10. Grinta, soldato!
HUNTER
Otto giorni dopo la grande scoperta, tutto era rimasto così com'era sempre stato.
L'avevo immaginato in modo diverso, ad essere sincero. Chi non fremeva all'idea di poter trovare qualcosa che riuscisse a dare speranza alla nostra causa dopo un periodo così lungo di ricerche? A quanto pare chiunque. L'unica persona che sembrava sollevata da quella nuova ero io; addirittura Sage non pareva esserne affatto felice.
Per lei era pressappoco comprensibile: venire a conoscenza di una parte del proprio essere, che prima non si supponeva neanche potesse esistere, era indubbiamente difficile. Un bel boccone da dover mandare giù, dovevo ammetterlo, ma restava comunque motivo di gioia. E invece no, era tutto alla rovescia.
La voce si era sparsa e i ragazzi erano tornati al punto di partenza, emarginando velatamente la nuova arrivata ancora una volta - eccezion fatta per pochi -, spaventati dalle sue ormai svelate capacità. Laryngard era scontento di non aver ottenuto altri risultati se non la possibilità di svegliare una dei sette figli dal suo stato di semi coscienza, e anche Asery continuava a lamentarsi del rendimento della giovane ragazza, affermando che era troppo distratta per potersi veramente concentrare, e lei non aveva bisogno di un'altra morte certa sul campo di battaglia. Come darle torto? Sage, dopo la contentezza iniziale, era cambiata: era dimagrita e pareva non riuscire più a dormire, stando ai resoconti di Travis. Si svegliava di soprassalto più volte durante la notte e questo significava arrivare già stanchi all'allenamento, che a sua volta voleva dire nessun miglioramento, anzi, un regresso totale. Lo avevo notato anch'io, così dopo aver chiarito i motivi per cui mi aveva mentito (pizzicava ancora un po' al fianco quella questione), avevamo trovato nuovamente un equilibrio che mi aveva permesso di chiederle che cosa non andasse.
«Sono solo molto stanca», aveva detto, ed era del tutto naturale che lo fosse. «Sai, con l'addestramento fisico e mentale... ma sapevo che sarebbe andata in questo modo, per cui devo solo abituarmi ai ritmi.»
«Questo è ovvio, ma devi cercare di non perdere la concentrazione. Quando sei con il corpo in palestra, voglio che tu sia lì anche con la mente. E viceversa quando si tratta delle tue abilità», avevo risposto io, severo.
Probabilmente era dura tener fede ai differenti impegni presi, ma non aveva molta scelta, doveva portare entrambe le cose al termine senza distrarsi o confonderle tra loro. Travis, l'unico che pareva non temerla, mi aveva riferito di essere discretamente preoccupato per le notti turbolente dell'amica, soprattutto perché lei non voleva parlarne. Io non ero minimamente angustiato al riguardo, invece. Da quando la ragazza aveva scoperto una nuova parte di sé, aveva sempre avuto un sonno poco tranquillo. Era sempre stata in mia compagnia e io l'avevo sempre osservata mentre dormiva. E non era la sola ad essere tormentata dagli incubi. Vi era addirittura chi aveva smesso di provare ad avere un riposo quieto, restando sveglio la maggior parte della notte, ad esempio. Dormire, per me, ormai era opinabile.
Scossi il capo liberando la mente da tutti quei pensieri e focalizzai l'attenzione sull'addestramento dei ragazzi.
«Tutti pronti?» gridò Asery qualche metro lontana da me.
Gli allievi stavano allenando la propria forza fisica attraverso l'arrampicata su corde. Avrebbero dovuto arrampicarsi e restare sospesi, cambiare corda a comando e arrivare in cima prima dei compagni. Era una sfida ad eliminazioni ma non erano ammessi colpi inferti agli avversari, come pugni e calci che avevano appreso e su cui si erano esercitati parecchio.
«Ricordate le regole di questo esercizio», ripeté l'istruttrice dagli occhi di ghiaccio. «Se toccate il suolo, siete fuori. Se colpite uno dei vostri compagni, siete fuori. Se agite prima del segnale, siete fuori.»
In quel momento mi si affiancò Irina Madden, falsamente mansueta, a braccia conserte. Irina era con noi da più di qualche anno, forse cinque o sei, e nonostante il suo carattere complesso e molto spesso altezzoso, era considerata dal sottoscritto una delle migliori Sovvertitrici; non eccelleva nella lotta corpo a corpo, ma era un'impeccabile arciere ed era dotata di un'intelligenza ed un intuito formidabili. Era anche una delle donne con cui mi era più facile parlare, probabilmente perché legati da esperienze e personalità simili.
«Ai posti...», disse ancora Asery, fermandosi per qualche istante. «Partite!»
I ragazzi si affrettarono ad assicurarsi una spessa corda ciascuno; i più veloci si issarono con l'aiuto delle mani e dei piedi, e restarono sospesi fino all'arrivo degli altri compagni. Stavano aspettando il segnale.
«Cambio!»
E tutti balzarono all'unisono verso la corda vicina, a circa un metro e mezzo di distanza. Sedici ci riuscirono, gli altri quattro finirono brutalmente al suolo.
Sage, che non sembrava faticare per mantenersi in equilibrio, pareva quasi avere la testa altrove in certi momenti. Osservai lei, nello specifico, finché Asery non urlò ancora ''in alto!'', segno che i ragazzi avrebbero dovuto scalare un'altra quantità di corda. Sage si issò ma poi si bloccò di colpo, mosse la testa impercettibilmente e perse la presa sul suo appiglio, finendo insieme agli altri fuori dalla competizione.
Sospirai abbattuto e strinsi le labbra. Che cosa le prendeva? All'inizio sembrava determinata e concentrata in tutto ciò che faceva. L'impegno c'era sempre stato nei primi giorni, mentre adesso era totalmente sparito.
Irina emise uno sbuffo di scherno poco prima di parlare. «Avrà vita breve fuori da queste mura.»
Feci per replicare ma Asery mi batté sul tempo, avvicinandosi a noi. «Ha ragione», disse guardandomi, preoccupata. «E' completamente assente. Sembra quasi l'abbiano costretta a stare qui.»
Sospirai - ancora - rumorosamente in un gesto nervoso, e osservai in lontananza la giovane che si sollevava dal terreno, tenendosi il braccio sinistro, e posizionandosi a lato della sala.
«Io credo soltanto che non sia tagliata per queste cose. Guardatela!» sentenziò Irina, con il suo solito tono superbo. «E' così gracile. Potrebbe spezzarsi da un momento all'altro proprio sotto i nostri occhi!»
«Non hai un allenamento da fare? Oggi dovrebbe essere la giornata del corpo a corpo. E' per questo che sei qui a perdere tempo?» assestai correttamente quel colpo di spada formato da una lama di parole. Sapevo che nervi toccare con lei, specie quando il suo lato arrogante prevaleva. Difatti, si dileguò silenziosamente, non prima di avermi lanciato un'occhiataccia di fuoco.
«Sai che però non ha tutti i torti», sussurrò la mia collega, insistendo sull'andamento di Sage. Quella storia durava da giorni, ormai.
«Vado a parlarci io», tagliai corto, stufo di quelle continue lamentele.
Lei, seduta a terra, mi vide arrivare, si passò il dorso della mano sulla fronte sudata e tornò a tenersi il braccio dolorante.
«Ciao», mormorò col fiato corto per la stanchezza.
«Allora, mi dirai una volta per tutte che succede?»
«Non è nulla», fece lei sollevando l'arto, e mi fu difficile capire se fingesse di non comprendere oppure no. «Solo un lieve dolore, mi comparirà un ulteriore livido.»
«No, Sage. Non parlo del tuo braccio», mi calai alla sua altezza, poggiando il peso sulle gambe. «Intendevo dire che succede con i tuoi allenamenti, con il tuo impegno iniziale. Sei da tutt'altra parte e questo non giova a te e neanche a tutti gli altri, te l'ho già spiegato.»
