile. Doghly, lo scontroso, burbero, sgarbato e insopportabile Doghly, era teso proprio come le sue spalle; aveva assunto una posizione che conoscevo fin troppo bene, era in ascolto. Lo imitai, facendo appello alla mia capacità di entrare in stretto contatto con la flora e la fauna circostante per verificare se ci fosse qualche pericolo nelle vicinanze. Captai qualcosa e in quel momento esatto spalancai gli occhi da poco socchiusi, portando subito la mano all'elsa del pugnale nascosto sotto la mantella, agganciato alla mia vita. Per non destare troppi sospetti, eravamo stati costretti a rinunciare alle spade, armandoci ben poco e decisi ad evitare in tutti i modi lo scontro.

«C'è qualcuno qui intorno», affermai decisa, facendo trasparire una certa preoccupazione nel tono di voce.

«Sta' calma, sono amici», disse Kenneth, e - allo stesso momento - tra gli alberi apparve una figura incappucciata intenta a scrutarci minuziosamente, senza lasciare a noialtri la possibilità di vederla in volto. Poi balzò via in un agile scatto, lasciandomi a bocca aperta sia per l'agilità che la rapidità con cui era scomparsa.

«Dove diavolo è finito?» chiesi, facendo poi affidamento ai miei sensi, lasciando che la natura mi parlasse; non eravamo soli, e quella non era l'unica figura presente lì con noi.

«Kenneth, sei sicuro che siano amici?» sibilò Travis, deglutendo poi rumorosamente. Seguii il suo sguardo, proprio sul punto in cui poco prima la figura si era palesata, e scoprii il motivo del suo turbamento che avevo avvertito nella sua voce: le sagome si erano moltiplicate, diventando ben cinque e sempre intente ad osservare ogni nostra mossa.

«Possiamo proseguire», disse soltanto, riprendendo a camminare e imboccando un breve sentiero che collegava l'inizio della foresta al villaggio. Il nostro passo era tranquillo ma i sensi erano in allerta mentre Kenneth ci guidava lungo le casupole costruite in pietra, imboccando un cunicolo tra le abitazioni nel quale ci rifugiammo. La cosa cominciava a mettermi agitazione, specie per le sentinelle, fedeli guardie di Victor, che giravano nei villaggi indisturbati, a caccia di guai.

Poi, dall'altro lato dello stretto, comparve diverse sagome scure, questa volta a viso scoperto. I tre uomini s'avvicinarono lentamente, poco prima di aver lasciato un quarto compagno all'estremità del vicolo, così come Doghly ordinò a Travis.

«Sta' di guardia», gli disse rivolgendogli uno sguardo veloce, che poi spostò su di me. «Tu, invece, seguimi.»

E così entrambi andammo incontro alle persone con cui - a quanto pareva - avevamo un serio appuntamento.

«E' bello rivederti, Kenneth», enunciò l'uomo di colore che guidava il gruppo. Aveva i capelli brizzolati e grandi occhi scuri, il ventre gonfio e le braccia toniche, seppur nascoste dalla giacca leggera color crema che indossava. Ma ciò che spiccava più di qualunque altra cosa era la vistosa cicatrice orizzontale che gli tagliava il collo a metà; mi chiesi chi fosse quell'uomo e cosa gli fosse successo. Il suo sguardo era duro, serio, eppure non sembrava minaccioso. Era soltanto circospetto, la voce graffiante.

«Ti trovo bene, Polgrim», rispose il mio superiore, stringendo la mano che l'altro gli aveva offerto. «Meglio non perdere altro tempo. Ho visto più falchi del previsto, ci sono stati dei problemi?»

Doveva sicuramente riferirsi alle figure tra gli alberi, mi ritrovai a pensare tra me e me, restando in disparte poco dietro Kenneth e lanciando, di tanto in tanto, occhiate fugaci a Travis.

«E' sempre stato difficile, ma adesso le cose si sono complicate a vista d'occhio. Quei bastardi stanno cercando qualcosa, qualcuno. E poi quegli esseri volanti non ci stanno dando per niente vita facile, mietendo più vittime di quanto dovrebbero; non solo il bestiame, ma anche uomini. Le persone sono spaventate.»

Trattenni il fiato al pensiero di ciò che il popolo era costretto a sopportare mentre noi Sovvertitori restavamo al sicuro, a prepararci, a capirci e a bere al Borgo; capii che Zenda, Asery, ogni istruttore avesse ragione, non avevamo tempo e quello che stavamo attendendo per essere pronti, metteva a rischio sempre più vite e dava maggiori possibilità a Victor di accrescere il suo potere e seminare terrore nel suo regno. Il terrore piegava le persone, almeno la maggior parte di loro. Non potevamo lasciare che accadesse.

«Cerchiamo di contenere le minacce, Custodi o mostri che siano, ma siamo in pochi. Forse la Seconda Divisione dovrebbe far ritorno», azzardò l'uomo di nome Polgrim, mentre gli altri due se ne restavano immobili. Sovrappensiero, chiedendomi cosa fosse la ''Seconda Divisione'', notai la nuca di Kenneth che si muoveva in segno di diniego, per poi prendere parola.