La ragazza dai lunghi capelli castani scrollò le spalle con noncuranza, lo sguardo perso di fronte a sé. «Credevo fosse più semplice di così. E'... dura.»
«Questo non ti giustifica a mollare la presa proprio adesso che ce l'hai ben salda tra le mani», le ricordai, nel caso avesse scordato che era già andata oltre. Aveva scoperto una parte di sé che non conosceva e l'aveva accettata, dove diavolo era il problema? Ma poi mi posi un interrogativo importante: fosse esattamente quello il vero problema?
Le poggiai una mano sulla spalla, cercando di essere gentile nonostante non primeggiassi per cortesia. «Sei sicura che sia soltanto questo ciò che ti blocca?»
Puntò i suoi enormi occhi verdi dentro i miei, gli stessi occhi che mi avevano tanto incuriosito sin dalla prima volta che li avevo visti, consapevole e sicuro che celassero più di quanto in realtà lasciavano trapelare. La sua espressione si fece indecifrabile, sorprendendomi. Ciò che Sage non era in grado di fare, anche se sicuramente era convinta del contrario, era nascondere le sue emozioni.
Mi ritrovai ad osservare le occhiaie scure che le segnavano il viso che stonavano sulla sua carnagione chiara, in attesa di una sua risposta che sembrava non voler arrivare. Inspirò con la bocca semi aperta e le guance le si infossarono di più, mostrando gli effetti del suo sfiancamento.
«Ascolta, io devo preoccuparmi di ciò che ti succede. E' uno dei miei compiti basilari stare attento a quello che vi accade. Devo in qualche modo prendermi cura di voi, non solo nel corpo ma anche nello spirito e nella mente; sono la vostra guida», avevo fatto discorsi del genere tante volte perché la storia continuava a ripetersi: ad un certo punto, ogni mio allievo aveva una sorta di crollo psicofisico. E io non potevo permetterlo. Eravamo una catena, indissolubilmente legati gli uni agli altri, per questo era importante che ogni anello fosse ben unito con il proprio gemello. Era sufficiente cedere ad un'insignificante debolezza per portare tutti a fondo.
Grande rilievo, tuttavia, aveva il fatto che Sage, suo malgrado, non fosse affatto come tutti gli altri e per questo aveva bisogno di un ''trattamento speciale'', anche se lo rifiutava con tutte le sue forze. Se si fosse lasciata schiacciare dalle sue paure, non solo avrebbe trascinato con sé il suo stesso Ordine, ma avrebbe annientato ogni tipo di possibilità di salvezza per tutto il Terzo Humus.
«Cos'è che ti tiene la testa occupata, dunque?»
Lei scrollò ancora le spalle, calando lo sguardo com'era solita fare quando era in imbarazzo. Che cosa le succedeva? Avrei preferito che fosse lei a parlarmene, senza farsi cavare le parole di bocca come se fosse stata una bambina.
«Credo sia... sai», farfugliò, muovendo le dita circolarmente e indicando la propria testa, «questa cosa a tenermi occupata più di quanto vorrei.»
«Ti provoca dolore, fastidio? Hai provato a parlarne con Laryngard? Magari lui può darti qualche consiglio su...», feci per continuare ma la voce chiara di Asery chiamò il mio nome, invitandomi a raggiungerla.
«Ci proverò», concluse in fretta Sage, innalzandosi dal pavimento. «Ha vinto Hussain a quanto pare», esclamò poi, affiancandomi mentre mi dirigevo verso tutto il gruppo riunito intorno alla propria insegnante.
«Probabilmente Travis non glielo perdonerà mai», replicai, vagamente divertito al pensiero del giovane estremamente dotato e ambizioso, e molto permaloso. La udii ridacchiare sommessamente in risposta alla mia battuta e istintivamente sollevai l'angolo della bocca per una frazione di secondo. La ragazzina sembrava capire il mio insolito senso dell'umorismo.
«Abbiamo un vincitore, allora», dissi osservando dapprima la mia compagna e poi Hussain. «Scommetto che sarai curioso di riscuotere il tuo premio. Ebbene, flessioni e trazioni alla sbarra per tutti. Dopodiché, nel pomeriggio, passeremo al famigerato corpo a corpo, non prima di aver appreso le varie schivate e parate.»
Battei forte le mani in un colpo secco e invitai il gruppo a darsi una mossa.
Durante gli esercizi, mentre osservavo ogni movimento dei miei allievi, Kenneth fece il suo ingresso, la postura da sbruffone come di consuetudine. Ricordai a me stesso di non dare peso alla parole inutili di quell'idiota, consiglio che spesso Asery mi dava e che io, puntualmente, non riuscivo mai a seguire.
«Quando questa carne fresca sarà pronta per fare sul serio?» chiese, posizionandosi accanto a me e sfregando le proprie mani l'una contro l'altra.
«Assolutamente non ora», dissi, prendendo a camminare tra le file di ragazzi. Sperai di poter concludere lì la nostra conversazione, ma Kenneth doveva pensarla diversamente poiché mi restò inchiodato al sedere.
«Pensavo ci volesse meno di così», sbuffò dietro di me, seccandomi.
«Purtroppo ti toccherà aspettare. Salina, voglio i piedi uniti per queste flessioni!»
«Non che sia così entusiasta di insegnare a questi zotici come premere un misero grilletto. Mi farebbe piacere aspettare ancora, ma non credo che i Custodi siano della mia stessa opinione. Mi chiedo come sia possibile che non ci abbiano ancora trovati e attaccati», la sua voce arrivò come un ronzio alle mie orecchie tanto era il fastidio che le sue parole mi provocarono.
Mi voltai a guardarlo, impalato di fronte a lui, muso a muso. «Se non ricordo male, tu eri messo peggio di loro quando sei arrivato qui. Non eri poco più che qualche grammo d'ossa, per cui, fossi in te, doserei meglio i termini da utilizzare.»
Senza considerare il fatto che sei un totale inetto anche se sai come sparare, mi sarebbe piaciuto aggiungere, ma per ovvi motivi dovetti tenere quei pensieri per me. Era già difficile mantenere una sorta di quieto vivere con lui, e insultarlo di fronte a quelli che erano anche suoi allievi non avrebbe di certo migliorato le cose.
Tornai ad ignorarlo, serrando la mascella per calmare i miei nervi tesi. Mi augurai che afferrasse il gesto e si levasse di torno, ma lo sentii nuovamente più vicino.
«Goditi questa misera e relativa parte di potere finché dura, Hunter Montraei», grugnì silenziosamente con un tono ostile ed intimidatorio.
Il braccio destro ebbe un fremito mentre stringevo il pugno, bramoso di colpirlo dritto al viso con quanta più forza fossi capace di utilizzare.
Ma lui si dileguò e la rabbia scivolò via lentamente, lasciando però un malumore non indifferente che non sarebbe andato via con semplicità. Quella giornata si preannunciava difficile, molto difficile.
Durante il pranzo mi fu detto di recarmi quanto prima nelle camerate di Laryngard; era urgente e il Maestro aveva bisogno di discutere con me. Chiesi mentalmente a me stesso cosa potesse richiedere una tale impellenza, ricordandomi poi della questione Sage. L'anziano mi chiedeva spesso come andasse la vita quotidiana della ragazza all'interno della nostra fortezza e, qualche volta, si preoccupava anche del rapporto tra me e lei. Sapevo di dover essere io a seguirla, lui mi aveva affidato quel compito perché affermava di potersi fidare per davvero soltanto del sottoscritto. Era un onore per me, ma anche un grande peso da portare. L'inizio era stato duro soprattutto per il caratterino di Sage che metteva alla prova la mia già precaria pazienza, ma poi avevo compreso che tutto il nostro operato era per una buona causa, un bene superiore. E conoscendo meglio quella ragazzina ero riuscito a ricredermi sul suo conto: non era poi così male, andava solo capita.
Attraversando i lunghi corridoi dell'antica fortezza, luogo sicuro per così tante persone, avvertii un leggero peso sullo sterno, una sorta d'ansia malsana e inspiegabile. La medesima sensazione negativa vi si presentò di fronte la camerata chiusa di Laryngard. Ignorai qualsiasi cosa fosse e lasciai dei leggeri colpetti contro il legno, dopodiché girai la maniglia e aprii con calma porta.
Con mia sorpresa, comoda sulla sedia accanto allo scrittoio, vi era una chioma scura e lunga, quella inconfondibile di Zenda. Mi crucciai per una frazione di secondo nel vederla lì, domandandomi ancora una volta quale fosse la questione che Laryngard aveva bisogno di chiarire con lei presente. E lei, stranamente, non si voltò a guardarmi entrare.
«Vieni, Hunter. Accomodati», Laryngard, posto di fronte alla Sovvertitrice, mosse una mano, invitandomi ad avanzare.
«Che sta succedendo?» chiesi senza girarci troppo intorno e prendendo posto accanto alla mia compagna d'Ordine. Solo allora lei si voltò a guardarmi, una luce negli occhi troppo seria rispetto al solito; decisa, diversa.
«Nulla di grave, tranquillo», rispose lui, agitando ancora la mano in un gesto vago.
D'un tratto, Zenda poggiò il gomito sul legno e si sporse per guardarmi negli occhi. «Arriviamo al punto: credo che dovremmo scegliere accuratamente le persone da inserire in una squadra operativa, e lasciare fuori chi non va bene per questo compito.»
«Che cosa? Da quando ci lasciamo indietro qualcuno con un apprendimento più lento rispetto agli altri?»
Mi resi conto di aver alzato la voce per lo sconcerto, il volto in una maschera di confusione. Cos'era quella stronzata, adesso?
«Da quando non abbiamo più tempo per addestrare tutti. Abbiamo i Custodi, Victor e adesso quegli strani mostri neri alle calcagna e non credo che si ritireranno se diciamo loro di non avere ancora un esercito pronto», le gote di Zenda le si tinsero per l'enfasi utilizzata nel parlare. Era arrabbiata, ma non ero ancora riuscito a capirne il motivo effettivo.
«Tu l'appoggi?» mi voltai verso Laryngard, confuso. Lui non era assolutamente una persona che agiva in quel modo. Senza aspettare una risposta, riportai lo sguardo su Zenda e le chiesi: «E avresti già una lista delle persone a cui dovrai dire che non saranno più ben accette e che tutti i loro sforzi sono stati vani? Il discorso che mi prodigo a fare ad ogni nuovo gruppo di allievi non è un cumulo di stronzate», ringhiai, la rabbia che minacciava di sovrastarmi. «Queste persone vengono qui per riscattarsi. Lo sai anche tu, lo sappiamo tutti: è il motivo per il quale anche noi due siamo qui! Che cosa possono fare se non apprendere come combattere e iniziare una nuova vita, con un vero obiettivo?»
«Io non sto parlando di rimandarli in mezzo ad una strada, sto dicendo che possono aiutare in modi diversi da questo!» mi spiegò, a voce alta e furente, mentre con le dita affusolate spostava una ciocca di capelli ondulati dietro la spalla. Mi vergognai di essere protagonista di quella patetica sceneggiata, specie di fronte alla guida di tutti, colui che per me era degno di grande stima.
E così, muso a muso con la donna dalla pelle scura che conoscevo bene, parlai piano, un tono di voce quasi gutturale. Ero al limite della sopportazione. «Di che cosa stai parlando precisamente, Zenda? Chi vuoi sbattere fuori?»
Fece una pausa durante la quale il suo sguardo vagò in direzione di Laryngard, cercando aiuto o qualche sorta di appoggio. Alla fine, sollevò le spalle tentando di assumere una postura fiera e sicura, allontanandosi impercettibilmente da me.
«Sicuramente, in cima alla lista vi è il nome di Sage», mormorò lievemente e trasalì quando io mi issai dalla sedia, non prima di aver sbattuto il palmo della mia mano sulla scrivania di Laryngard. «Sarebbe anche un modo per non deconcentrarla dalla vera ragione per cui è qui!»
«Stai scherzando? Ti sei completamente bevuta il cervello?» mi fu impossibile trattenermi ed abbassare la voce, perso nella furia di dover stare ad ascoltare quelle fesserie.
«Pregherei entrambi di moderarvi», ci rimproverò l'anziano, arrecandomi un'occhiata loquace.
Mi passai la mano sul viso, sfiorando l'accenno di barba che stava crescendo, irritato e fuori di me. «Tu ti rendi conto che hai scelto la persona meno adatta da tagliare fuori?»
«Ho soltanto scelto chi non ci ha dato alcun tipo di risultato nell'arco di dieci giorni.»
«Il tuo problema è che non pensi alle conseguenze, Zenda! Per le sue potenzialità e per l'importanza che ha per noi, ma soprattutto per Victor, senza una base solida di difesa personale, verrebbe catturata in un nulla, o peggio», tentai di farle capire, senza troppi risultati.
«Può utilizzare il suo potere per difendersi. E' un danno per se stessa e rallenta gli altri!» ma l'espressione tradiva le sue parole; i tratti del suo viso erano tirati, come se si sforzasse di apparire solida di fronte ai due uomini nella stanza.
«Ma se è a malapena capace di utilizzarlo!»
«E allora mi chiedo cosa diavolo ci faccia ancora qui!»
Laryngard voltò il capo di scatto verso di lei, palesemente arrabbiato dall'ultima affermazione della Sovvertitrice. «Zenda! Non esagerare!»
Quest'ultima si alzò di fretta - per quanto la gamba malandata potesse permetterle - e, continuando a portare rispetto, replicò. «Non è forse vero, per voi due? Sage è debole, non riesce nemmeno a reggersi su una dannata corda e tu lo sai», disse indicandomi e facendo riferimento all'episodio di quella mattina. «Non può stare con noi sul campo di battaglia. Resterà qui e, se e quando riuscirà a capirci qualcosa della sua stramba stregoneria, ne riparleremo. Non dà risultati utili nemmeno in ciò per cui è entrata a far parte dei Sovvertitori.»
Non potevo credere che Zenda non riuscisse a lasciare da parte l'avversione sfacciata che aveva per quella ragazza; sembrava essere pronta a tutto pur di togliersela di torno. La parte veramente grave era che lei non se ne rendeva neanche conto, era convintissima di aver ragione a voler cacciare Sage.
«E questo lo stai dicendo perché tieni all'incolumità della squadra oppure per l'antipatia infondata che provi nei confronti di una ragazzina?» punsi sul suo nervo scoperto con tranquillità, ormai consapevole del gioco a cui stava giocando.
«Oh, ma per favore!» sbraitò lei mentre tornava a sedersi, provocandomi così un sorriso soddisfatto che non manifestai all'esterno. Il viso dello spettatore di quella commedia si fece pensieroso, e capii che la discussione poteva essere chiusa. L'appoggio di Laryngard era caduto, e Zenda poteva soltanto accettare quella che considerava una nemica.
«Lei resterà e farà progressi per entrambe le cose, le serve solo un po' più di tempo. Credi che sia semplice attraversare un periodo di transizione come il suo?»
«Ci siamo passati tutti, Hunter. Risparmiaci queste stronzate», ruggì a denti stretti l'altra.
«Ma tu sei una persona normale, Zenda! Non sei come lei!»
E così dicendo, riuscii a zittirla per qualche istante. La scrutai mentre utilizzava il suo solito sguardo di quando provava a scavare tra i miei pensieri, la maggior parte delle volte fallendo miseramente.
Incrociò le braccia sotto al seno prosperoso e strinse lievemente gli occhi a fessura. «Accusi me di provare un'antipatia infondata, ma la tua ossessione, invece? Hunter ha trovato un nuovo giocattolino?»
Mi sfuggii il significato di quella provocazione, non riuscivo a comprendere se fosse gelosa del tempo che passavo con Sage o della ragazza stessa, della sua presenza. Ma non doveva azzardarsi a sminuire la mia professionalità o addirittura farla passare per altro, soprattutto non davanti a Laryngard.