«Ce la caviamo. Quando le cose si metteranno male, li riporteremo qui», rispose, secco, interrotto poi dall'altro.

«Male? Le cose si sono messe molto peggio. Quei cosi divorano le persone!» ribadì, agitandosi ma mantenendo comunque un tono di voce controllato.

E in quel momento, timorosa di vedere la situazione precipitare - e probabilmente facendo una delle mie tante assurdità -, intervenni senza il consenso di nessuno. «Sapresti dirci qualcosa in più riguardo queste creature? Ci stiamo attivando per poterle studiare da vicino, per capire cos'è che vogliono davvero.»

Polgrim portò bruscamente i suoi occhi neri su di me, scrutandomi con sufficienza e chiedendosi, forse, chi diavolo fossi per intromettermi in quel discorso, mentre i suoi disciplinati tirapiedi si limitavano al silenzio e ad occhiate furtive.

Anche Kenneth si volse verso di me, guardandomi da sopra la sua spalla. Il mio sguardo, invece, restò in quello dell'uomo di fronte a me; era meno minaccioso e sospetto del suo, più tranquillo. Doveva fidarsi anche di me, io facevo parte dell'Ordine.

«Io ti conosco», disse, sorprendendomi e provocandomi un leggero cipiglio. «Tu sei la ragazza che Lord Victor sta cercando, quella sulla cui testa c'è una taglia proficua.»

Istintivamente il mio corpo si ritrasse leggermente, pur restando fermo dov'era. Per un attimo mi venne il dubbio di poter essere svenduta a Victor proprio da coloro che dovevano essere nostri alleati. Poi sollevai il mento e annuii, non avendo nulla da nascondere o temere, né tantomeno bisognosa di darmela a gambe dalla parte opposta, com'ero sempre stata solita fare.

L'altro continuò a fissarmi, esaminandomi da capo a piedi; forse non si aspettava tanto tormento per una ragazzina discretamente esile come me.

«E vuoi davvero aiutare noi? Non hai il minimo desiderio di sedere su un trono, insieme ai tuoi simili?»

Non ci trovai nulla di offensivo nel suo modo di parlare. Non mi stava discriminando, si stava accertando della mia fedeltà, mettendomi davanti tutto ciò che avrei potuto avere se avessi scelto il lato oscuro dei due fronti che si erano venuti a creare. «Io e Victor non abbiamo nulla che ci accomuna, il mio unico desiderio è quello di vederlo crollare insieme al suo esercito di assassini e ai sogni macabri di grandezza che non ho intenzione di lasciargli conseguire, fosse l'ultima cosa che mi impegno a fare.»

Ci fu qualche istante di silenzio nell'aria pesante ed opprimente, dopodiché, con flemma, Polgrim accennò una riverenza col capo, seguito poi dai suoi compagni. «Puoi contare sul nostro appoggio, figlia di Eritrea. Ti seguiremo.»

Mi sbalordì il modo in cui degli uomini adulti, che avevano visto più brutalità di quanto fosse lecito, palesassero del rispetto nei confronti di una ragazza, semplicemente per ciò che rappresentava e per ciò che era. Mi si gonfiò il petto d'orgoglio e le spalle mi si caricarono ulteriormente di responsabilità. Sapevo che quelle persone contavano su di me e non potevo deluderli.

Passammo un'altra manciata di minuti in compagnia del sostegno ai Sovvertitori, durante i quali Polgrim ci informò di qualche dettaglio in più riguardo le bestie minacciose che volavano sulle nostre teste da fin troppo - dettagli che avrei tenuto a mente per il giorno dopo -, e comunicò poi a Kenneth che ben dodici persone aspettavano di essere accolte alla fortezza. Il mio superiore esclamò con vigore che un numero simile era troppo elevato, poiché più numeroso era il gruppo e più il pericolo aumentava. Concordarono sul luogo d'estrazione di quella notte e si salutarono, rivolgendo un altro cenno nella mia direzione, e scomparendo così come erano apparsi.

Tornammo poi da Travis, rimasto in disparte per tutto il tempo, e proprio mentre ci preparavamo a ricongiungerci con Reese e tornare a casa, in quel tardo pomeriggio fin troppo afoso, i miei occhi si soffermarono su una scena rivoltante. Una giovane ragazza dai lunghi capelli del colore del fieno venne strattonata e scaraventata per terra da un'altra donna dalla carnagione scura e la corporatura imponente. La afferrò per i capelli, le urlò qualcosa contro sotto lo sguardo indifferente e distratto dei passanti, dei venditori, di chiunque eccetto del mio. Avanzai, pronta ad intervenire per metter fine a quell'ingiustizia, ma una mano si chiuse con forza intorno al mio braccio, impedendomi di proseguire oltre.

«Non pensarci nemmeno», mi sussurrò con fare intimidatorio Doghly. «Non siamo qui per questo.»

«Ah no?» chiesi, per niente spaventata dal suo modo di fare. «Da quando non aiutare qualcuno in difficoltà non fa parte dei piani dei Sovvertitori, Kenneth?»