Assunsi il tono più freddo, distante e glaciale che avessi e puntai lo sguardo nei suoi occhi completamente neri. «Lei è uno strumento, e come tale va utilizzato. Ha il suo posto in tutto questo e deve essere rispettato, mantenuto senza apportare alcuna modifica, specie se il motivo è ciò che accade al di fuori dal conflitto.»
Quando la mia bocca si chiuse, il cigolio della porta fu l'unica cosa che si udì nella stanza, ormai piombata nel silenzio assoluto. Sull'uscio vi era Sage, la mano sulla maniglia e il viso pallido, che guardava dritta davanti a sé; guardava Laryngard.
Gli istanti di falsa quiete iniziarono a diventare pesanti macigni che involontariamente ero stato costretto a portare sulle spalle. Analizzai il viso di lei e mi chiesi se avesse sentito ciò che avevo detto, mi domandai con una disperata sete di conoscenza quanto tempo fosse rimasta lì fuori ad ascoltare la discussione. Non avrei mai voluto ferirla, soprattutto perché sapevo bene quanto fosse stato difficile per lei accettare di mettersi in gioco, rischiando di essere giudicata per ciò che era.
«Perdonami, Laryngard... la porta era aperta e...», la voce, già ridotta ad un sussurro labile, le si bloccò e non ci fu nessun bisogno di chiedere, né di ricevere un suo sguardo. Aveva udito tutto e ne era rimasta ferita. E io ne ero consapevole.
«Non pensavo fossi occupato, passerò più tardi», si affrettò timidamente a fuggire da quella imbarazzante situazione, ma senza perdere il suo orgoglio tenuto alto dal mento all'insù.
«Sage, resta. Noi qui avevamo finito», le disse Laryngard, sistemandosi la tunica grigio chiaro.
«Non preoccuparti, davvero», si scusò e fui convinto che stesse per andarsene, ma poi il suo sguardo indugiò su Zenda, che intanto si era chiusa nel suo mutismo. «Volevo solo parlare della mia stramba abilità, erroneamente confusa per stregoneria o altre cose simili che solo una persona normale può andare a pensare», e questa volta l'oggetto della sua occhiata accusatoria fui io. Nonostante fossi un pezzo di marmo all'esterno, dentro avvertivo una punta di colpevolezza gravarmi sul petto.
Sage sfoggiò un sorriso amaro, ferito e soddisfatto al contempo. «Passerò dopo gli allenamenti. Ogni strumento ha bisogno di rinforzarsi per misurare la sua indistruttibilità.»
Lo trovai esagerato. Tentava di farmi vergognare per averla giudicata? Non poteva sapere i motivi che mi avevano spinto a parlare in quel modo. Tuttavia, nonostante il ragionamento che stavo tentando di usare a mia difesa, non riuscii a sostenere il suo sguardo e fui costretto a voltarmi velocemente verso la strana struttura a punta sullo scrittoio.
Qualche secondo dopo, quando ritrovai il coraggio di voltarmi, lei non c'era più. E io non feci altro che restarmene dietro il mio scudo d'indifferenza protettivo. Se lei stessa auspicava che le corressi dietro per chiederle perdono, si sbagliava di grosso.
Nella sezione pomeridiana delle lezioni, il mio umore era molto più che semplicemente nero. Non solo ero infastidito dal modo in cui Zenda aveva quasi tentato di sabotarmi, ma ce l'avevo con lei anche per avermi portato al limite, distruggendo ogni passo avanti fatto con la difficile Sage. E con quest'ultima, invece, ero collerico per aver assistito al suo comportamento da immatura. Ma non era del tutto vero. Se qualcuno mi avesse costretto ad essere sincero, specialmente con me stesso, avrei dovuto ammettere che il rancore che sentivo nei confronti di quella ragazzina era dovuto al senso di colpa che mi aveva provocato: mi sentivo quasi obbligato a doverle dare delle spiegazioni.
Non l'avrei mai fatto, almeno non per il momento. Non mentre era intenta ad allenarsi e a sciogliere i muscoli con tutti gli altri, non davanti ad occhi indiscreti.
«Ti verrà una paralisi se continui a stringere la mascella in quel modo», scherzò Asery, avanzando verso di me. Nonostante la battuta scherzosa - che purtroppo non mi fece ridere -, tutto di lei trasudava preoccupazione. Convivevo con la maggior parte di quelle persone da tutta la vita e mi conoscevano discretamente bene, per cui era risaputo che ogni qualvolta che il mio umore aveva un calo, tendevo ad essere irascibile. E se diventavo irascibile, potevo diventare una vera piaga per tutti, soprattutto per me stesso.
«Che cosa è successo con Laryngard?» chiese e incrociò le braccia sotto il seno, imitando la mia posizione.
Spostai lo sguardo a destra, verso l'altra fila di allievi impiegati con le trazioni. «Niente che non fossi in grado di gestire», esclamai, gli occhi lontani da quelli color ghiaccio della mia compagna.
«Non sembri averlo fatto nel modo giusto se continui ad avere la stessa espressione di uno a cui è stata appena strappata la lingua», si lamentò lei, mantenendo sempre la sua celatissima vena ironica. «Come va il braccio? Ce la fai con le dimostrazioni?»
Annuii, più che sicuro di ciò che stavo affermando. «Il braccio sta benone. Spero solo che siano tutti pronti», nonostante mi costasse ammetterlo, quell'imbecille di Doghly aveva ragione, dovevamo sbrigarci. Ora che Victor sapeva dell'esistenza di Sage avrebbe smosso mari e monti pur di trovarla, e non si sarebbe arreso finché non fosse riuscito a catturarla.
Asery concordò silenziosamente con me muovendo appena il capo. «Soprattutto quella cosetta piccolina laggiù. Sta dando risultati nelle lezioni di altro tipo?»
Restò in attesa di una risposta, ma non ci fu bisogno di parole poiché la mia espressione fu abbondantemente chiara. Ciò fece strabuzzare gli occhi quasi bianchi di Asery, in preda allo stupore. «Non riesce a fare neanche ciò per cui dovrebbe essere portata?»
«Non ti ci mettere anche tu!»
«Dovresti usare il pugno di ferro con lei, quello che riesce a farla fare addosso anche a Kenneth.»
«No», sbottai all'ennesima proposta assurda della giornata. «Non è la rabbia che l'accenderà. Si ribellerebbe e basta perché è nella sua natura.»
Lei sbuffò in tutta risposta. «E allora trova un altro modo, non possiamo aspettare che si svegli dal suo bel sonno», mi ordinò, autoritaria. E quando Asery usava quel tono con i suoi stessi amici, voleva dire che era meglio non contraddirla. Spesso riusciva ad essere dura quanto me. «Questa ragazzina ci porterà solamente più problemi», mormorò poi, spostandosi verso il centro della sala.
«Tutti qui, ragazzi», gridò, le mani conserte l'una dentro l'altra. «Ora comincia una nuova fase dell'addestramento: tutto ciò che state passivamente facendo al sacco, dovrete portarlo nel combattimento a mani nude», cominciò a dire mentre tutto il gruppo si riuniva intorno a lei, me compreso.
«Sarà importante sviluppare i riflessi, apprendere le diverse schivate e parate, e il modo corretto di sferrare un pugno. Io ed Hunter vi daremo delle brevi dimostrazioni pratiche seguite poi dalle spiegazioni tecniche più articolate ad ogni nuovo movimento che incontreremo», continuò, facendo cenno di avvicinarmi a lei.
«La nozione da tenere sempre a mente è che in allenamento bisogna essere realistici. Non sto parlando di aggressività e violenza, quantomeno non subito, ma è necessario dare all'altro la sensazione di star ricevendo un colpo per davvero, per abituarlo a rispondere con una schivata, una parata e quant'altro. Stimolo visivo per una risposta, ricordatelo», cercai di essere il più chiaro possibile su quel punto fondamentale.
Cominciammo mostrando le schivate, posizionandoci l'uno di fronte all'altra: io ed Asery, in posizione di guardia, scrutandoci vicendevolmente, l'espressione vagamente divertita. Ogni movimento veniva accompagnato dalla spiegazione dei diversi tipi di schivate: l'uscita esterna, quella laterale, all'indietro e via dicendo, sempre in rispetto al pugno che arriva.
«Verrà naturale e istintivo retrocedere quando vedrete arrivare un colpo, ma sappiate che, tatticamente parlando, è la peggiore delle scelte che possiate fare per favorire la vostra salvezza in uno scontro. Volontari per una prima prova?», conclusi, facendo poi qualche passo indietro e lasciando spazio a quelli che si sarebbero fatti avanti.
«Non tu, Travis», alzai una mano per fermare il ragazzo, precedendolo prima ancora che potesse offrirsi. Ammiravo le capacità e l'instancabilità di quel giovane, ma doveva imparare a lasciare spazio agli altri quando era necessario.
Dopo qualche istante di silenzio, la voce di Sage spiccò sul parlottio sommesso degli altri. «Lo faccio io», affermò e avanzò sicura, le mani bloccate dietro la schiena e lo sguardo quasi spento, distante da tutto, specialmente da me.
«Bene. Il prossimo?» chiesi, concentrandomi soltanto su ciò che stava per accadere. Dovevo annotare mentalmente i punti forti e deboli di ogni ragazzo per poter aiutarlo nella sua crescita, e tutto il resto andava lasciato fuori da quelle mura, così come dicevo ad ognuno di loro di fare.
«Non abbiamo tutto il giorno», li esortai, facendo schioccare le dita della mano destra in un gesto nervoso. Perché d'improvviso tutto quel timore? Erano solo schivate, dopotutto!
Scambiai un'occhiata fugace con Asery, anche lei incredula quanto me, e poi cercai di scrutare i volti dei presenti, molti di loro con il capo calato. Nel loro sguardo vi era timore, non di farsi male o dell'esercizio in sé, ma di Sage. Mi accigliai, incredulo di star assistendo per davvero ad una scena del genere.
Gli occhi di tutti erano velati di paura e quegli stessi occhi non riuscivano neanche a guardare la causa di quelle preoccupazioni infondate; stavano sbagliando, erano dei fottuti codardi e lo sapevano.
Ma quando osservai il viso pallido di Sage, qualsiasi freno si spezzò, lasciando andare un'ondata violenta di rabbia e di giustizia.
Feci qualche passo pesante verso il gruppo, le braccia lungo i fianchi duramente tese e lo sguardo di fuoco tanta era l'ira che sentivo crescere.
«Hunter, sai che io posso...», tentò di dire Travis, probabilmente accorgendosi che i limiti contenenti la mia calma si erano ormai distrutti.
«Resta dove sei, Travis», gridai senza neanche guardarlo.
Mi posizionai proprio accanto a Sage e con estrema durezza parlai: «Allora? Quale sarebbe il problema?» domandai, spostando circolarmente lo sguardo. «Lei? Toccarla?»
Afferrai le mani della ragazza con un tale impeto che lei sobbalzò, presa alla sprovvista. Gliele strinsi e le sollevai, mostrandole chiaramente a tutti. «Dunque? Non mi pare che mi abbia ucciso, fulminato sul posto o manipolato la mente. E a voi? Siete degli stupidi a credere il contrario!»
Le mie grida arrivarono anche dall'altra parte della sala che calò nel più totale silenzio. A fare da padrone c'ero soltanto io e la mia collera.
Sage abbassò il mento, imbarazzata, e sibilò il mio nome, probabilmente per farmi smettere. Ma poteva scordarselo, non avevo intenzione di lasciar correre su una cosa del genere; non si trattava soltanto dell'ingiustizia che quella ragazzina stava subendo, ma di ben altro: io stavo addestrando dei maledettisimi soldati e quelle femminucce davanti a me erano ciò che vi era di più lontano dall'essere parte di un esercito!
«Siete convinti che lei possa essere davvero un pericolo per qualcuno se non per se stessa?» mollai la presa sulle mani delicate e morbide di lei. «Credete davvero che diventare un Sovvertitore significhi soltanto saper lottare oppure sferrare un buon fendente con la spada? Svegliatevi!» continuai a rimproverarli, a mortificarli con crudeltà, infischiandomene di come si sarebbero sentiti alla fine. Le mie parole non dovevano essere soltanto un modo per far sì che smettessero di temere Sage e ciò che era, ma servivano per permettere loro di capire che cosa voleva dire essere un guerriero fuori da quelle quattro mura.
«Un vero Sovvertitore è dotato di ingegno, raziocinio, intuito e soprattutto, nel mondo in cui viviamo, deve saper distinguere la realtà dall'illusorietà! Adesso è il momento che mettiate da parte le vostre stupide e ridicole credenze e pensiate a quello che avete davanti in modo concreto, perché lì fuori sarà troppo tardi. Io mi rifiuto di allenare degli inetti come voi!» ringhiai contro di loro, arrabbiato e profondamente deluso.
«Non siete pronti neanche un quarto di quanto credevo che foste», esclamai dopo qualche secondo, e la triste realtà dei fatti era essere stato fin troppo sincero.
La sera, a cena, il mio nervosismo non sembrava essersi affievolito ma era riuscito addirittura a compattarsi, ad indurirsi e farsi tremendamente pesante dentro di me. Desideravo con tutte le mie forze che quella giornata - durata fin troppo - finisse prima di costringermi ad imbattermi in nuovi problemi. Non ero riuscito a toccare cibo, tra l'altro, e me ne stavo seduto alla panca, di fronte ad una tavola modestamente imbandita, a fare praticamente nulla, impalato come uno stoccafisso. I miei nervi erano così tesi da non riuscire neanche ad alzarmi e ritirarmi nella mia camera. O più precisamente, non volevo dare l'idea di un uomo che stava per cedere. Per cui, una volta indossata la mia maschera d'indifferenza migliore, provai a fingere di non sentire il bisogno di prendere a pugni qualcosa.
Le risate provenienti dal tavolo adiacente a quello principale, ovvero quello a cui sedevo io, mi distolsero dai miei pensieri cupi. Il gruppetto di Sage stava scherzando come al solito, e sembrava che l'attenzione fosse rivolta proprio alla ragazzina dagli occhi grandi, intenta a raccontare un aneddoto. Forse la mia sfuriata era servita a qualcosa, dopotutto.
«Non ci credo», esclamò meravigliata Salina con la bocca piena.
«Ti sono venuti a cercare? Ma come può essere possibile! Prendono sempre le persone in gruppi pressoché numerosi», precisò Hussain, dubbioso. Stavano parlando dei Custodi e del rapimento di Sage, quasi sicuramente.
Travis non parve riflettere affatto sul quesito e replicò prontamente: «Tu crea un bel casino come quello fatto da Sage e vedi se non vengono a cercare anche te; la prendono sul personale, quei bastardi in armatura!»
«E uno di loro era parecchio arrabbiato, ma niente potrebbe eguagliare l'espressione dell'imbecille che aveva tentato di gettarmi in un pozzo una volta ricevuto un bel calcione alle sue parti intime», Sage si pavoneggiò in modo frivolo, sfoggiando un sorriso calcato.
Mi crucciai per qualche istante, pur essendo vagamente divertito dal siparietto. Era proprio una sorpresa osservare da lontano quel lato della giovane dotata.
«Oh, ricordiamo bene il primo ingresso in questo posto e come hai subito fatto valere te stessa con quello che ad oggi è il tuo superiore», ridacchiò Salina, riportandomi alla mente quell'episodio di cui parlava. Ricordavo anch'io in modo chiaro come quella insolente mi avesse affrontato, convinta di riuscire ad avere la meglio.
«Perché invece non racconti loro qualcosa di più reale, ad esempio?» Zenda, tranquilla fino a quel momento accanto a me, esordì con quell'ironia derisoria del tutto fuori luogo. Ma che cosa le prendeva ultimamente?
Sage la fissò con sconcerto, così come gli altri, domandandosi probabilmente perché si fosse messa in mezzo.