Il mio sguardo duro era puntato nel suo altrettanto forte; avevo intenzione di fargli capire che i suoi modi di fare e di parlare con me non attaccavano. Né con nessun altro. «Sai cosa puoi scatenare, aiutando quella ragazza? Richiamerai l'attenzione e finiremo nei casini. Non ho intenzione di mettermi in mezzo per salvare il tuo culo», mi disse a denti stretti, aumentando sempre di più la stretta delle dita sulla mia carne.

«Sapevo cavarmela ancor prima di sapere chi fossi, ancor prima di riuscire a maneggiare una spada, per cui saprò cavarmela anche adesso», scandii ogni parola ad un palmo dal suo viso, dopodiché, con uno strattone, mi liberai dalle sue mani su di me, avviandomi poi verso il mio obiettivo.

Quando mi fermai con fare noncurante al banco di vasi antichi, la donna robusta stava colpendo la ragazza proprio sulla testa, una, due, tre, quattro volte. Così forte che mi parve di sentire un dolore acuto proprio dove la giovane stava ricevendo quelle offese pubbliche.

«Non osare mai più rivolgerti a me in questo modo, stupida serva!» gridò come ultima cosa, preceduta da una cascata di insulti, e senza neanche aiutare quella poverina, si dileguò, invogliandola soltanto a parole ad alzarsi e a smetterla di rendersi ridicola.

«Mi dispiace, dama Magda, le prometto che non ricapiterà più», la voce di lei era chiara, innocente, mortificata.

Sentivo il petto andarmi in fiamme per l'impossibilità di poter far cessare quelle atrocità, ma tentai comunque di mantenere il controllo e approfittai del momento per avvicinarmi e offrirle il mio aiuto. Lei, probabilmente sorpresa, afferrò la mia mano e tentò di frenare le lacrime che le rigavano il viso delicato, ornato da grandi occhi verdi e dalle gote piene e alte. L'aiutai a rimettersi in piedi, rivolgendole un lieve sorriso, e dosai le parole giuste da dire. «Sono davvero spiacente per ciò a cui ho dovuto assistere, lo sono davvero.»

«Non deve, signora, è stata una mia mancanza di rispetto: ho posto una domanda in modo indelicato e questa è stata la mia punizione», mi spiegò, asciugandosi dapprima il viso, e poi ripulendo i suoi vestiti larghi e sciatti, e leggermente sporchi.

«No, non credo che sia così. Come ti chiami?»

«Daphne», sussurrò, tirando su col naso. 

«Servi quella donna, non è vero? Se posso, non trovo giusto che tu debba sopportare queste ingiurie, meriteresti una vita migliore. Una vita libera», azzardai, soppesando il suoi occhi curiosi e carichi di pianto. «Sono Sage, prima vivevo come te, all'incirca, poi sono stata salvata. C'è un luogo in cui potresti rifugiarti, un posto in cui non ti si chiede di servire, ma di vivere al meglio, come dovresti. Se volessi unirti a noi...», cercai di andare avanti con il mio discorso, ma la giovane prese a scuotere la testa con vigore, allontanandosi poco a poco dalla mia figura.

«Il mio posto è qui, la mia casa è qui. Non so chi tu sia, e non voglio saperlo. Non posso lasciarla, non avrei dove andare.»

«Ma ce l'avresti», rincarai la dose, mentre lei continuava a mantenere la distanza tra noi, diffidente. «Se vuoi che ti spieghi tutto, fatti trovar...»

«No!» il suo tono di voce si alzò, dando ai passanti qualcosa di sospetto su cui concentrarsi; un'incappucciata e una serva sulla difensiva. Pessima combinazione.

«Non so chi tu sia, e non voglio sapere di nessun luogo in cui trovare salvezza. Per persone come me, non c'è salvezza. E' questa l'unica vita a cui posso aspirare.»

Il significato delle sue parole mi tagliò in due molto più di quanto avrebbe fatto una spada. Quella ragazza era perduta, non vi era più speranza in lei.

Se ne tornò di corsa dalla sua ''padrona'', lasciando a me una vera e propria tristezza e amarezza nel cuore. Avevo perso, Victor aveva vinto. Era questo il mondo che voleva, pensai: arreso, sconfitto.

Kenneth si guardò intorno poco prima di osservare me, accusandomi silenziosamente di aver fatto una sciocchezza. Guardare i tratti marcati del suo viso, gli occhi vagamente allungati, mi ricordò del suo gesto e dell'aggressività avuta nei miei riguardi.

«Non azzardarti più a toccarmi, non ci sarà un secondo avvertimento», esclamai sotto lo sguardo sbigottito di Travis e quello impassibile di Doghly. E così, ci rimettemmo in marcia, il mio istruttore poco dietro di me.

«C'è chi non vuole essere salvato, Sage», lo sentii mormorare, ripetere inconsapevolmente la stessa frase che Hunter mi aveva rivolto qualche tempo prima. «Non puoi salvare tutti, prima o poi lo capirai anche tu», e per la prima volta, fui costretta a dargli ragione.

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