«Come di quando ti hanno gonfiata di botte e l'hai scampata per un soffio!» propose e rincarò la dose, perdendo l'occasione di tacere. Anzi, fece una smorfia storcendo la bocca carnosa, enfatizzando la presa in giro nei riguardi della ragazza. «Non è stato un bello spettacolo, fidatevi di me!»
Bevvi una lunga sorsata d'acqua, rammentando a me stesso che restare fuori da quella diatriba tra mocciose fosse la cosa migliore da fare.
«Credo che raccontare di come tu sia stata presa a calci nel sedere da una bestia alata sia più divertente», ribatté l'altra, più pungente che mai. Il tutto iniziava a prendere una piega davvero ridicola per quanto mi riguardava.
Zenda sbatté una mano sul legno duro, richiamando - purtroppo - l'attenzione di chi invece non aveva notato ancora nulla. Addirittura Laryngard si sporse lievemente per verificare cosa stesse succedendo.
«Almeno io sono rimasta a svolgere il mio dovere e non me la sono data a gambe come una povera e stupida codarda!»
Porca puttana, gridai mentalmente.
Sage si issò puntando entrambi i palmi delle mani sul tavolo e fece per avanzare. «Sentimi bene, vecchia stronza inviperita ed insipida...», disse senza sbraitare, con mia grande sorpresa, ma fu bruscamente interrotta dai propri compagni che l'afferrarono per le braccia e la trascinarono fuori dalla sala.
Tutti i presenti erano troppo impegnati a ciarlare per poter aver udito la discussione tra le due donne, ma a nessuno sfuggì l'immagine di Sage che veniva esortata ad uscire insieme a Salina, Travis e Hussain. Dopo qualche secondo si ritornò alla normalità, specie per i due bambini impegnati a fingere di combattersi l'uno con l'altro tra i tavoli.
Poggiai pesantemente una mano sulla spalla di Zenda e mi avvicinai al suo orecchio affinché potesse ascoltarmi. «Spesso credo che sarebbe meglio che te ne stessi a giocare con quei ragazzini laggiù, ma potrebbe saltar fuori che siano anche più maturi di te!»
E me ne andai, attraversando la mensa tranquillamente, senza voltarmi indietro.
Quando spalancai la porta, il gruppo era ancora lì.
«Non cedere alle provocazioni di Zenda», stava dicendo Salina, bloccandosi però dopo essersi accorta della mia presenza.
«Posso parlare un momento con Sage?» chiesi loro, invitandoli gentilmente a togliersi dai piedi.
I tre si dileguarono, ma lei non sembrò proprio felice di restare da sola con me. Aveva le braccia conserte, le spalle irrigidite e ricurve verso l'interno, il mento basso e un muso lungo. Poteva apparire addirittura tenera in quello stato.
«Quasi sicuramente sarai adirata con me...»
«Puoi togliere quel quasi», m'interruppe senza troppi convenevoli. «Ascolta, tu sei il mio mentore e questo lo rispetto, ma se sei venuto a dirmi di abbassare la cresta con quella razza di...»
«Hai fatto bene a risponderle a modo», fui io ad interromperla, stavolta. «Essere rispettosa non vuol dire sottomettersi ad un proprio insegnante quando si comporta da idiota», e parlavo sul serio, «anche quando a farlo sono proprio io.»
Ammetterlo ad alta voce mi costava una certa fatica, era vero, ma dovevo essere riuscito a stupirla perché non vi fu replica da parte sua. Sembrava così piccola con il collo leggermente inclinato all'indietro per guardarmi in viso.
«Voglio che tu sappia che ciò che hai sentito oggi è stato travisato», era il meglio che potessi fare per arrangiare delle scuse.
Sage scosse il capo, per niente convinta. «Non hai detto nulla di assurdo, Hunter. E' ciò che sono, non rispecchio affatto i canoni della vostra normalità.»
«Sai che non era ciò che intendevo. Il più delle volte mi risulta difficile riflettere sulle giuste parole da utilizzare, specie se messo sotto pressione», mi giustificai quasi con fare impacciato. Non era qualcosa che ero solito fare. «So di esserci andato pesante anche con gli altri durante l'addestramento.»
«Grazie per avermi messa in imbarazzo, a proposito», fece lei, sollevando l'angolo della bocca. Stava scherzando o era forse seria?
«Ti ho difesa», le ricordai, un po' sorpreso di non ricevere quantomeno un grazie.
«Non che tu l'abbia fatto per me. So che era uno stimolo per sbloccare tutti, e sì, sei stato duro ma è stato fatto a fin di bene», i tratti del suo viso si erano distesi, segno evidente della collera oramai passata, in parte.
«Non sbagli, ma ho visto quanto tu ci fossi rimasta male, Sage. Intervenire era il minimo da poter fare.»
Lei annuì, mordicchiandosi l'interno della bocca e calando poi il capo.
«Per cui, tutto risolto? D'ora in avanti mi guarderai senza il desiderio di incenerirmi sul posto?» le domandai, sventolando finalmente bandiera bianca.
«Cercherò di fare il possibile per evitarlo», mi promise e mi donò un sorriso. Non calcato, non frivolo, non rancoroso e nemmeno di sfida, ma un sorriso sincero, pulito, autentico.
Più tardi, una volta chiuso tra le mura della mia stanza, mi parve di tirare un sospiro di sollievo. Ero riuscito a concludere quella giornata stressante senza altri drammi, o almeno così pensavo prima che la porta si spalancasse con violenza per poi essere chiusa con lo stesso impeto.
Non ci fu neanche bisogno di voltarmi per scoprire di chi si trattasse; lo sapevo già.
«Potresti cortesemente spiegarmi?»
«Potresti anche provare a bussare ogni tanto, Zenda», le feci notare, liberandomi della giacca nera e poggiandola sul letto alla mia sinistra, abbastanza grande da contenere due persone.
«Quindi ora è questo che fai? Insegui i ragazzini mortificati?» mi domandò immobile sui gradoni rialzati che dividevano l'entrata dal mio ambiente personale.
«Non ho inseguito proprio nessuno», mi accomodai sul letto il tempo necessario per sfilarmi le scarpe e la maglietta, dopodiché - per un breve istante - la guardai. «Mi sono affrettato a tornare qui perché ho avuto una giornataccia, e indovina chi ha contribuito a renderla tale!»
Lei, zoppicando vistosamente, mi raggiunse e mi afferrò gli avambracci, costringendomi a guardarla. Le ciocche ondulate dei suoi capelli ricadevano leggere sulle spalle, quasi fin sopra il seno, messo in risalto dalla divisa aderente dei Sovvertitori. Dovetti fare uno sforzo per distogliere lo sguardo, provando a smettere di pensare a quante volte avessi toccato e adorato carnalmente la sua pelle.
«Non potrai avercela con me per sempre», disse, il tono di voce più cupo, profondo. Doveva essersi accorta della mia tensione e la stava sfruttando a suo vantaggio.
Come una scena vista e rivista, avvolse le mani attorno alla mia nuca e si fiondò sulla mia bocca.
«Zenda...»
«Mi dispiace averti provocato questo malumore, ma per tua fortuna so come farlo passare», sussurrò tra un bacio ed un altro.
«Smettila», provai ad intimarle poco prima che la sua lingua entrasse in possesso della mia. Il bacio, prima delicato e tranquillo, si tramutò in un uragano di passione e insaziabilità.
Ciononostante, tentai di allontanarla da me prima di cedere ancora e ancora all'irrimediabile desiderio di averla sotto di me. Ma Zenda non voleva saperne, prese ad accarezzarmi ovunque con le sue dita magiche, e quando le sentii scivolare oltre il tessuto dei pantaloni persi completamente il controllo. La spinsi e la sbattei contro la colonna portante color fango nel centro della stanza, premendomi poi contro di lei. Presi a baciarla avidamente, le mani che viaggiavano su tutto il suo corpo fin troppo coperto per i miei gusti. Ero abituato a prendere continuamente da lei, a prendere tutto lasciandola poi senza nulla, consapevole di esser in errore. Probabilmente fu proprio quel pensiero, quel barlume di ragione, a ridarmi le redini del mio stesso autocontrollo.
Le fasciai la gola con le dita, facendo una lieve pressione e sibilandole contro con fare minaccioso. «Ho detto no.»
Mi allontanai, trattenendo il respiro e bloccando tutti i miei istinti. Quanto cazzo era difficile fare la cosa giusta.
«Perché, se è ciò che vuoi? Lo vogliamo entrambi!» mi si parò di fronte, imprigionandomi ancora sotto il suo sguardo scuro, affamato, disperato. «Ti è sempre piaciuto e...»
«Sì, non lo nego, ma sono anche stato chiaro al riguardo», tagliai corto, stanco della sua consueta insistenza.
«Lo so, divertimento e basta! Ma guardami», soffiò, poggiando due dita contro il mio mento e costringendomi a fissarla. «Hunter, tu sai cosa siamo e sai chi sono io, ci conosciamo da una vita; tutto quello che sono diventata io lo devo a te. Non ricordi più come mi hai trovata, dieci anni fa?»
No, la carta del passato no. «Certo che lo ricordo», replicai e con fare brusco mi liberai dalla sua presa. «Mio malgrado, quel pensiero è ancora vivido nella mia mente ed è per questo che non voglio usufruire più del tuo corpo quando più mi aggrada. Dimmi, che cosa mi differenzierebbe dai tuoi fratelli o da tuo padre?» il pensiero di ciò che Zenda aveva passato mi fece rabbrividire dalla rabbia, e riportò a galla vecchi rancori.
«Il fatto che io ti voglio!» esclamò a voce alta. A lei invece non fregava proprio nulla di essere utilizzata come un oggetto, a quanto pareva. Mi accarezzò ancora il volto, quasi piagnucolando. «Voglio che mi baci, voglio che mi tocchi...»
«Zenda, basta!» le afferrai malamente i polsi e la scansai via. «Dobbiamo piantarla con questa cosa.»
L'espressione del volto, dapprima mesta, cambiò in qualcos'altro, un'unione tra la delusione e l'odio. «Abbi la decenza di non fingere che sia per il mio bene, almeno! Scoparmi settimane fa non era così difficile per te!»
«Sei ingiusta», le dissi sinceramente. «L'hai detto anche tu, era una cosa che volevamo entrambi. Mi sono solo reso conto che è sbagliato. Tu sei andata già troppo oltre per colpa mia e io non ho intenzione di ripetere all'infinito i miei errori. Fine della storia.»
Fui diretto, chiaro, non vi erano appigli su cui poter far leva per lei nel mio discorso; doveva soltanto accettare la mia decisione e andare via. Difatti, quasi come se m'avesse letto nel pensiero, si voltò e fece per andarsene, con calma.
Tirai un ulteriore sospiro di sollievo, l'ennesimo in quella giornata, e agguantai la prima maglietta pulita tra la pira di indumenti sullo scaffale blu.
«Che cosa vedi in lei?» chiese d'un tratto, bloccata nuovamente sul ciglio della porta.
«Lei chi?» chiesi di rimando, praticamente subito. Finsi soltanto di non capire, ma sapevo bene a chi si stesse riferendo nonostante non ci fosse un motivo valido per farlo.
«La sciacquetta con degli strani poteri magici.»
Tenni a freno la lingua e indossai la maglia, nascondendo per un secondo il volto irritato al suo interno. «Vedo in lei ciò che vedono gli altri: potenziale, materiale grezzo da modellare a nostro vantaggio.»
Sentii Zenda emettere uno sbuffo per poi affermare con convinzione: «Lei ti piace.»
Mi voltai a guardarla in fretta, spazientito e pronto a cacciarla da camera mia se fosse stato necessario. Ne avevo abbastanza. «Sul serio? Vuoi davvero metterti a fare una scenata di gelosia?»
Lei restò a scrutarmi, provando a leggermi dentro ancora una volta. L'ultima. «C'è qualcosa che ti attrae in lei, non è vero?» non fu una vera e propria domanda, ma un'affermazione fatta con rassegnata convinzione.
«E' poco più che una bambina!»
«Sai, Hunter, ti ho detto che sai chi sono ed è vero. Ma anch'io so chi sei e ti conosco abbastanza da decifrare ogni tuo sguardo anche quando cerchi di nasconderti dietro la tua spessa coltre di ghiaccio», e senza guardarsi indietro, mi lasciò da solo con il peso delle sue parole.
Ore dopo, nel cuore della notte, ero riuscito a rigirarmi nel letto più di un centinaio di volte. Non ero stato proprio capace di spegnere il cervello e annullare ogni mio pensiero: Zenda, Sage e i suoi poteri, la responsabilità di addestrare i difensori delle terre in cui vivevo, l'ansia di essere attaccati da un momento all'altro. Sentivo il peso di migliaia di vite sulle mie spalle, come se l'esito degli eventi fosse dipeso soltanto da me. Avevo impiegato tutte le mie forze per trovare quel vantaggio garante di una possibilità in più, sin da quando Laryngard ci aveva fatto leggere dei manoscritti che attestavano l'effettiva esistenza dei sette figli di Eritrea, convinto che dopo averlo trovato tutto sarebbe stato in discesa. Quanto mi ero sbagliato! Le cose sembravano essersi fatte ancora più difficili, invece. Era inverosimile.
Cambiai ancora posizione, poggiando il peso del corpo sul lato sinistro. Era routine per me non riuscire a chiudere occhio, ma il più delle volte mi ritrovavo a fissare il soffitto con i pensieri rivolti all'addestramento dei ragazzi, alle tecniche, agli sviluppi.
Qualcuno bussò contro la mia porta, provocandomi un cipiglio. Accidenti a Zenda.
Lanciai uno sguardo veloce alle mie spalle per poi ritornare subito in posizione semi fetale, deciso ad ignorare completamente quell'ostinazione.
Un altro colpo.
Perché aprirle? Per ribadire ancora la mia scelta? Non volevo più ferirla. Poi però me la immaginai in lacrime fuori la mia camera, avvilita. Magari, mi dissi, avrei potuto invitarla ad entrare e calmarla fino a farla addormentare, discutendo meglio con lei soltanto il giorno dopo.
Inspirai pesantemente e mi alzai, attraversando la stanza a piedi nudi. Pregai di non dover affrontare un'altra discussione come quella di qualche ora prima. Non ne avevo la forza mentale.
Ma quando spalancai la porta trovando davanti una lunga chioma castana e non del colore della pece, restai interdetto. Pallida, gli occhi lucidi, quasi sconvolta; dalla narice destra e dall'angolo della bocca colavano due rivoli di sangue.
«Irina», esclamai, in un primo momento sorpreso. «Entra», dissi con più tranquillità. Non ero sorpreso di vederla fuori dalla mia camerata, lei ed io avevamo abbastanza confidenza da poterlo fare, ma era il suo stato ad avermi lasciato senza parole.
La feci accomodare sul bordo del letto scomparendo poi a recuperare uno straccio inumidito con dell'acqua - versata dalla caraffa -, e intanto la sentivo farfugliare qualcosa.
«Mi dispiace», si giustificò. «Non sapevo dove andare», continuava a dire. Lo faceva sempre.
Quando tornai da lei e la fissai, amareggiato e cosciente di cosa le fosse successo, si limitò soltanto a fare spallucce, tesa e concentrata a provare a non piangere, mantenendo la sua solita postura da dura. Ma era con me in quel momento, sapeva di poter abbandonare quella corazza falsamente impossibile da scalfire.
Mi calai sulle ginocchia, tamponando le zone in cui aveva riportato ferite. «Ti ha picchiata un'altra volta?» le chiesi, il tono distaccato che nascondeva una rabbia inaudita verso l'unico uomo - se così si poteva definire - oggetto del mio disprezzo più di quanto lo fosse Lord Victor.
Lei evitò il mio sguardo, come d'abitudine. Sapevo che provava una profonda vergogna per se stessa, e il fatto che fosse corsa da me significava per lei essere alla deriva. Irina era cresciuta in fretta, da sempre avvezza ad affrontare le proprie battaglie da sola.
Non aveva ancora fatto i conti con quel figlio di puttana di Kenneth, però.
«Che cosa è successo?» la spronai a parlare, smettendo di accudirla e massaggiandole la coscia.
Si fissò le dita per qualche secondo, prendendo quasi coraggio prima di spiegarmi com'erano andate le cose. «Sono andata da Kenn come faccio spesso. Il più delle volte è lui stesso a chiedermelo», precisò, sapendo quanto fossi contrario a quella sorta di relazione che aveva intrapreso con quell'essere. «All'inizio sembrava sorpreso di vedermi alla sua porta, ma non ci ho dato poi così tanto peso e sono entrata comunque. Mi ha esplicitamente detto che non era il momento giusto e mi ha poco gentilmente invitata ad andare via», tirò un sospiro, l'espressione cupa. «Io ho insistito e...», ancora una pausa.
«Non ha sopportato che avessi ignorato il suo diniego e mi ha colpita, più volte», sussurrò appena, consapevole che stesse per arrivare il mio scatto d'ira. Difatti mi fu impossibile trattenere un'imprecazione proprio mentre mi allontanavo da lei. Non aveva bisogno di qualcuno che le inveisse contro, lo sapevo bene, ma non riuscivo a credere come fosse capace di mandare giù quei trattamenti immeritati.
«Irina, cazzo», esclamai, furente. «Sei una Sovvertitrice, perché non ti difendi? Ma soprattutto perché diavolo continui a star dietro a quell'animale?»
Sul volto di lei comparve un sorriso amaro, l'ultima cosa che mi sarei aspettato di vedere. «Secondo te, Hunter? Perché Zenda continua a guardarti in quel modo sapendo che non sarà mai ricambiata?»
Quel paragone mi prese violentemente di sorpresa. «Che cosa c'entra Zenda?» brontolai, corrucciato.
«Davvero non lo capisci? E' innamorata, così come lo sono anch'io di Kenneth. E non dirmi che non è tempo per l'amore, non dirmi che non possiamo permetterci di farci distrarre dai nostri stessi sentimenti, per favore», mi avvertì, aprendo quella piccola parentesi ed utilizzando le parole che spesso usavo io. «So che tu detesti Kenn, ma siete simili sotto un certo punto di vista.»
«Non paragonarmi a quella bestia, Irina!» ringhiai puntandole l'indice contro.
Lei non si scompose minimamente, era abbondantemente abituata alle alterazioni del mio umore. «Hunter, io ti considero come un fratello, ma sai anche tu che sto soltanto dicendo la verità. Entrambi sfruttate due donne per soddisfare i vostri appetiti e piaceri personali, incuranti delle ferite che potete infliggere loro.»
Avrei voluto dirle qualcosa, ripeterle di non azzardarsi più ad accomunarmi ad uno come Kenneth, ma alla fine dei conti lei aveva ragione: era proprio ciò che avevo fatto con Zenda. L'avevo usata per così tanto tempo dopo aver scoperto di non sentire nulla per lei, non in quel senso. Quando era cominciata, credevo davvero di poter provare dei sentimenti sinceri; eravamo giovani e ci allenavamo l'uno accanto all'altra.
Scossi il capo, giudicando me stesso e le mie azioni, fin troppo pensieroso. «Probabilmente hai ragione. Ed è per questo che ho deciso di chiudere definitivamente con lei, cosa che ho fatto proprio questa sera.»
Irina inspirò e sollevò le spalle, riflettendo per un attimo sulla notizia ricevuta. Comprendevo che fosse strano sentirlo poiché io e Zenda, pur non essendo mai stati una coppia effettiva, eravamo sempre stati insieme in un certo senso.
«Come l'ha presa?»
Feci una smorfia e roteai leggermente gli occhi. «Figurati. Era così fuori di sé che ha iniziato a delirare, e ad un certo punto ha addirittura dato la colpa a Sage. Assurdo», l'informai, ancora incredulo che una donna come Zenda potesse temere una piccoletta come Sage.
«Chi?» esclamò Irina, improvvisamente divertita. «Quella che...» e ondeggiò il capo, agitando poi il dito contro la sua tempia e facendo una faccia stramba.
Mi accigliai così tanto da sentire una forte pressione alla fronte, proprio tra le sopracciglia. Rivolsi alla ragazza uno sguardo più che severo; era già la seconda volta che insultava una sua compagna e si comportava da vera stronza. Doveva darci un taglio.
Ricevetti invece un'occhiata sospetta, come se quella mia reazione avesse fatto scattare qualcosa in Irina, gli ingranaggi della sua mente erano tutti in movimento, pronti a scovare qualsiasi segno di cedimento da parte mia. Che cosa cercava di capire?
«Non è pazza», mi affrettai a precisare una volta per tutte. «E' una risorsa importantissima per noi tutti e affronta già in modo difficile quel lato di sé, non voglio più dover ascoltare queste battutine stupide, mi sono spiegato? Lei è indispensabile per i Sovvertitori.»
«Lo è anche per te?»
«Ti ha mandato Zenda, per caso?»
«Smettila di tergiversare. E' più che una risorsa per te?» mi domandò in modo schietto e ogni traccia di malumore sembrò svanire. Scosse le spalle, scimmiottando un movimento sensuale ed esclamò risoluta: «Insomma, te la immagini a fare del sesso selvaggio con te proprio come faceva Zenda?»
Ed ecco l'ultima stronzata che ero stato costretto ad ascoltare in quella giornata pazzesca e tremendamente fuori da ogni logica. Afferrai il cuscino e lo tirai con forza contro quella sfacciata, intimandole di dormire sul mio letto prima che cambiassi idea. Non era la prima volta neanche per questo, dopotutto. Irina era davvero come la sorella che non avevo mai avuto, e anche se era una donna particolare, ero molto legato a lei.
Mi sistemai sul pavimento, ascoltando distrattamente la gratitudine della giovane, ma viaggiando con la mente in un altro luogo. A differenza dei soliti pensieri, in quel momento mi concentrai solamente sulle insinuazioni di Zenda e sulle parole di Irina. Non era una novità che notassero dell'interesse in ogni nuova donna che entrava a far parte del nostro Ordine, ma il vero stupore nasceva nello scoprire che, a differenza di tutte le altre volte, non mi faceva ridere quel pensiero che mi avevano impiantato nella mente con la forza. Sì, Sage era una ragazzina, ma era anche una bella donna sotto quel punto di vista. Oltre alla bellezza fisica, poi, vi si aggiungeva un lato caratteriale che mi incuriosiva, partendo dalla sua sfrontatezza alla sua dolcezza.
Mi rimproverai da solo, chiedendomi a cosa diavolo andassi a pensare. Era irragionevole immaginare di avere anche un'avventura con quella ragazza per un milione di motivi: il primo era sicuramente il rischio di danneggiare un rapporto strettamente ''lavorativo''; lei aveva bisogno di una guida, non di qualcuno che volesse entrare nei suoi pantaloni. E poi, considerando l'esperienza avuta con Zenda, volevo davvero imbattermi in altre scenate di gelosia? Essere la nuova ossessione di qualcuno proprio non mi andava.
Certo, Sage era carina in un modo tutto suo. Sin dal nostro primo incontro avevo capito che la sua fosse una bellezza particolare: una bellezza di gioventù. E sapevo che dietro la sua corazza spessa di diffidenza e aggressività - così simile alla mia - si celassero purezza, innocenza, integrità. Che cosa ci faceva in mezzo a noi? Tutto quell'odio, quel rancore, quel senso di vendetta che covavamo l'avrebbe rovinata. In cuor mio mi ritrovai a sperare che fosse abbastanza forte da non cambiare, da restare l'insolente ragazzina di sempre.
Sorrisi, per una frazione di secondo, senza un apparente motivo. E dormii beatamente fino al mattino.
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